Sulla fiscalizzazione dell’abuso edilizio, di Paolo Urbani

Con la sentenza 19 ottobre 2023, n. 9095, il Consiglio di Stato, sez. II, ha ribadito che in tema di fiscalizzazione dell’abuso edilizio, i vizi cui fa riferimento l’art. 38, D.P.R. 380/2001 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione, mentre l’istituto non può estendersi alle ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato annullato per vizi sostanziali, in quanto si tradurrebbe in una sorta di condono affidato alla valutazione dell’Amministrazione in deroga alla disciplina urbanistica, ambientale o paesaggistica.

Il ricorrente impugna la sentenza con cui il TAR ha dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado proposto per l’annullamento del provvedimento di fiscalizzazione dell’abuso di cui all’art. 38 del DPR n. 380 del 2001, emesso rispetto a un immobile con destinazione abitativa oggetto di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione.

In punto di fatto si rileva che il fabbricato in questione era stato demolito dai proprietari, i quali avevano poi avviato i lavori per la sua ricostruzione, senza chiedere e ottenere il necessario il titolo edilizio.

In seguito, su istanza dei titolari, il Comune ha rilasciato: il permesso di costruire per la sanatoria delle opere di demolizione del fabbricato civile esistente; il permesso di costruire per la sua riedificazione.

Ritenendo che fosse in contrasto con lo strumento urbanistico, l’odierno ricorrente ha impugnato il permesso di costruire (ossia il titolo che aveva legittimato la ricostruzione) dinanzi al TAR.

Il Tribunale ha disatteso le censure, sostenendo che il Comune non potesse distinguere e assoggettare a diverso regime interventi che il legislatore aveva accomunato nell’ambito della nozione unitaria di “ristrutturazione” e che il “progetto unitario” richiesto dal Piano particolareggiato dovesse essere riferito al singolo edificio, in modo da evitare un “frazionamento” di interventi sullo stesso fabbricato, e non all’intera unità disciplinata dalla scheda.

Il ricorrente ha quindi proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato che ha accolto il gravame, ritenendo che la prevalenza delle definizioni degli interventi recate dall’art. 3 del DPR n. 380 del 2001 sugli strumenti urbanistici generali e sui regolamenti edilizi non implica affatto che i Comuni non possano disciplinare le attività concretamente assentibili in specifiche zone, esercitando l’autonomia statutaria e normativa riconosciuta loro dall’art. 2 del medesimo decreto; nella specie, l’intervento è stato quindi ritenuto in contrasto con le NTA del Piano particolareggiato.

In seguito, il Comune, dovendo dare esecuzione alla pronuncia, ha presentato ricorso al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza.

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile, in quanto il Consiglio ha ritenuto che esso si risolvesse nella richiesta di una sorta di preventivo, irrituale, “parere” circa la possibilità di una sanatoria ex art. 38 d.P.R. n. 380/2001, che profila un’anomala devoluzione di potere amministrativo all’ambito cognitorio dell’ottemperanza.

Il Comune, premettendo che il giudizio aveva avuto a oggetto il solo titolo legittimante la ricostruzione e non anche quello che aveva sanato la demolizione, ha quindi avviato il procedimento per l’annullamento in autotutela del permesso di costruire.

L’Ente ha infine applicato nei confronti dei precedenti proprietari dell’immobile – già destinatari dei titoli caducati – la sanzione pecuniaria di cui all’art. 38 del DPR n. 380 del 2001, così producendo i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’art. 36 del medesimo decreto.

Il vicino, già ricorrente nel precedente giudizio, ha impugnato il provvedimento dinanzi al TAR.

Il Tribunale ha dichiarato inammissibile il ricorso. Avverso la pronuncia l’interessato ha proposto appello.

L’appellante sostiene che la motivazione del provvedimento emanato dal Comune sia illogica e comunque non sussistano i presupposti di cui all’art. 38 del DPR n. 380 del 2001, perché da un lato il titolo che legittimava la costruzione è stato annullato per vizi sostanziali, dall’altro la demolizione non può dirsi impossibile, come dimostrato proprio dall’avvenuta demolizione dell’edificio preesistente; sul piano procedurale, inoltre, l’appellante denuncia che il Comune non ne abbia acquisito il “parere” prima di assumere le proprie determinazioni su come dare esecuzione al giudicato di annullamento.

In questa parte l’appello è infondato.

La c.d. “fiscalizzazione dell’abuso” disciplinata dall’art. 38 del DPR n. 380 del 2001 è applicabile rispetto a interventi edilizi eseguiti in base a un permesso di costruire che sia stato poi annullato e consente di ottenere i medesimi effetti della sanatoria di cui all’art. 36 mediante integrale corresponsione di una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere, come stimato dall’Agenzia del territorio (poi incorporata nell’Agenzia delle entrate), qualora ricorra uno dei seguenti presupposti: non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative; oppure non sia possibile la restituzione in pristino. Come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, l’effetto della disposizione «è quello di tutelare, al ricorrere di determinati presupposti e condizioni, l’affidamento ingeneratosi in capo al titolare del permesso di costruire circa la legittimità della progettata e compiuta edificazione conseguente al rilascio del titolo, equiparando il pagamento della sanzione pecuniaria al rilascio del permesso in sanatoria» (sent. n. 17 del 2020).

Con riferimento alla prima condizione – ossia la motivata valutazione circa l’impossibilità della rimozione dei vizi delle procedure amministrative – sempre l’Adunanza Plenaria ha precisato che «i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione», mentre l’istituto non può estendersi alle ipotesi in cui il titolo edilizio sia stato annullato per vizi sostanziali, in quanto si tradurrebbe in una sorta di condono affidato alla valutazione dell’Amministrazione in deroga alla disciplina urbanistica, ambientale o paesaggistica.

Nel caso di specie, a ben vedere, i vizi che inficiavano i titoli che legittimavano le opere eseguite hanno natura procedurale e non sostanziale.

Occorre altresì osservare che nella specie ricorre anche la condizione dell’impossibilità della restituzione in pristino. Sul punto il Consiglio ritiene di aderire all’orientamento che – alla luce della logica che ispira l’art. 38 del DPR n. 380 del 2001, ossia tutelare l’affidamento del privato che abbia confidato nella validità del permesso di costruire rilasciatogli – intende il concetto d’impossibilità di ripristino non solo come impossibilità tecnica (com’è nell’art. 34, co. 2, del medesimo decreto, laddove si richiede di valutare se la demolizione della parte abusiva dell’immobile possa eseguirsi «senza pregiudizio della parte eseguita in conformità») ma, interpretando la norma alla luce dei principi generali di ragionevolezza e proporzionalità cui deve conformarsi l’azione amministrativa, lo ritiene riferibile anche nei casi in cui l’intervento, pur tecnicamente possibile, comporti un onere palesemente sproporzionato e irragionevole, rispetto allo scopo di ripristinare la legalità violata, per il soggetto gravato (in questi termini, si v. Cons. St., sez. VI, sent. n. 7508 del 2019).

Nel caso di specie si deve rammentare che l’intervento abusivo, di cui si dovrebbero eliminare le conseguenze, è consistito nella demolizione e ricostruzione di un fabbricato: pertanto, la restituzione in pristino non dovrebbe comportare puramente e semplicemente la demolizione del manufatto esistente, ma anche la riedificazione di quello precedente (meglio, di un immobile con caratteristiche analoghe a quello che vi era prima), circostanza che, pur non comportando il difetto d’interesse dell’appellante-ricorrente all’annullamento del provvedimento emesso ai sensi dell’art. 38 (essendo questi intenzionato a contestare l’immobile nella sua attuale configurazione), rileva ai fini della valutazione dell’impossibilità – intesa anche come ragionevolezza e proporzionalità – del ripristino quale presupposto dell’atto censurato.

Pertanto, il ripristino dello stato dei luoghi precedente all’intervento di demolizione e ricostruzione, pur tecnicamente eseguibile, è invero “impossibile”, in quanto palesemente sproporzionato e irragionevole, perché condurrebbe alla riedificazione di un fabbricato con caratteristiche analoghe a quello attualmente esistente.

In conclusione, sussistono entrambe le condizioni alternative in presenza delle quali l’art. 38 del DPR n. 380 del 2001 consente la “fiscalizzazione dell’abuso” e di questo dà adeguato conto il provvedimento impugnato che, anche sotto il profilo della motivazione, è immune dalle censure dedotte dal ricorrente.

Il ricorso di primo grado è dichiarato quindi ammissibile, ma deve essere respinto nel merito.