Con sentenza 5 gennaio 2024, n. 204, il Consiglio di Stato (sez. VII) ha affermato che la maggiorazione della tariffa assume quale mero presupposto di fatto la proprietà privata, che resta un elemento estraneo alla debenza del canone. È solo l’area demaniale concessa in uso esclusivo che acquisisce un maggior valore, risultando maggiormente sfruttabile e più facilmente utilizzabile, in conseguenza della sua contiguità con altra area di proprietà dello stesso soggetto concessionario
La Società Grandi Molini Italiani S.p.a. (d’ora in avanti, GMI), premesso di utilizzare in regime di concessione demaniale marittima una banchina del porto di Livorno in forza della licenza e che retrostante la banchina si trova un’area esterna al perimetro del demanio portuale di proprietà della stessa GMI, impugnava il provvedimento dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Settentrionale (d’ora in poi, AdSPMTS) con il quale era stato rideterminato il canone demaniale per la conduzione dell’area di cui alla licenza demaniale.
La maggiorazione era stabilita sulla base del “Regolamento per l’esercizio delle operazioni e dei servizi portuali, per l’amministrazione delle aree demaniali e patrimoniali, nonché per fornitura di lavoro temporaneo nei porti dell’AdSPMTS”, il quale prevede che se la banchina oggetto di concessione demaniale è asservita a un’area privata oltre al normale canone “si applica la maggiorazione” (…) “che costituisce specifica voce tariffaria”. Lamentava la ricorrente che la maggiorazione in questione costituirebbe un’imposizione tributaria, poiché prevedere un’autonoma voce tariffaria per i concessionari che sono proprietari di aree limitrofe a quelle assentite significherebbe imporre un peso economico sull’immobile che confina col demanio.
Il TAR per la Toscana accoglieva il ricorso sul rilievo che la maggiorazione del canone trovava causa nell’incremento del profitto che il concessionario consegue dall’uso cui la stessa è adibita e che non rappresentava più il corrispettivo del valore dell’area concessa ma finiva con il colpire una manifestazione di (incremento di) profitto del concessionario, ovvero una manifestazione di ricchezza; tale circostanza imponeva di qualificare la maggiorazione come “tributo” adottato da un soggetto, l’Autorità, privo di competenza tributaria e in assenza di una norma che lo consentisse, con violazione del principio della riserva di legge in materia.
L’AdSPMTS ha appellato la sentenza, deducendo l’errata qualificazione della “maggiorazione” come tributo e non come canone. Evidenzia che la questione dirimente (in merito alla quale il giudice di prime cure è pervenuto ad una conclusione errata e non condivisibile) è quella della natura giuridica del canone per operazioni portuali come determinato ai sensi della Tariffa A) del Regolamento 2021 e, in particolare, se esso abbia natura (di entrata) tributaria (come erroneamente ritenuto dal TAR) ovvero extratributaria.
La censura è fondata.
Il provvedimento di concessione di un bene pubblico (demaniale o patrimoniale indisponibile) esprime il rapporto tra l’interesse privato allo sfruttamento delle utilità economiche offerte dal bene e l’interesse pubblico costitutivo del carattere demaniale o patrimoniale indisponibile del bene. Il soddisfacimento di finalità pubblicistiche costituisce un elemento imprescindibile della concessione di beni pubblici, al punto da costituirne scopo e ragione essenziale, deponendo chiaramente in tal senso l’art. 37 cod. nav., laddove, in presenza di più richieste di concessione, rimette al discrezionale giudizio dell’Amministrazione la valutazione in ordine alla migliore rispondenza di un certo utilizzo anziché di un altro rispetto ad un più rilevante interesse pubblico, sottintendendo un complesso bilanciamento di molteplici profili di rilievo che si colgono, da un lato, con riguardo al vantaggio conseguito dalla collettività in ragione delle finalità pubbliche per il soddisfacimento delle quali il bene è concesso in uso ad altri e, dall’altro, in relazione al nocumento patito dalla medesima collettività a causa della temporanea sottrazione del bene all’uso libero e generalizzato cui è naturalmente o potrebbe essere destinato. Più precisamente, la concessione di beni demaniali è contraddistinta da una duplice finalità di rilevanza causale ed ossia: da un lato, il vantaggio personale ritraibile per il concessionario dall’uso esclusivo del bene e, dall’altro, il necessario soddisfacimento degli interessi pubblici perseguiti dall’Autorità amministrativa concedente all’esito della predetta complessa valutazione di bilanciamento, non essendo possibile il rilascio di una concessione unicamente preordinata a soddisfare le esigenze personali del concessionario a discapito e, quindi, senza il soddisfacimento, di qualsivoglia pubblico interesse. Il canone assolve ad una funzione sia corrispettiva del vantaggio scaturente dal diritto di uso esclusivo del bene demaniale, sia compensativa del nocumento patito dall’interesse pubblico soddisfatto dal non più consentito o limitato originario diritto di uso collettivo del bene medesimo.
In passato si è molto discusso sulla natura giuridica di corrispettivo pecuniario o di tributo del canone per l’uso di beni demaniali dati in concessione. Le diverse tesi elaborate in dottrina muovevano dalla differente concezione della demanialità e dunque del ruolo svolto dall’ente concedente. Tra queste prevalse originariamente la configurazione tributaria del canone concessorio (Cass. S.U. 1395/1968). La Corte di Cassazione, poi, ha mutato completamente avviso ed ha consolidato l’affermazione della natura di corrispettivo del canone di utenza, escludendone il carattere tributario (Cass., sez. U., 29 maggio 1969, 1893 -1898; Cass. Civ., Sez. I, 25 maggio 1979 n. 3029). La Corte costituzionale ha avvalorato tale interpretazione, confermando che «i canoni demaniali marittimi non hanno natura tributaria, ma sono corrispettivi dell’uso di un bene di proprietà dello Stato e costituiscono quindi un prezzo pubblico calcolato in base a criteri stabiliti dalla legge», onde ad essi non si applica l’art. 53 Cost. (così: Corte cost., sent. 29 del 2017).
Il canone concessorio è una «prestazione imposta» ai sensi dell’art. 23 Cost. che non ha tuttavia natura tributaria né può essere considerato come un mero canone locatizio poiché alla sua struttura e quantificazione concorre la specifica destinazione all’interesse pubblico impressa al bene demaniale. Tale destinazione impone che la determinazione del canone sia la più idonea al perseguimento dei fini di interesse pubblico che si ritengono meritevoli di soddisfazione. La giurisprudenza costituzionale aveva originariamente fatto riferimento solo alla natura autoritativa dell’atto che costituisce la prestazione (Corte Cost. n. 4, 30, 47, 122 del 1957; n. 36 del 1959; n. 51 e 70 del 1960; n. 65 del 1962; n. 55 del 1963), successivamente ravvisando la natura di prestazione imposta anche nelle ipotesi in cui la prestazione stessa, pur nascendo da un contratto privatistico volontariamente stipulato dall’utente col titolare del bene o del servizio, e quindi dando luogo ad un rapporto negoziale di diritto privato, si riferisca ad un “servizio che, in considerazione della sua particolare rilevanza, venga riservato alla mano pubblica e l’uso di esso sia da considerare essenziale ai bisogni della vita”, sicché “il cittadino è libero di stipulare o non stipulare il contratto, ma questa libertà si riduce alla possibilità di scegliere fra la rinunzia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l’accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritativamente prefissati” (Corte Cost. n. 72 del 1969 in tema di tariffe del servizio telefonico; Id. n. 127 del 1988 sul “diritto di approdo”; Id. n. 122 del 1957 sui canoni per la derivazione dai bacini imbriferi montani; Id. n. 36 del 1959 per le pubbliche affissioni; Id. n. 70 del 1960 per lo sconto obbligatorio sui prezzi dei medicinali; Id. n. 2 del 1962 per l’occupazione di suolo pubblico; Id. n. 55 del 1963 per i contributi ad un consorzio di bonifica).
La nozione di tributo è comprensiva di imposte e di tasse: le imposte afferiscono a fatti che manifestano la capacità contributiva del soggetto e sono dirette ad approntare i mezzi finanziari per il perseguimento dei fini generali dello Stato o di altri enti impositori; le tasse sono invece legate al finanziamento, in particolare, di un’attività o di un servizio pubblico e riguardano specificamente il contribuente, potenziale o effettivo fruitore dello stesso. In questo ambito, le tasse costituiscono, come sottolineato dalla dottrina, fattispecie di confine tra le imposte e le entrate patrimoniali extratributarie. Alla luce dei generali principi sopra richiamati, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 25551 del 23 ottobre 2007 hanno statuito quanto segue: “Deve quindi distinguersi tra tassa, da una parte, che condivide la natura tributaria delle imposte, e, dall’altra, canoni (o tariffe o diritti speciali) e prezzi pubblici, che rientrano nella categoria delle entrate patrimoniali pubbliche extratributarie; distinzione questa che si racchiude in una qualificazione formale prima ancora che contenutistica. E’ il legislatore che assegna ad una determinata prestazione del soggetto che fruisce il servizio la qualificazione di tassa, e così la assoggetta al regime dei “tributi”, ovvero di canone o prezzo pubblico; e costruisce alternativamente il nesso tra entrata pubblica ed erogazione del servizio vuoi in termini di para commutatività (tassa), vuoi di commutatività o di vera e propria sinallagmaticità (entrate pubbliche extratributarie); come risultava, ad esempio, dal raffronto tra canone demaniale e tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche la cui sottile linea di demarcazione, in presenza di due fattispecie aventi chiaramente un comune sostrato economico, correva lungo il tracciato della diversa costruzione normativa (i.e.: qualificazione formale)”.
Quindi una tassa è tale innanzitutto ove questa qualificazione sia espressamente assegnata dal legislatore ad un’entrata pubblica. Ove non risulti siffatta qualificazione deve ritenersi che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, abbia optato per un diverso modulo di copertura finanziaria dei costi del servizio pubblico (quello a mezzo delle entrate extratributarie), a meno che non emergano elementi univoci e convergenti delle caratteristiche concrete del nesso tra la prestazione del servizio pubblico e l’obbligazione pecuniaria posta a carico del fruitore del servizio stesso sì da ricondurre un’entrata pubblica, in ragione appunto delle sue marcate caratteristiche sostanziali, nell’alveo di quelle di natura tributaria piuttosto che tra quelle di natura extratributaria, pur in mancanza di un’espressa qualificazione normativa.
Nella specie, la maggiorazione della tariffa assume quale mero presupposto di fatto la proprietà privata, che resta un elemento estraneo alla debenza del canone. È solo l’area demaniale concessa in uso esclusivo che acquisisce un maggior valore, risultando maggiormente sfruttabile e più facilmente utilizzabile, in conseguenza della sua contiguità con altra area di proprietà dello stesso soggetto concessionario.
Ha quindi errato il Giudice a ritenere che la maggiorazione del canone sia qualificabile come tributo.
L’appello è stato pertanto accolto e la sentenza impugnata riformata.