Sui limiti della ristrutturazione con demo-ricostruzione di Fabio Cusano

CASSP_1669_2023

Con la sentenza 18 gennaio 2023, n. 1669, la Cass. pen., sez. III, ha affermato che – seppure la novella del 2020 ad opera del D.L. 76/2020 (c.d. Decreto semplificazioni) all’art. 3 del DPR 380/2001 abbia contribuito a delineare la possibilità di interventi di ristrutturazione fortemente innovativi rispetto all’organismo preesistente, tanto che alcuni criteri prima utilizzati dalla legge e giurisprudenza per sancire la corrispondenza tra i due organismi interessarti appaiono via via sfumati o scomparsi (quali, in sintesi, con riferimento in particolare a zone non vincolate, la fedele ricostruzione comprensiva di limitate innovazioni, oppure, poi, la medesima sagoma/volumetria o, ancora, l’identità del sedime) – permane il requisito insuperabile per cui deve pur sempre trattarsi di interventi di recupero del medesimo immobile ancorché trasformato in organismo edilizio in tutto o in parte diverso. Per cui, in tale quadro va esclusa la moltiplicazione, da un unico edificio, di plurime distinte strutture o, di converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio.

L’ipotesi accusatoria attiene all’intervenuto rilascio di un permesso di costruire autorizzante la demolizione di una casa colonica costituita da due unità immobiliari e cinque annessi agricoli di varia tipologia, con costruzione, in luogo di tali strutture, di un complesso residenziale costituito da 10 villini in linea e un parcheggio a raso. Il tema essenziale proposto è quello della configurabilità o meno di un intervento di ristrutturazione edilizia, con esclusione quindi di ogni abusività dell’intervento.

Va premessa la nozione di ristrutturazione edilizia: “nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversa sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché a quelli ubicati nelle zone omogenee A, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.

Per completezza va aggiunto che con la l. 27 aprile 2022, n. 34, art. 28, comma 5 bis, è stato disposto che dopo le parole “decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42,” sono inserite le seguenti “ad eccezione degli edifici situati in aree tutelate ai sensi dell’articolo 142 del medesimo codice”.

Inoltre, con l. 15 luglio 2022, n. 91 si è disposto, con l’art. 14, comma 1-ter, lettera a), la modifica dell’art. 3, comma 1, lettera d) nel senso che le parole “dell’articolo 142” sono sostituite dalle seguenti “degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142”. Purtuttavia, permane comunque la ratio qualificante l’intervento edilizio che, postulando la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, è comunque finalizzata al recupero del medesimo.

Si tratta di un indirizzo più volte sottolineato negli anni, oltre che dalla dottrina, anche dalla giurisprudenza. In tal senso si è espressa anche di recente la giurisprudenza amministrativa, laddove ha evidenziato che la ristrutturazione edilizia, quale intervento sul preesistente, non può fare a meno di una certa continuità con l’edificato pregresso (TAR Veneto, sez. II, 2 maggio 2022, n. 660; TAR Emilia-Romagna-Bologna, sez. II, 16 febbraio 2022, n. 183; Consiglio di Stato, sez. II, 6 marzo 2020, n. 1641) e analogamente ha fatto la Cassazione (sez. III, 10 gennaio 2020, n. 23010). Allo stesso modo la ristrutturazione dei manufatti crollati o demoliti è possibile al solo fine del loro “ripristino”, termine quest’ultimo dal significato univoco nella parte in cui esclude la mera demolizione a vantaggio di un edificio diverso. La ristrutturazione non può mai prescindere dalla finalità di recupero del singolo immobile che ne costituisce l’oggetto.

In tale quadro è stata sottolineata, molto opportunamente, “la necessità di un’interpretazione della definizione dell’intervento di ristrutturazione edilizia di cui alla lettera d) dell’art. 3, comma 1, DPR n. 380/ 2001, che sia aderente alla (e non tradisca la) finalità di conservazione del patrimonio edilizio esistente, finalità che contraddistingue tale intervento rispetto a quelli di “nuova costruzione” di cui alla successiva lettera e), e non si presti all’elusione degli standard urbanistici vigenti al momento della riedificazione ed applicabili in caso di nuova costruzione. Del resto, la conferma della ontologica necessità che l’intervento di ristrutturazione edilizia, pur con le ampie concessioni legislative in termini di diversità tra la struttura originaria e quella frutto di “ristrutturazione”, non possa prescindere dal conservare traccia dell’immobile preesistente, è fornita dallo stesso art. 10 sopra già citato, integrativo dell’art. 3 comma 1 lett. d) del DPR 380/01, laddove si premette che le novelle introdotte rispondono “al fine di semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo”.

Anche la lettura del citato art. 3 del DPR 380/2001 depone in tal senso, laddove, da una parte, definisce come ristrutturazione “gli interventi edilizi volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso”, dall’altra, distingue rispetto ad essa gli “interventi di nuova costruzione” (art. 3, comma 1, lett. e), che sono strutturalmente connotati dalla assenza di una preesistenza edilizia. In altri termini, con riguardo alla ristrutturazione non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente. Dunque, seppure la novella del 2020 abbia contribuito a delineare la possibilità di interventi di ristrutturazione fortemente innovativi rispetto all’organismo preesistente (tanto che alcuni criteri prima utilizzati dalla legge e giurisprudenza, per sancire la corrispondenza tra i due organismi interessarti appaiono via via sfumati o scomparsi, quali, in sintesi, con riferimento in particolare a zone non vincolate, la fedele ricostruzione comprensiva di limitate innovazioni, oppure, poi, la medesima sagoma /volumetria o, ancora, l’identità del sedime), permane il requisito, insuperabile, per cui deve pur sempre trattarsi di interventi di recupero del medesimo immobile ancorché trasformato in organismo edilizio in tutto o in parte diverso. Per cui, in tale quadro va esclusa la moltiplicazione, da un unico edificio, di plurime distinte strutture o, di converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio.

Altresì, pur stabilendo l’attuale art. 3 del DPR 380/2001 che la ristrutturazione può prevedere “nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”, tale previsione fa evidentemente riferimento, nel quadro della già delineata ricostruzione normativa, ad ampliamenti relativi a ciascun singolo edificio da ristrutturare. Solo entro tali limiti, dunque, è ammesso un aumento volumetrico. Cosicché, pur alla luce delle più recenti novelle, l’utilizzazione, a favore dell’unico edificio ricostruito, delle volumetrie espresse da altri edifici anch’essi demoliti è concetto totalmente estraneo alla definizione della ristrutturazione: manca infatti, in tal caso, la “ricostruzione” dell’edificio demolito (che invece scompare, con mero “acquisto” all’immobile principale della sola relativa volumetria), ancorché rinnovato e modificato (nei termini di legge consentiti). Di rilievo appare il principio affermato da Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2008, n. 6214, secondo cui la trasformazione di due manufatti agricoli in villa ad uso residenziale, con accorpamento di volumi e parziale spostamento dell’area di sedime, esula dalla nozione di ristrutturazione, sia come attualmente definita dall’art. 3, comma 1, lettera d) del DPR n. 380/2001, sia in rapporto alla elaborazione giurisprudenziale. Si tratta di decisione che, seppure formulata in un quadro giuridico più restrittivo rispetto a quello attualmente vigente, ribadisce il senso della disciplina della ristrutturazione, nella sua correlazione tra edificio demolito ed edificio ricostruito, laddove evidenzia come “ciò che distingue, infatti, gli interventi di tipo manutentivo e conservativo da quelli di ristrutturazione è, indubbiamente, il carattere innovativo di quest’ultima in ordine all’edificio preesistente; ciò che contraddistingue, però, la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un “insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita”.

Consegue che la nozione di ristrutturazione di cui all’art. 3, comma 1, lett. d) del DPR 380/2001, costituendo un principio fondamentale della legislazione statale dettato in tema di caratteristiche di interventi lato sensuconservativi e di recupero, non può essere integrata o modificata con legge regionale. Tanto, del resto, risulta già stabilito dalla Cassazione, laddove si è precisato che in materia urbanistica, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali stabiliti dalla legislazione nazionale, e conseguentemente devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi (sez. filtro, 30 agosto 2018, n. 46500; sez. III, 20 giugno 2017, n. 30657).

Con riguardo, dunque, alla qualificazione giuridica dell’intervento, appare corretto il rilievo del ricorrente nel senso della esclusione di un’operazione di ristrutturazione, a fronte di un nuovo complesso residenziale dal notevole impatto edilizio ed urbanistico; le cui caratteristiche, peraltro in area a destinazione agricola, non possono prescindere dalla considerazione dei principi più volte ribaditi dalla Cassazione secondo i quali in materia edilizia è configurabile il reato di lottizzazione abusiva anche nel caso di interventi realizzati – in difetto di uno strumento pianificatorio di dettaglio – in zone già urbanizzate o parzialmente urbanizzate, purché di consistenza e complessità tali da costituire una notevole trasformazione del territorio, inammissibile in mancanza di un piano per la realizzazione degli interventi infrastrutturali, che garantisca il raccordo della nuova edificazione a quella preesistente (sez. III, 7 giugno 2019, n. 36616). Inoltre integra il reato di lottizzazione abusiva il frazionamento e la predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione di più edifici aventi natura e destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con l’originaria vocazione dell’area (sez. III, 31 marzo 2011, n. 15605), ed ancora, in tema di reati urbanistici, nel caso di costruzione in zona agricola, la destinazione del manufatto alle opere dell’agricoltura ed il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo in capo a chi lo realizza – tanto al momento della richiesta e del rilascio del permesso di costruire, quanto al tempo della eventuale voltura del titolo abilitativo in favore di terzi – sono elementi rilevanti nella valutazione della rispondenza dell’opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per l’eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria (sez. III, 13 gennaio 2017, n. 7681).