Passi indietro sulla via del federalismo

di 14 Maggio 2002 Lavori Pubblici

Articolo di Vincenzo Cerulli Irelli (di prossima pubblicazione su "Europa")

Anzitutto, una piccola soddisfazione; con il sapore, anche, della rivincita. Dopo due anni di critiche in genere non motivate ma ben determinate nella valutazione negativa della riforma del Titolo V della Costituzione (“una riformetta”, “acqua fresca”, una riforma “sbagliata e inapplicabile”, causa di conflitto istituzionale permanente, e così via) l’attuale maggioranza di governo ci trasmette un testo di “riforma della riforma”, che su diciotto articoli della Costituzione già modificati o interamente riscritti, tocca soltanto alcuni commi di tre articoli. Modifiche rilevanti sono apportate invece agli artt. 116 e 117. Esse, in larga misura discutibili, non spostano tuttavia l’impostazione complessiva del testo, come quello che determina una nuova forma del governo territoriale del Paese o se si vuole, del tipo di Stato.

Una forma accentuatamente pluralistica. La Repubblica formata da una pluralità di livelli di governo politici, lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni, ciascuno con diversi poteri e funzioni, ma tutti accomunati dalla rappresentatività generale degli interessi della comunità; dotati perciò del carattere proprio della politicità ed equiparati sul piano costituzionale. L’amministrazione fondamentalmente imputata al governo locale sulla base del principio di sussidiarietà sia nelle materie di competenza legislativa statale che in quelle si competenza legislativa regionale. Il governo locale ampiamente ristrutturato e la sua disciplina adattata ai principi di differenziazione e di adeguatezza che costituiscono il del principio di sussidiarietà.

La potestà legislativa statale e regionale distinta per materie di competenza; ma le leggi sia statali che regionali, soggette esclusivamente allo scrutinio di costituzionalità avanti alla Corte Costituzionale. Le leggi regionali perciò sottratte a qualsiasi forma di controllo governativo. Le une e le altre equiparate sul piano formale come fonti dell’ordinamento positivo, limitate soltanto dal rispetto dei principi costituzionali e dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’ordinamento europeo. Il governo locale come quello regionale, liberato dai controlli di legittimità che prima ne intralciavano l’azione e l’assunzione piena delle responsabilità nell’esercizio delle rispettive funzioni di governo. I controlli soppressi; salvo a ricostituirne delle forme nuove in vista dell’esigenza di garantire l’efficienza dell’amministrazione e il rispetto dei principi di economicità e di stabilità finanziaria. La finanza decisamente trasformata in finanza autonoma, ogni ente del governo territoriale chiamato a vivere con i mezzi propri, con proventi derivanti, secondo diverse modalità tecniche, dal prelievo fiscale riferibile al proprio territorio, salvi i principi di perequazione. Soppressi i trasferimenti erariali con vincolo di destinazione, strumento sicuramente limitativo o addirittura repressivo dell’autonomia di governo delle comunità locali.

        Questi, come è noto, sono i punti determinanti della riforma che fu attribuita all’Ulivo, ma che in verità fu il frutto di un’ampia partecipazione di tutto il mondo rappresentativo delle comunità regionali e locali. Certamente non il prodotto di un colpo di mano della maggioranza di allora, come taluno incautamente ha detto, e come dimostra adesso la proposta uscita dalla nuova maggioranza, quella di oggi, che sostanzialmente ne conferma le linee portanti.

        La “riforma della riforma” consta fondamentalmente di tre modifiche del precedente testo. Anzitutto viene soppresso il terzo comma dell’art. 116 che prevede la possibilità per alcune regioni, evidentemente dotate di maggiori capacità di governo, di proporre un progetto di autonomia differenziata (“forme e condizioni particolari di autonomia”) tale da estenderne le funzioni di governo a ulteriori materie rispetto a quelle previste per tutte le regioni; con un regime di autonomia finanziaria differenziata e maggiori mezzi finanziari a disposizione.

Il progetto di autonomia differenziata viene negoziato dalla singola regione col Governo e poi deve essere approvato dal Parlamento, secondo un modello che in Spagna ha avuto qualche successo. Si tratta perciò di un’opportunità che viene concessa a singole regioni e anche di uno strumento che la Costituzione mette nelle mani del Governo. Una opportunità e non un obbligo, nè un vincolo. Una opportunità intesa a rendere più elastico il sistema di governo complessivo del Paese al fine di adeguarne l’impostazione, laddove necessario, ad esigenze di differenziazione territoriale. Il perchè questo strumento debba essere eliminato è cosa del tutto incomprensibile che va contro gli interessi sia delle regioni, sia del Governo, sia del Parlamento!

Importanti (e preoccupanti) modifiche vengono introdotte all’art.117, circa l’assetto del potere legislativo. Fondamentalmente su due punti: sulla distribuzione delle materie tra la competenza statale e quella regionale e sulla reintroduzione dell’interesse nazionale come criterio limitativo della potestà legislativa regionale.

        Credo di poter affermare che l’elencazione delle materie nell’art.117 fu compilata con una certa fretta, e presenta sicuramente dei punti critici, come noi abbiamo dichiarato fin dal primo momento; e quindi ne ritengo possibile, e in qualche modo auspicabile, una parziale revisione. Tuttavia il testo del Governo appare assolutamente squilibrato in senso centralista. Se venisse approvato, la potestà legislativa delle regioni sarebbe assai più ridotta rispetto a quella disegnata dal testo vigente.

Alcune materie oggi di competenza legislativa concorrente (nelle quali cioè legislazione statale e legislazione regionale sono presenti, rispettivamente per i principi e per la disciplina c.d. di dettaglio) vengono riassegnate alla competenza esclusiva dello Stato. Le grandi reti di trasporto e di navigazione, le infrastrutture di rilievo nazionale, la produzione e il trasporto dell’energia, l’ordinamento della comunicazione, finanche la promozione, organizzazione di spettacoli e manifestazioni sportive di rilevanza nazionale! Si tratta di materie nelle quali l’interesse statale o nazionale può essere anche ritenuto prevalente; e tuttavia l’interesse regionale, o territoriale se si vuole, è anch’esso presente e necessita di una considerazione e di una tutela. Questa è la ragione per la quale queste materie nel testo vigente sono attribuite alla competenza concorrente. Si possono anche trovare meccanismi di compenetrazione tra interesse nazionale e interesse regionale meno complicati di quelli suscitati dall’esercizio di potestà legislativa concorrente. Però resta inaccettabile, in un sistema dichiaratamente regionalista, che tende al federalismo, escludere l’interesse regionale dall’assetto di queste materie.

Mi limito a sottolineare un punto: nelle realizzazioni delle grandi infrastrutture del Paese, dalle strade alle ferrovie agli impianti di telecomunicazione, agli         elettrodotti, e così via, emerge sicuramente un interesse regionale (e anche locale), per tutto quanto concerne la dislocazione territoriale delle opere e degli impianti di cui si tratta. Peraltro, questo interesse era stato riconosciuto pacificamente anche nel precedente ordinamento costituzionale (quello anteriore alla riforma del titolo V) e non si vede perciò in base a quale criterio adesso si vorrebbe cancellare. Una volta decisa, ad esempio, la realizzazione di una grande opera, si tratta di stabilire la sua collocazione sul territorio; e a questo punto emerge l’interesse regionale e quindi anche l’esigenza di attivare una capacità di governo in capo alla regione. Cancellare per queste materie la competenza concorrente appare, perciò, una misura eccessivamente squilibrata in senso centralistico.

        Sull’ordinamento degli enti locali (organi di governo, legge elettorale e funzioni fondamentali) la proposta del Governo compie un’operazione in qualche modo inversa, attribuendo alla competenza dello Stato l’ordinamento “generale” di questi enti, e cioè lasciando alle regioni la capacità di dettarne la disciplina di dettaglio. Mentre nell’attuale testo, sui medesimi aspetti relativi all’ordinamento degli enti locali, la potestà legislativa spetta esclusivamente allo Stato. E’ noto che su questa scelta vi fu, all’epoca, un ampio dibattito e la norma vigente è stata il frutto di una richiesta precisa che veniva da tutto il mondo delle autonomie, accettata dalle regioni, tale da porre gli enti locali al riparo da differenziazioni normative prodotte nelle diverse regioni. Tale scelta  è in asse con la nostra impostazione costituzionale che vede, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti di tipo federale, regioni ed enti locali accomunati, come enti del governo territoriale, in una posizione di parità nell’assetto complessivo della Repubblica. Modificare su questo punto il difficile equilibrio raggiunto, potrebbe aprire la strada ad un accentuato conflitto istituzionale.    

Mentre è da condividere l’introduzione, tra gli oggetti della potestà legislativa dello Stato, l’ordinamento generale degli enti di autonomia funzionale, (già previsto, peraltro, nel testo della Bicamerale D’Alema). Ciò che fa emergere al livello costituzionale anche questi enti, come espressione dell’autogoverno dalla società civile, tra gli enti di governo della Repubblica; garantiti perciò nello loro esistenza e nelle loro funzioni fondamentali direttamente dalla legge dello Stato.

        La seconda rilevante modifica apportata all’art. 117, riguarda la reintroduzione del criterio dell’interesse nazionale come limite la potestà legislativa regionale. Le regioni infatti, secondo il testo proposto, esercitano la loro potestà legislativa “nel rispetto dell’interesse nazionale”. Vorrei ricordare che il criterio dell’interesse nazionale era presente nel testo approvato dalla Bicamerale D’Alema; ma fu espunto da un voto, ampiamente condiviso da quasi tutte le forze politiche, della Camera dei Deputati. La sua assenza dal testo attualmente in vigore, perciò, non è frutto di una scelta della maggioranza di allora ma è frutto di un’ampia convergenza di posizioni.

Il suo ritorno nel testo costituzionale comporta fondamentalmente due cose. Anzitutto una forte limitazione della potestà legislativa regionale, già ampiamente limitata dalla legislazione statale nelle materie di competenza esclusiva dello Stato: chè infatti ogni intervento legislativo regionale, pur nelle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva delle regioni (e anche in quelle che il testo Bossi voleva oggetto di “devolution”) può essere giudicato in sede di costituzionalità sotto il profilo della sua conformità all’interesse nazionale, ad esempio al fine di garantire l’unità dell’ordinamento. Criterio unificante, perciò, da molte parti auspicato proprio per questo, che mortifica tuttavia la capacità innovativa della legislazione regionale e in definitiva la stessa capacità di governo delle singole regioni. La seconda conseguenza riguarda la possibilità per lo Stato di intervenire con provvedimenti legislativi anche nelle materie di competenza legislativa regionale, laddove questo sia reso necessario da esigenze rapportabili all’interesse nazionale.

        Quindi il criterio di rigido riparto delle competenze seguito dal testo vigente, che è garanzia del rispetto dei diversi ambiti di autonomia degli enti a fronte dello Stato, viene sostituito da un criterio elastico che consente una sovrapposizione di leggi dello Stato e leggi delle regioni sulle diverse materie e in certo modo riporta la legislazione regionale al rango di legislazione subordinata.

        Tutto questo, si tenga ben presente, in assenza di una Camera delle regioni che, secondo il modello tedesco, potrebbe “autorizzare” interventi statali unificanti anche nelle materie regionali. E la stessa “Bicameralina” che avrebbe dovuto portare i rappresentanti delle regioni e degli enti locali dentro il Parlamento, al fine di esprimersi sui principali interventi legislativi concernenti il governo territoriale,  è ben lontana dall’essere istituita.

        In conclusione, la posizione costituzionale delle regioni, come enti titolari di potestà legislativa primaria e perciò dotati di caratteristiche tali da avviarne una configurazione come soggetti “federati”, viene  del tutto ridimensionata; in pratica “normalizzata”.

Ciò da parte di una maggioranza di governo che ha fatto del “federalismo” una sua bandiera.

Vincenzo Cerulli Irelli