La Corte cost., 3 ottobre 2024, n. 160, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, terzo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire; in via consequenziale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, del d.P.R. n. 380 del 2001, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire.
Con ordinanza iscritta al n. 26 del registro ordinanze 2024, la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985 e dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, per violazione degli artt. 3, 24, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, nella parte in cui «non prevedono – in caso di iscrizione di ipoteca giudiziale su di un terreno sul quale sia stato costruito un immobile abusivo, immobile gratuitamente acquisito al patrimonio del comune – la permanenza dell’ipoteca sul terreno a garanzia del creditore ipotecario».
La Corte rimettente riferisce che la società Brera Servizi Aziendali, cessionaria di un credito garantito da ipoteca iscritta su un terreno sul quale i debitori avevano realizzato un immobile abusivo, chiedeva – a seguito del pignoramento sia dell’immobile sia del terreno – la vendita dei beni staggiti.
Il giudice dell’esecuzione presso il Tribunale di Agrigento respingeva l’istanza e dichiarava improcedibile l’esecuzione forzata, in quanto l’immobile abusivo, l’area di sedime e quella circostante erano stati acquisiti al patrimonio comunale, ai sensi dell’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, con conseguente estinzione del diritto di ipoteca iscritto sul fondo.
Nel successivo giudizio di opposizione agli atti esecutivi proposto dalla società, l’ordinanza del giudice dell’esecuzione veniva confermata dal Tribunale di Agrigento con sentenza del 9 luglio 2019, avverso la quale la società proponeva ricorso per cassazione.
La Sezione terza civile della Corte di cassazione ravvisava, ai sensi dell’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ., una questione di massima di particolare importanza, concernente il consolidato orientamento di legittimità, secondo cui l’acquisto a titolo originario dell’immobile abusivo e dell’area di sedime estingue gli eventuali diritti di garanzia iscritti in precedenza sul terreno.
Le Sezioni unite, investite della questione, hanno ritenuto di non potersi discostare da tale consolidato orientamento (Cass., n. 33570 del 2021; n. 23583 del 2017; n. 23453 del 2017; n. 1693 del 2006), avallato anche dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, ad. plen., n. 16 del 2023; sez. sesta, n. 3697 del 2020; sez. quarta, n. 398 del 2019; sez. quinta, n. 220 del 1997).
Hanno, dunque, promosso incidente di costituzionalità con riguardo sia all’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, sia all’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, per come ricostruiti dal diritto vivente.
Il rimettente, dopo aver escluso la percorribilità di interpretazioni conformi alla Costituzione, ha ravvisato la rilevanza delle questioni, sul presupposto che «il Collegio è chiamato necessariamente a fare applicazione, nel giudizio sottoposto al suo esame», della disciplina della cui legittimità costituzionale dubita.
In ordine poi alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ha reputato le norme censurate contrastanti con diversi parametri costituzionali.
L’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985 e l’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, come interpretati, sarebbero contrari all’art. 3 Cost., poiché irragionevolmente sacrificherebbero l’ipoteca sul fondo, anche quando il creditore non abbia alcuna responsabilità nella realizzazione dell’abuso edilizio e nella demolizione dell’immobile.
Inoltre, le norme censurate lederebbero l’art. 24 Cost., poiché il creditore vedrebbe gravemente pregiudicata la possibilità di soddisfarsi in via esecutiva sul bene oggetto di un diritto reale di garanzia, che gli attribuisce lo ius sequelae e il diritto a essere soddisfatto con preferenza in sede espropriativa.
Infine, le medesime norme si porrebbero in conflitto con l’art. 42 Cost. e con l’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU. A tal riguardo, il giudice a quo richiama la giurisprudenza della Corte EDU sul diritto al rispetto dei beni, ivi inclusi i crediti e le legittime aspettative, e sulla necessità di garantire un giusto equilibrio tra l’interesse generale alla regolamentazione dei beni e la salvaguardia dei diritti fondamentali. Nel caso della disciplina censurata, tale equilibrio non sarebbe assicurato, poiché il diritto di ipoteca verrebbe interamente sacrificato, senza che vi sia alcuna proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo prefigurato.
Occorre, in rito, rilevare d’ufficio che il giudice rimettente censura due norme, che si sono succedute nel tempo: l’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985 (articolo attualmente abrogato dall’art. 136, comma 2, lettera f, t.u. edilizia) e l’art. 31, comma 3, t.u. edilizia, previsione di identico tenore (di seguito integrata, con l’aggiunta di un terzo periodo, dal decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, recante «Disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica», convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2024, n. 105).
Solo l’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985 è, tuttavia, applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto del giudizio a quo e, dunque, sono rilevanti unicamente le censure poste con riguardo alla norma recata da tale disposizione.
Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, sollevate in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 Cost., sono fondate nei termini che seguono.
La norma censurata si colloca nel quadro di una disciplina che regola le conseguenze di violazioni particolarmente gravi della normativa urbanistico-edilizia, che consistono nella realizzazione di opere: in assenza di concessione (oggi, permesso di costruire); in totale difformità dalla medesima (secondo quanto specifica il primo comma dell’art. 7 della legge n. 47 del 1985); ovvero con variazioni essenziali (come determinate ai sensi dell’art. 8 della medesima legge).
Il competente organo comunale, una volta accertate le su citate violazioni, se non provvede direttamente alla demolizione dell’abuso e al ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile (artt. 4, commi primo, secondo e quarto, e 6 della legge n. 47 del 1985, nonché, analogamente, artt. 27, comma 2, e 29, comma 1, t.u. edilizia), ingiunge a quest’ultimo di demolire l’abuso con un provvedimento che ha funzione ripristinatoria (art. 7, secondo comma, della legge n. 47 del 1985 e, nel t.u. edilizia, art. 31, comma 2, secondo cui l’ingiunzione è rivolta sia al responsabile dell’abuso sia al proprietario dell’immobile).
Se il responsabile dell’abuso «non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita» (è quanto dispone il censurato art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, non diversamente da quanto testualmente prevede l’art. 31, comma 3, t.u. edilizia).
Il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, previamente notificato all’interessato, costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari dell’acquisto in capo al comune (art. 7, quarto comma, della legge n. 47 del 1985 e, nei medesimi termini, art. 31, comma 4, t.u. edilizia).
Il responsabile dell’abuso può, comunque, impedire che si integri il meccanismo acquisitivo da parte del comune se, entro il citato termine di novanta giorni dall’ingiunzione, ottiene la concessione in sanatoria (art. 13 della legge n. 47 del 1985 e, con formulazione analoga, art. 36, comma 1, t.u. edilizia).
Viceversa, in caso di acquisizione dell’opera, il comune deve disporne, con ordinanza, la demolizione a spese del responsabile dell’abuso, «salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali» (art. 7, quinto comma, legge n. 47 del 1985 e, con minime variazioni, art. 31, comma 5, t.u. edilizia).
La richiamata disciplina, prevista con la legge n. 47 del 1985 (e riprodotta con minime variazioni nel t.u. edilizia), non ha introdotto ex novo la cosiddetta confisca edilizia, ma ha apportato significative innovazioni all’istituto, rispetto a quanto già in precedenza disponeva l’art. 15 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli). In particolare, si segnala che l’art. 7 della legge n. 47 del 1985 non prevede più che le opere gratuitamente acquisite dal comune entrino a far parte del patrimonio indisponibile dell’ente pubblico e non subordina più l’acquisizione del bene e dell’area di sedime all’adozione di un’ordinanza motivata del sindaco, vidimata e resa esecutiva dall’autorità giudiziaria (come invece statuiva l’art. 15, commi terzo, quarto e quinto, della legge n. 10 del 1977).
Delineati i tratti essenziali della normativa nella quale si colloca l’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, occorre evidenziare che i dubbi di legittimità costituzionale traggono origine dall’inquadramento della confisca fra gli acquisti a titolo originario della proprietà.
Tale qualificazione è stata sostenuta dalla Corte di cassazione sin dal 2006 (Cass., n. 1693 del 2006) ed era stata anche in precedenza evocata, in un obiter dictum, da un’altra sentenza resa a Sezioni unite (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 12 giugno 1999, n. 322).
Nel riferimento normativo all’acquisizione “di diritto” al patrimonio del comune, la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato un meccanismo autonomo che prescinde da «una qualsivoglia vicenda di trasferimento dal precedente titolare del bene». Pertanto – conclude la pronuncia n. 1693 del 2006 – «questo, e non altro, risulta il significato da attribuire al sintagma normativo che predica l’acquisizione “di diritto”».
L’interpretazione appena richiamata ha trovato, di seguito, conferma anche nella ricostruzione del successivo art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 e si è venuta a consolidare nel tempo ad opera sia della giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 33570 del 2021; sezione seconda civile, ordinanza 30 gennaio 2020, n. 2194; n. 23583 del 2017; n. 23453 del 2017; n. 1693 del 2006) sia di quella del Consiglio di Stato (sezione settima, sentenza 8 marzo 2023, n. 2459; ad. plen., n. 16 del 2023; sez. sesta, n. 3697 del 2020; sez. quarta, n. 398 del 2019; sez. quinta, n. 220 del 1997).
Da tale qualificazione – e in assenza di una previsione di legge che specifichi la sorte dei diritti reali minori – il diritto vivente ha, altresì, dedotto che «eventuali ipoteche, pesi e vincoli preesistenti vengono caducati unitamente al precedente diritto dominicale, senza che rilevi l’eventuale anteriorità della relativa trascrizione o iscrizione» (Consiglio di Stato, sentenza n. 16 del 2023 e, in precedenza, la giurisprudenza della Corte di cassazione sin dalla sentenza n. 1693 del 2006). La confisca viene, in sostanza, assimilata, «quoad effecta, al “perimento del bene”, vicenda della quale l’art. 2878 c.c. predica, come conseguenza, l’estinzione del diritto reale di garanzia» (Cass., n. 1693 del 2006); ciò renderebbe irrilevanti le norme sull’ipoteca, che attribuiscono al creditore ipotecario il diritto di sequela sul bene e il diritto a essere soddisfatto con preferenza in sede espropriativa.
Questa Corte – preso atto che, a favore della qualificazione della confisca edilizia come acquisto a titolo originario, si è formato un diritto vivente, confermato e ulteriormente motivato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nell’ordinanza di rimessione – assume la norma censurata come ricostruita dal diritto vivente.
Sotto il profilo delle implicazioni di tale inquadramento, va ribadito – come già precisato nell’esame dell’eccezione di rito (supra, punto 4.2. del Considerato in diritto) e come presupposto dalla stessa ordinanza di rimessione delle Sezioni unite – che la natura originaria dell’acquisto non è in sé logicamente e ontologicamente incompatibile con una disciplina che espressamente preveda (o – come nel caso dell’usucapione – consenta di desumere dai presupposti normativi che compongono la fattispecie acquisitiva) la salvezza di pregressi diritti reali.
Quanto all’onere della trascrizione, l’art. 7, quarto comma, della legge n. 47 del 1985 lascia trasparire una funzione della pubblicità di natura dichiarativa (diversa da quella di cui all’art. 2651 cod. civ. prevista in materia di usucapione), là dove considera il provvedimento che accerta l’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, notificato all’interessato, titolo sia per l’immissione nel possesso sia per la trascrizione. Il Consiglio di Stato (ancora sentenza n. 16 del 2023) sottolinea, al riguardo, che dare adempimento all’onere di trascrizione «rappresenta un atto indispensabile al fine di rendere pubblico nei rapporti con i terzi l’avvenuto trasferimento del diritto di proprietà e consolidarne gli effetti».
Tanto premesso, i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dall’ordinanza di rimessione in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 Cost. riguardano l’asserita irragionevolezza del sacrificio imposto dal meccanismo acquisitivo a titolo originario al creditore «che abbia iscritto ipoteca sul fondo, senza avere alcuna responsabilità nell’abuso edilizio e nel conseguente rifiuto di procedere alla demolizione dell’immobile».
La censura si focalizza, dunque, sull’irragionevole sacrificio imposto al creditore ipotecario non responsabile dell’abuso edilizio.
Il credito garantito da ipoteca gode nell’ordinamento giuridico di una protezione peculiare, che discende dalla realità del diritto di garanzia e dalla sua accessorietà al credito.
Il diritto di ipoteca attribuisce al titolare: lo ius sequelae, che consente di far valere la garanzia anche nei confronti dei terzi acquirenti del bene (ai sensi e nei limiti di cui agli artt. 2858 e seguenti cod. civ.); lo ius distrahendi, che permette al creditore di far espropriare i beni vincolati a garanzia del suo credito; e lo ius praelationis, che comporta la facoltà di soddisfare la pretesa creditoria con preferenza sul prezzo ricavato dalla vendita forzata (artt. 2741, primo comma, e 2808 cod. civ., nonché art. 510, secondo comma, cod. proc. civ.). Al contempo, in caso di cessione del credito, l’accessorietà della garanzia fa sì che il diritto reale si trasferisca insieme con il credito (art. 1263, primo comma, cod. civ.).
L’ipoteca, dunque, compone il patrimonio del creditore; comporta, in caso di espropriazione per pubblica utilità, un obbligo indennitario al pari degli altri diritti reali, come previsto dall’art. 25, comma 1, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. (Testo A)» e gode di una tutela riconducibile all’art. 42 Cost.
Inoltre, essendo una garanzia accessoria al credito, essa è attratta nell’alveo protettivo dell’art. 24 Cost., quale strumento vòlto ad assicurare una tutela preferenziale del credito in sede esecutiva. Come questa Corte ha più volte affermato, «la garanzia della tutela giurisdizionale dei diritti assicurata dall’art. 24 Cost. comprende anche la fase dell’esecuzione forzata, in quanto necessaria a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giudiziale» (ex plurimis, sentenze n. 159 del 2023, n. 228 e n. 140 del 2022, n. 128 del 2021).
Così ricostruito il meccanismo di tutela che l’ordinamento accorda al creditore ipotecario e che richiama lo schermo protettivo degli artt. 24 e 42 Cost., occorre riflettere sulla funzione che svolge la confisca edilizia, onde verificare se e a quali condizioni risulti irragionevole che essa comporti l’estinzione del diritto reale di garanzia.
L’acquisizione ex lege da parte del comune integra – secondo quanto già precisato da questa Corte – «una sanzione in senso stretto, distinta dalla demolizione, che “rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima esegue un’opera abusiva e, poi, non adempie all’obbligo di demolirla” (sentenza n. 345 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 427 del 1995 e ordinanza n. 82 del 1991; analogamente, Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 26 gennaio 2006, n. 1693)» (sentenza n. 140 del 2018).
Pertanto – secondo questa Corte – qualora il proprietario sia radicalmente estraneo all’illecito e «non abbia la possibilità di ottemperare direttamente all’ordine di demolizione» (sentenza n. 345 del 1991), non essendo il bene nella sua materiale disponibilità, «non ricorr[o]no i presupposti per l’acquisizione gratuita del bene [e] la funzione ripristinatoria dell’interesse pubblico violato dall’abuso, sia pur ristretta alla sola possibilità della demolizione, rimane affidata al potere-dovere degli organi comunali di darvi esecuzione d’ufficio» (sentenza n. 140 del 2018, che riprende in proposito la sentenza n. 345 del 1991).
Ribadisce tale «finalità afflittiva» la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato che – intervenendo con riguardo alla disciplina prevista dal t.u. edilizia, che ha espressamente considerato il proprietario, insieme al responsabile, destinatario dell’obbligo di demolire (art. 31, comma 2, t.u. edilizia) – ritiene esperibile la confisca edilizia anche nei confronti del nudo proprietario che non abbia realizzato l’abuso, ma che, in quanto obbligato propter rem alla demolizione, risulti responsabile dell’inottemperanza a tale obbligo (Consiglio di Stato, sentenza n. 16 del 2023; sezione sesta, sentenza 17 marzo 2023, n. 2769).
Ebbene, alla luce della funzione della confisca edilizia, è palese l’irragionevolezza di una disciplina che determina l’automatica estinzione del diritto reale di ipoteca e il conseguente pregiudizio alla tutela del credito, a scapito di un creditore ipotecario che non sia responsabile dell’abuso.
Questi, infatti, finisce per subire le conseguenze sanzionatorie di un illecito al quale è del tutto estraneo, poiché – se non è responsabile dell’abuso edilizio – non può essere destinatario dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, e, dunque, non può rispondere dell’inottemperanza all’ordine.
D’altro canto, il creditore ipotecario non può neppure ritenersi obbligato propter rem alla demolizione, posto che tale diritto reale di garanzia non gli attribuisce né il possesso né la detenzione del bene.
Così acclarata l’irragionevolezza del sacrificio imposto al creditore ipotecario, che non sia responsabile dell’abuso edilizio, non vi sono ragioni – alla luce della disciplina vigente – per circoscrivere la sua tutela al solo caso in cui abbia iscritto ipoteca sul terreno o sia divenuto cessionario del diritto prima della realizzazione dell’immobile abusivo.
Occorre, infatti, rilevare che la natura abusiva di un immobile non incide sulle vicende relative al diritto di ipoteca.
La nullità degli atti tra vivi aventi per oggetto il trasferimento di diritti reali sugli immobili, rispetto ai quali non risultino gli estremi della concessione a edificare o della concessione in sanatoria, non si applica agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia (art. 17, primo comma, secondo periodo, della legge n. 47 del 1985, abrogato dal t.u. edilizia e sostituito dall’art. 46, comma 1, secondo periodo, del d.P.R. n. 380 del 2001, di identico tenore, nonché – con riferimento alle opere realizzate prima del 1° ottobre 1983 e non condonate – art. 40, secondo comma, della legge n. 47 del 1985).
Inoltre, la sentenza che accerta tale nullità non pregiudica i diritti reali di garanzia acquisiti in base a un atto iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda diretta a far accertare detta nullità (artt. 17, terzo comma, e 40, quarto comma, della legge n. 47 del 1985, nonché, di seguito, art. 46, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001). In tal modo, si deroga a quanto contempla l’art. 2652, primo comma, numero 6), cod. civ., che, viceversa, fa salvi i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi solo se la domanda di nullità è stata trascritta cinque anni dopo la trascrizione dell’atto impugnato e solo se i terzi hanno trascritto o iscritto in buona fede il loro atto anteriormente alla trascrizione della domanda.
La richiamata disciplina dettata dalla legge n. 47 del 1985 (e successivamente dal t.u. edilizia) risponde, evidentemente, alla ratio di offrire una particolare protezione al creditore titolare di diritti reali di garanzia, sul presupposto che le ragioni creditorie risultino estranee a quelle istanze di tutela dei traffici giuridici e di contrasto alle finalità speculative, insite nella disciplina di repressione dell’abusivismo, che giustificano la nullità di cui ai citati artt. 17, primo comma, primo periodo, e 40, secondo comma, della legge n. 47 del 1985, nonché 46, comma 1, primo periodo, t.u. edilizia (una nullità che la Corte di cassazione ha, di recente, ascritto al modello dell’art. 1418, terzo comma, cod. civ.: sezioni unite civili, sentenza 22 marzo 2019, n. 8230).
Al contempo, la logica cui si ispira la normativa concernente il diritto di ipoteca avente a oggetto un immobile abusivo si definisce e chiarisce ulteriormente nel raccordo con le regole che governano la procedura esecutiva.
Per un verso, la nullità degli atti aventi a oggetto immobili abusivi non si applica a quelli «derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali» (art. 17, quinto comma, della legge n. 47 del 1985, introdotto con l’art. 8, comma 5-bis, del decreto-legge 23 aprile 1985, n. 146, recante «Proroga di taluni termini di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, concernente norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive», convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 1985, n. 298, anch’esso in seguito abrogato dal t.u. edilizia e riprodotto nel corrispondente art. 46, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001).
Per un altro verso, la disciplina della vendita forzata assicura il rispetto della normativa urbanistico-edilizia.
Infatti, l’«aggiudicatario, qualora l’immobile si trovi nelle condizioni di cui all’articolo 13 della presente legge» – vale a dire qualora presenti la cosiddetta doppia conformità – «dovrà presentare domanda di concessione in sanatoria entro 120 giorni dalla notifica del decreto emesso dalla autorità giudiziaria» (in base al citato art. 17, quinto comma, della legge n. 47 del 1985). Parimenti, qualora l’immobile sia condonabile, in quanto rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al Capo IV della medesima legge e sia oggetto di un trasferimento derivante da procedure esecutive, «la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della [medesima] legge» (art. 40, sesto comma, della legge n. 47 del 1985 e successivamente: art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica» e art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, recante «Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici», convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326).
Ove, viceversa, non ricorrano i presupposti per ottenere la sanatoria dell’immobile o non trovino applicazione eventuali condoni, da un lato, il carattere abusivo e non sanabile dell’immobile deve risultare dall’avviso di vendita (in tal senso, Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 11 ottobre 2013, n. 23140) e, da un altro lato, il bene viene trasferito all’aggiudicatario unitamente all’obbligazione propter rem di provvedere alla demolizione, con tutte le conseguenze che ne derivano in caso di inottemperanza.
In definitiva, la presenza di un abuso edilizio non incide sulla circolazione e sulla tutela del credito ipotecario, le cui facoltà si fanno valere in sede espropriativa, nel rispetto della normativa urbanistico-edilizia.
Pertanto, posto che l’ordinamento giuridico accorda normalmente tutela al creditore che acquista l’ipoteca su un immobile già abusivo, non vi è ragione per cui quel medesimo creditore ipotecario, non responsabile dell’abuso edilizio, debba essere pregiudicato solo perché l’immobile abusivo viene confiscato dal comune per effetto di una sanzione inflitta per l’inottemperanza a un ordine di demolizione, di cui altri devono rispondere.
Infine, occorre sottolineare che la confisca edilizia non frappone ostacoli alla esperibilità della vendita forzata nei confronti del comune che abbia acquisito l’immobile, l’area di sedime e quella circostante, ex art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985.
Il comune va considerato a tutti gli effetti quale terzo acquirente del bene ipotecato, ai sensi degli artt. 2858 e seguenti cod. civ., e i beni confiscati devono ritenersi acquisiti al patrimonio disponibile dell’ente pubblico.
Occorre, a tal riguardo, rammentare – come già precisato (supra, punto 7 del Considerato in diritto) – che l’art. 7 della legge n. 47 del 1985 (così come la successiva disciplina introdotta con l’art. 31 t.u. edilizia) non ha riprodotto quanto precedentemente disposto dall’art. 15, terzo comma, della legge n. 10 del 1977, il quale stabiliva espressamente l’acquisizione dei beni confiscati dal comune al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico, in linea con la previsione del loro necessario utilizzo a fini pubblici. Per converso, nel diverso quadro normativo delineato dall’art. 7 della legge n. 47 del 1985, deve ritenersi che i beni confiscati siano acquisiti al patrimonio disponibile, a meno che non risulti integrata l’ipotesi, divenuta eccezionale, del mantenimento dell’opera per prevalenti interessi pubblici, ai sensi dell’art. 7, quinto comma, della legge n. 47 del 1985 (infra, punto 12 del Considerato in diritto).
In base all’art. 826 cod. civ., appartengono, infatti, al patrimonio indisponibile solo i beni di enti pubblici «destinati ad un pubblico servizio». In particolare, secondo un consolidato orientamento della Corte di cassazione, «affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 826 c.c., comma 3, deve sussistere il doppio requisito (soggettivo ed oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio) e dell’effettiva ed attuale destinazione del bene al pubblico servizio» (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 21 giugno 2011, n. 13585; sezioni unite civili, sentenza 3 dicembre 2010, n. 24563; sezione seconda civile, sentenza 16 dicembre 2009, n. 26402; sezioni unite civili, sentenza 28 giugno 2006 n. 14865; sezioni unite civili, sentenza 27 novembre 2002, n. 16831; sezioni unite civili, sentenza 15 luglio 1999, n. 391; negli stessi termini, Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 26 novembre 2020, n. 26990).
Da ultimo, l’appartenenza dei beni confiscati al patrimonio disponibile è avvalorata anche dalla recente introduzione nel t.u. edilizia della previsione che consente al comune, a determinate condizioni, di alienare i beni confiscati. In particolare, «[n]ei casi in cui l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, culturali, paesaggistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico, il comune, previo parere delle amministrazioni competenti ai sensi dell’articolo 17-bis della legge n. 241 del 1990, può, altresì, provvedere all’alienazione del bene e dell’area di sedime determinata ai sensi del comma 3, nel rispetto delle disposizioni di cui all’articolo 12, comma 2, della legge 15 maggio 1997, n. 127, condizionando sospensivamente il contratto alla effettiva rimozione da parte dell’acquirente delle opere abusive. È preclusa la partecipazione del responsabile dell’abuso alla procedura di alienazione. Il valore venale dell’immobile è determinato dall’agenzia del territorio tenendo conto dei costi per la rimozione delle opere abusive» (art. 1, comma 1, lettera d, del d.l. n. 69 del 2024, come convertito, che ha aggiunto la citata disposizione dopo il primo periodo dell’art. 31, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001).
Illustrate le motivazioni che evidenziano l’irragionevolezza del sacrificio imposto dalla norma censurata al creditore ipotecario non responsabile dell’abuso edilizio, occorre sottolineare che l’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985 vìola gli artt. 3, 24 e 42 Cost. anche sotto il profilo della sproporzione di quel medesimo sacrificio.
Il titolare del diritto di ipoteca – a fronte di una norma che non fa salvo il suo diritto reale – si vedrebbe, infatti, costretto a una continua vigilanza sull’immobile, onde poter chiedere all’autorità giudiziaria la cessazione di quegli atti del debitore o di terzi che, in quanto idonei a creare i presupposti della confisca edilizia, sarebbero tali da cagionare il perimento giuridico del bene e, con esso, l’estinzione della sua garanzia (art. 2813 cod. civ.).
Sennonché, si tratta di iniziative inesigibili, alla stregua dei principi generali elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, il dovere del creditore di tenere una condotta attiva, atta a mitigare il danno, non comprende l’esercizio di attività gravose, quali sarebbero la vigilanza incessante sull’immobile e l’accertamento del carattere abusivo di eventuali manufatti, nonché l’assunzione di iniziative dispendiose e implicanti rischi, quale sarebbe l’avvio di un’azione giudiziale (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 5 agosto 2021, n. 22352; sezione prima civile, ordinanza 8 febbraio 2019, n. 3797; sezione terza civile, ordinanza 5 ottobre 2018, n. 24522; sezione lavoro, sentenza 11 marzo 2016, n. 4865).
D’altro canto, non smentisce la sproporzione del sacrificio determinato dall’estinzione dell’ipoteca l’esistenza di rimedi successivi, che residuerebbero al creditore in caso di perimento giuridico del bene. Quest’ultimo, privato del diritto di rifarsi in via preferenziale sui beni ipotecati, dovrebbe confidare nella permanenza di una parte del terreno oggetto della garanzia reale, non acquisito dal comune, sul quale esercitare l’azione esecutiva, o tentare di richiedere idonea garanzia su altri beni del debitore (art. 2743 cod. civ.) o agire, in via risarcitoria, rispetto al responsabile dell’inottemperanza all’obbligo di demolizione, per la perdita del diritto di ipoteca.
Nondimeno, tutti i rimedi evocati configurano forme alternative di tutela ipotetiche e aleatorie, tali da risultare inadeguate a compensare il sacrificio imposto.
Appare, allora, evidente la sproporzione, oltre che l’irragionevolezza, di un pregiudizio del credito in executivis non necessario a preservare la funzione sanzionatoria propria della confisca edilizia.
Per le ragioni esposte, sono fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 Cost., e va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire.
Resta assorbita la censura concernente l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU.
Se, dunque, si impone di preservare, alle condizioni specificate, il diritto di ipoteca, deve rilevarsi che tale diritto è destinato nondimeno a estinguersi, ove il comune dichiari – secondo il procedimento e nel rispetto dei limiti di cui all’art. 7, quinto comma, della legge n. 47 del 1985 – l’esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento dell’immobile.
Simile provvedimento – che questa Corte ha ritenuto una previsione eccezionale da assumere, accertando «l’esistenza di uno specifico interesse pubblico alla conservazione [dell’immobile] e la prevalenza di questo sull’interesse pubblico al ripristino della conformità del territorio alla normativa urbanistico-edilizia» (sentenza n. 140 del 2018) – imprime un vincolo di destinazione al bene acquisito dal comune, che finisce per attrarlo nel patrimonio indisponibile dell’ente.
Questo determina, pertanto, una nuova e diversa ponderazione degli interessi implicati.
Da ultimo, dichiarata la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985, questa Corte prende atto che l’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 – che la Corte rimettente ha direttamente censurato, ma rispetto al quale le questioni sollevate sono irrilevanti e dunque inammissibili – ha un tenore letterale identico a quello dell’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985.
In particolare, i primi due periodi dell’art. 31, comma 3, t.u. edilizia prevedono che, «[s]e il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita». Anche rispetto a tale disposizione si è consolidato un diritto vivente (supra, punti 8 e 8.1. del Considerato in diritto) che ravvisa un acquisto a titolo originario in capo al comune, dal quale si fa discendere l’estinzione del diritto di ipoteca in precedenza iscritto.
A ciò si aggiunga che l’apparato di regole sistematicamente coordinato alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima, e che ha inciso sulle motivazioni addotte a supporto di tale declaratoria, trova corrispondenza – come si è in precedenza evidenziato (supra, punti 7 e 9.3. del Considerato in diritto) – con quanto disposto dal d.P.R. n. 380 del 2001.
Valgono, allora, rispetto all’art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, t.u. edilizia, le medesime motivazioni poste a supporto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 7, terzo comma, della legge n. 47 del 1985.
Pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art. 31, comma 3, primo e secondo periodo, del d.P.R. n. 380 del 2001, nella parte in cui non fa salvo il diritto di ipoteca iscritto a favore del creditore, non responsabile dell’abuso edilizio, in data anteriore alla trascrizione nei registri immobiliari dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire.