Sul mutamento di destinazione d’uso di locale tecnico, di Paolo Urbani

Con sentenza 23 novembre 2023, n. 10062, il Consiglio di Stato (sez. VI) ha ribadito che il mutamento della destinazione d’uso, accompagnato da una risistemazione strutturale interna del volume originariamente non abitabile, risulta incompatibile con il concetto di risanamento conservativo, che presuppone la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio. Infatti la categoria del risanamento conservativo comprende il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio al fine di consentire il recupero dell’edificio esistente, che si vuole conservare. Viceversa, il mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura quantomeno un’ipotesi di ristrutturazione edilizia; ciò in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Inoltre, il fatto che i “nuovi locali” non rispettino le altezze di legge necessarie per la sua destinazione residenziale aggrava la situazione abusiva concretizzatasi, non potendosi assumere che, siccome non sono rispettate le altezze, l’allestimento di detto volume non sia destinato alla fruizione umana, incompatibile con quella precedente di mero ricovero degli impianti.

L’appellante è proprietario di un immobile sito in Sabaudia; l’appezzamento ricade, tra l’altro, in area soggetta ai vincoli imposti dal D.lgs. n. 42/2004 (Tutela paesaggistica-ambientale), dal D.P.R. 4.4.2005 istitutivo dell’Ente Parco nazionale del Circeo e dal R.D.L. n. 3267/1923 (Vincolo Idrogeologico). L’area è inoltre ricompresa nella perimetrazione stabilita con D.G.R. del Lazio del 19.3.1996, in attuazione della Direttiva 92/43/CEE (habitat), che ha definito le Zone di Protezione Speciale.

Con ricorso al Tar per il Lazio, l’appellante ha impugnato l’ordinanza di demolizione con la quale il Comune di Sabaudia ha contestato la realizzazione, al di sotto del predetto fabbricato, di una unità immobiliare con struttura portante in muratura della superficie di mq 118 circa.

Il Tar per il Lazio ha respinto il ricorso.

Avverso tale pronuncia ha proposto appello l’originario ricorrente.

Con ulteriori ricorsi al Tar, l’appellante ha impugnato i provvedimenti con i quali il Comune ha respinto le domande di condono edilizio presentate dall’appellante ai sensi della L. n. 326/2003, relative a ulteriori abusi realizzati sul terreno di proprietà.

Con molteplici sentenze sono stati respinti gli altri ricorsi.

Avverso tali pronunce ha proposto appello l’originario ricorrente.

Ad avviso del Consiglio, gli appelli sono infondati.

Quanto alla preesistenza del piano interrato, sul piano astratto giova ricordare che la giurisprudenza amministrativa è pacifica nel gravare il privato dell’onere di dimostrare l’esistenza di un titolo edilizio legittimante la costruzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 22/06/2022, n. 5132). Alla luce di tale principio si giustifica l’assunto del Tar, che si è espresso in senso dubitativo circa la preesistenza del piano interrato in ragione del fatto che lo stesso, per quel che consta, non è assistito da alcun titolo e non era stato neppure indicato nelle diverse domande di condono presentate dal ricorrente per le opere abusivamente realizzate nella medesima area. Sempre sul piano teorico, non risulta idonea a supplire a tale carenza probatoria la relazione tecnica depositata in primo grado, tenuto conto che “una perizia di parte, ancorché giurata, non è dotata di efficacia probatoria e pertanto non è qualificabile come mezzo di prova” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 19/07/2018, n. 5128). Le dichiarazioni contenute nella suddetta relazione non possono neppure assurgere a prova testimoniale come prospettato da parte appellante, non potendosi riconoscere alle stesse alcun valore probatorio, in quanto introdotte in giudizio al di fuori della procedura all’uopo stabilita della legge (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 18/05/2021, n. 3853).

La sentenza del Tar ha correttamente reputato irrilevante l’aspetto relativo alla preesistenza del seminterrato, dal momento che i lavori compiuti dall’appellante all’interno dello stesso costituiscono di per sé un abuso perseguibile con la sanzione del ripristino. Infatti, la trasformazione posta in essere dall’appellante doveva necessariamente essere assistita da un adeguato titolo edilizio che, nel caso di specie, è insussistente.

La categoria del risanamento conservativo comprende il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio al fine di consentire il recupero dell’edificio esistente, che si vuole conservare (cfr. Cons. St., Sez. V, 5 settembre 2014, n. 4523). Il mutamento della destinazione d’uso, accompagnato da una risistemazione strutturale interna del volume originariamente non abitabile, risulta invece incompatibile con il concetto di risanamento, che presuppone la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio (cfr. Cons. St., Sez. V, 17 marzo 2014, n. 1326). Anche la giurisprudenza penale ha chiarito che il mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura quantomeno un’ipotesi di ristrutturazione edilizia; ciò in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente (cfr. Cassazione penale, sez. III, 14/02/2017, n. 6873).

Anche il rilievo con il quale si rivendica la natura di mero volume tecnico del preesistente locale, che sarebbe stato solo bonificato dall’appellante, non coglie nel segno, ove si consideri che le opere poste in essere, a rigore, non paiono neppure riconducibili al mero mutamento della destinazione d’uso di un precedente volume, che presuppone che questo fosse in origine comunque urbanisticamente rilevante ed autorizzato; integrano, invece, la creazione di una nuova volumetria, dal momento che detto spazio, prima della trasformazione, era urbanisticamente non rilevante e non fruibile e, pertanto, mai autorizzato. Al riguardo, giova ricordare che la nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, 27/11/2017, n. 5516). Per tale ragione, i volumi tecnici sono tendenzialmente esclusi dal calcolo della volumetria. Ne deriva che la trasformazione dell’originario volume tecnico in un locale destinato alla fruizione umana (per palestra, sauna, ecc.) costituisce, sotto il profilo edilizio-urbanistico, la creazione di una nuova volumetria per la quale era necessario munirsi di un adeguato titolo edilizio rispettoso della disciplina edilizia della zona.

In ogni caso, come già sottolineato, anche in relazione al prospettato mutamento di destinazione d’uso, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “il mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie configura in ogni caso un’ipotesi di ristrutturazione edilizia; ciò in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” (Consiglio di Stato, sez. VI, 15/11/2022 n. 9986; in termini analoghi cfr. anche Consiglio di Stato sez. VI, 13/07/2022, n. 5907: “Deve, pertanto, ritenersi legittima l’ordinanza di demolizione avente ad oggetto interventi che, in assenza di permesso di costruire, abbiano operato un indiscusso mutamento di destinazione d’uso con opere edilizie di una struttura preesistente”).

La pacifica assenza di un titolo a legittimazione delle opere contestate – da ritenersi imprescindibile per le ragioni esposte – ne comporta l’abusività, anche a prescindere dal rispetto sostanziale della disciplina urbanistica e vincolistica della zona.

Inoltre, l’ordinanza di demolizione è atto necessitato a seguito della constatazione dell’abuso, rispetto al quale all’amministrazione non è attribuito alcun margine di discrezionalità (cfr. Cons. St., Sez. V, 17 settembre 2008, n. 4446). Ne deriva che, nel caso in cui non sia concretamente possibile procedere al ripristino, o sussistano effettivamente i paventati pericoli per la statica dell’intero immobile, sarà il Comune a valutare, in un secondo tempo, tali eventualità, senza che ciò incida sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione oggetto del presente giudizio. Come più volte precisato dalla giurisprudenza, tale questione deve essere valutata a valle del provvedimento di demolizione, laddove ne sussistano i relativi presupposti (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23 novembre 2017, n. 5472; Cons. Stato, sez. VI, 29 novembre 2017, n. 5585).

In definitiva: la sentenza del Tar deve essere confermata e con essa il provvedimento impugnato.

Devono ora esaminarsi gli ulteriori ricorsi in appello, aventi ad oggetto le sentenze del Tar che hanno confermato i provvedimenti di rigetto delle istanze di condono presentate dall’appellante in relazione alle opere realizzate senza titolo sulla medesima area.

Le censure sono infondate.

Il Comune, nei provvedimenti impugnati, ha richiamato in modo esplicito sia l’art. 32, comma 27, della l. 326/2003, sia l’art. 3, lettera b), della l.r. 12/2004 che, per le ragioni di seguito esposte, escludono in radice la possibilità di sanare le opere per cui è causa.

L’art. 32, comma 27, prevede che: “Fermo restando quanto previsto dagli articoli 32 e 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora (…) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”. Non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai numeri 1, 2 e 3 dell’allegato 1 alla citata legge (cd. abusi maggiori), realizzate su immobili soggetti a vincoli (per quanto qui rileva) idrogeologici e paesaggistici, a prescindere dal fatto che (ed anche se) si tratti di interventi conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e al fatto che il vincolo non comporti l’inedificabilità assoluta dell’area. Sono invece sanabili, se conformi a detti strumenti urbanistici, solo gli interventi cd. minori di cui ai numeri 4, 5 e 6, dell’allegato 1 al d.l. n. 326, cit. (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria), previo parere della autorità preposta alla tutela del vincolo.

La giurisprudenza (cfr. Cons. St. n. 1664 del 2 maggio 2016; Cons. St. n. 735 del 23 febbraio 2016, Cons. St. n. 2518 del 18 maggio 2015) ha, infatti, costantemente affermato che, ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d) del decreto legge n. 269 del 30 settembre 2003, convertito nella legge n. 326 del 24 novembre 2003 (cd. terzo condono), le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli sono sanabili solo se, oltre al ricorrere delle ulteriori condizioni – e cioè che le opere siano realizzate prima della imposizione del vincolo, che siano conformi alle prescrizioni urbanistiche e che vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo – siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria). Pertanto, un abuso comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo non può essere sanato.

Specularmente, il Consiglio (Cons. St., sez. VI, 18 maggio 2015, n. 2518) ha chiarito che, ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d) del decreto legge sul terzo condono, sono sanabili le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) si tratti di opere realizzate prima della imposizione del vincolo; b) seppure realizzate in assenza o in difformità del titolo edilizio, siano conformi alle prescrizioni urbanistiche; c) siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria); d) che vi sia il previo parere dell’Autorità preposta al vincolo (cfr. Cons. St., sez. VI, 2 marzo 2010, n.1200; Cons. St., sez. IV, 19 maggio 2010, n. 3174).

L’applicabilità della sanatoria, nelle aree sottoposte a vincolo, alle sole opere di restauro o risanamento conservativo o di manutenzione straordinaria, su immobili già esistenti, se ed in quanto conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici è stata poi confermata anche dalla costante giurisprudenza penale, secondo cui: “in tema di abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, il condono previsto dall’art. 32 del D.L. n. 269 del 2003 (convertito, con modificazioni, dalla l. n. 326 del 2003) è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del citato D.L. (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (Corte Cass., sez. III, 20 maggio 2016, n. 40676).

Le disposizioni citate sono state oggetto di diverse pronunce della Corte Costituzionale, che hanno confermato che il condono edilizio di cui al d.l. n. 269/2003 è caratterizzato da un ambito oggettivo più circoscritto rispetto a quello del 1985, in conseguenza dei limiti ulteriori contemplati dal comma 27 dell’art. 32, i quali “si aggiungono a quanto previsto negli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985” (cfr. Corte cost., sentenza 28 giugno 2004, n. 196) “e non si possono considerare racchiusi nell’area dell’inedificabilità assoluta” (cfr. Corte cost., ordinanza 8 maggio 2009, n. 150). In particolare, la pronuncia n. 181 del 2021 ha affermato che “Sull’ambito oggettivo di applicazione del terzo condono (che era stato già definito nella sentenza n. 196 del 2004), questa Corte ha confermato che costituiscono vincoli preclusivi della sanatoria anche quelli che non comportano l’inedificabilità assoluta (ordinanza n. 150 del 2009). In particolare, ha precisato che il richiamo alla precedente distinzione tra inedificabilità relativa ed assoluta contenuta negli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 viene effettuato al solo fine di coordinare la vecchia disciplina della sanatoria con quella sopravvenuta, mentre non risulta dirimente nella definizione dell’ambito oggettivo del condono del 2003 che viene in discussione in questa sede; aggiungendo, poi, che il condono di cui al d.l. n. 269 del 2003 è caratterizzato da un ambito oggettivo più circoscritto rispetto a quello del 1985, per effetto dei limiti ulteriori contemplati dal precitato comma 27, i quali si aggiungono a quanto previsto negli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 (sentenza n. 196 del 2004) e non sono racchiusi nell’area dell’inedificabilità assoluta (ordinanza n. 150 del 2009)”.

In rapporto al potere riconosciuto in materia alle regioni, la sentenza n. 71 del 2005 della Corte costituzionale aveva affermato che “a seguito della citata sentenza n. 196 del 2004, la disciplina contenuta nell’art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003 ha subito una radicale modificazione, soprattutto attraverso il riconoscimento alle Regioni del potere di modulare l’ampiezza del condono edilizio in relazione alla quantità e alla tipologia degli abusi sanabili, ferma restando la spettanza al legislatore statale della potestà di individuare la portata massima del condono edilizio straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili” (in questi termini si vedano anche le sentenze nn. 70 e 304 del 2005). La sentenza n. 70 del 2005 ha chiaramente ribadito che ciò che esula dalla potestà delle Regioni è il “potere di rimuovere i limiti massimi di ampiezza del condono individuati dal legislatore statale” e con la sentenza n. 49 del 2006 la Corte ha riaffermato che “la giurisprudenza di questa Corte sul condono edilizio straordinario del 2003 è costante nell’affermare che spetta al legislatore statale determinare non solo tutto ciò che attiene alla dimensione penalistica del condono, ma anche la potestà di individuare, in sede di definizione dei principi fondamentali nell’ambito della materia legislativa «governo del territorio», la portata massima del condono edilizio straordinario, attraverso la definizione sia delle opere abusive non suscettibili di sanatoria, sia del limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, sia delle volumetrie massime sanabili”.

Le disposizioni della L.R. n. 12/2004 risultano conformi ai principi innanzi ricordati. Nello specifico, in base all’art. 3, comma 1, lett. b) della L.R. n. 12/2004, fermo restando quanto previsto dall’articolo 32, comma 27, del d.l. 269/2003 e successive modifiche, dall’articolo 32 della l. 47/1985, come da ultimo modificato dall’articolo 32, comma 43, del citato d.l. 269/2003, nonché dall’articolo 33 della l. 47/1985, non sono comunque suscettibili di sanatoria: “le opere di cui all’articolo 2, comma 1, realizzate, anche prima della apposizione del vincolo, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei monumenti naturali, dei siti di importanza comunitaria e delle zone a protezione speciale (2a), non ricadenti all’interno dei piani urbanistici attuativi vigenti, nonché a tutela dei parchi e delle aree naturali protette nazionali, regionali e provinciali”.

In definitiva, la norma statale di cui all’art. 32, comma 27, del decreto legge n. 269 del 2003 – richiamata anche dalla disposizione regionale – esclude la possibilità di rilascio del condono per la realizzazione di opere recanti nuove superfici e nuovi volumi – quali quelle in esame – su aree soggette a vincoli posti a tutela dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali. In senso ancor più restrittivo, la l.r. Lazio n. 12 del 2004 prevede poi la non sanabilità delle opere realizzate, anche prima della apposizione del vincolo, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei monumenti naturali, dei siti di importanza comunitaria e delle zone a protezione speciale, non ricadenti all’interno dei piani urbanistici attuativi vigenti, nonché a tutela dei parchi e delle aree naturali protette nazionali, regionali e provinciali.

Con la sentenza n. 181 del 30 luglio 2021, la Corte Costituzionale ha reputato legittima la disciplina regionale che prevede la non condonabilità dell’opera abusiva in caso di vincolo sopravvenuto.

Alla luce dei principi innanzi ricordati, deve dunque precisarsi che, in riferimento al cd. terzo condono, appare sostanzialmente irrilevante la natura del vincolo (assoluto, piuttosto che relativo), dal momento che, a fronte di opere che non possono definirsi minori nel senso innanzi precisato, la presenza del vincolo preclude il condono, senza la necessità dell’acquisizione del parere dell’Autorità preposta alla salvaguardia del vincolo.

Una volta che l’opera realizzata senza titolo non sia riconducibile ad un abuso cd. minore e sia stata realizzata in un’area vincolata risulta del pari irrilevante che questa sia conforme alla disciplina urbanistica.

Le considerazioni che precedono sono confermate dalla più recente giurisprudenza di questo Consiglio, secondo cui “non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai numeri 1, 2 e 3 dell’allegato 1 alla citata legge (cd. abusi maggiori), realizzate su immobili soggetti a vincoli, a prescindere dal fatto che (ed anche se) si tratti di interventi conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e al fatto che il vincolo non comporti l’inedificabilità assoluta dell’area. Sono invece sanabili, se conformi a detti strumenti urbanistici, solo gli interventi cd. minori di cui ai numeri 4, 5 e 6, dell’allegato 1 al d.l. n. 326, cit. (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria), previo parere della autorità preposta alla tutela del vincolo” (Cons. St., 28 febbraio 2023, n. 2081).

Avuto riguardo alle numerose domande relative ad opere realizzate nella medesima area ed evidentemente funzionali a rendere più agevole e confortevole la fruizione dell’abitazione principale alla quale accedono, deve osservarsi come la prospettazione di parte appellante non consideri l’orientamento della giurisprudenza per cui la valutazione dell’abuso edilizio presuppone, tendenzialmente, una visione complessiva e non atomistica dell’intervento, giacché il pregiudizio recato al regolare assetto del territorio deriva non dal singolo intervento, ma dall’insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio.

Ne consegue che, nel rispetto del principio costituzionale di buon andamento, l’amministrazione comunale dovrebbe esaminare contestualmente l’intervento abusivamente realizzato, e ciò al fine precipuo di contrastare eventuali artificiose frammentazioni che, in luogo di una corretta qualificazione unitaria dell’abuso e di una conseguente identificazione unitaria del titolo edilizio che sarebbe stato necessario o che può, se del caso, essere rilasciato, prospettino una scomposizione virtuale dell’intervento finalizzata all’elusione dei presupposti e dei limiti di ammissibilità della sanatoria stessa. In questo senso, la giurisprudenza della Sezione ha ribadito che la verifica dell’incidenza urbanistico-edilizia dell’intervento abusivamente realizzato deve essere condotta avuto riguardo alla globalità delle opere, che non possono essere considerate in modo atomistico (cfr. Cons. St., sez. VI, 6 giugno 2012, n. 3330). Di eguale tenore la giurisprudenza penale, secondo cui: “non è ammessa la possibilità di frazionare i singoli interventi edilizi difformi al fine di dedurre la loro autonoma rilevanza, ma occorre verificare l’ammissibilità e la legalità alla luce della normativa vigente, dell’intervento complessivo realizzato” (Corte Cass., sez. III, 18 gennaio 2017, n. 8885).

Come anticipato, tale situazione, alla luce della giurisprudenza innanzi citata, appare di per sé ostativa al condono delle opere, indipendente dall’aspetto relativo alla loro conformità alla disciplina urbanistica, dal momento che gli interventi, globalmente considerati, non possono essere ricondotti nell’ambito delle opere di restauro e risanamento conservativo e ripristino degli edifici esistenti (cd. abusi minori), trattandosi di nuove opere realizzate ex novo.

Alla luce delle considerazioni già svolte, non è inoltre possibile ammettere una scissione in sede procedimentale dell’unitaria domanda formulata, avente ad oggetto una specifica opera, che non può evidentemente essere sanata solo parzialmente, in assenza di elementi, che era onere del richiedente rappresentare, atti a giustificare la valutazione separata di determinate porzioni autonomamente fruibili e, dunque, scindibili, dovendosi anzi preferire una valutazione complessiva dell’abuso nel senso innanzi precisato. In sintonia con tali considerazioni la Sezione (Cons. St., sez. VI, 27 gennaio 2022, n. 566) ha avuto modo di precisare che “la legislazione urbanistica e la giurisprudenza formatasi in materia di condono edilizio escludono la possibilità di una sanatoria parziale, sul presupposto che il concetto di costruzione deve essere inteso in senso unitario e non in relazione a singole parti autonomamente considerate. Pertanto, non è possibile scindere la costruzione tra i vari elementi che la compongono ai fini della sanatoria di singole porzioni di essa. Del resto, una volta che risulti l’inaccoglibilità di un’istanza per come è stata proposta, l’amministrazione legittimamente la respinge, senza porsi la questione se una diversa istanza – in ipotesi – avrebbe potuto avere un esito diverso” (cfr. anche Cons. St., sez. VI, 23 novembre 2021, n. 784 e 2 luglio 2018, n. 4033).

Per quanto sopra esposto, come correttamente rilevato dal Tar, non può portare ad un diverso esito l’ipotetica conformità sostanziale delle opere (o parti di esse) alla disciplina urbanistica dell’area, né il dato per cui per alcune opere, o per parti di esse, non si incorrerebbe nel vincolo costituito dall’indice di utilizzazione fondiaria in incremento sull’esistenza stabilito nel P.R.G. in 0,01 mc/mq.

Infine, in base alla giurisprudenza “L’istituto del c.d. preavviso di rigetto, di cui all’art. 10-bis citato, ha lo scopo di far conoscere alle amministrazioni le ragioni fattuali e giuridiche dell’interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti; tuttavia, tale scopo viene meno ed è di per sé inidoneo a giustificare l’annullamento del provvedimento nei casi in cui il suo contenuto non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia perché vincolato, sia perché sebbene discrezionale sia raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità (C.d.S., III Sez., 1.8.2014, n. 4127)” (Cons. St., sez. III, 28 settembre 2015, n. 4532).

Seppure la più recente giurisprudenza abbia ammesso, come ricordato da parte appellante, l’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 10 bis L. n. 241/1990 nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio (cfr. Cons. St., sez. VI, 18 gennaio 2019, n. 484; cfr. anche Cons. St., sez. VI, 2 maggio 2018) e, più in generale, l’idoneità della violazione del contraddittorio procedimentale ad inficiare la legittimità del provvedimento anche nei procedimenti vincolati, quale quello di sanatoria, quando il contraddittorio procedimentale con il privato interessato avrebbe potuto fornire all’amministrazione elementi utili ai fini della decisione (cfr. Cons. St., sez. VI, 1 marzo 2018, n. 1269), come già rilevato, la giurisprudenza ha anche precisato che, affinché la violazione dell’art. 10 bis comporti l’illegittimità del provvedimento impugnato, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle proprie garanzie partecipative – nel caso di specie peraltro non pretermesse totalmente stante l’avvenuta comunicazione del preavviso di rigetto – ma è anche tenuto ad indicare gli elementi, fattuali o valutativi che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento (cfr. Cons. St., sez. VI, 16 settembre 2022, n. 8043; Cons. St., sez. VI, 27 aprile 2020, n. 2676, secondo cui “Ai fini della configurabilità della violazione dell’art. 10-bis, l. n. 241/90, le garanzie procedimentali non possono ridursi a mero rituale formalistico, con la conseguenza che, nella prospettiva del buon andamento dell’azione amministrativa, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle proprie pretese partecipative, ma è anche tenuto ad indicare o allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento”).

Come più volte sottolineato, nel caso di specie, il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato, a prescindere dall’astratto aumento di volumetria consentito dal P.R.G. che l’appellante avrebbe dedotto nel corso del procedimento, con conseguente applicabilità dell’art. 21 octies, secondo comma, L. n. 241/1990.

Per le ragioni esposte gli appelli sono stati respinti.