Sostenibilità, coesione e competitività nel governo del territorio

di 18 Maggio 2004 Incontri

Relazione del Prof. Paolo Urbani al Convegno "Dall’urbanistica al governo del territorio"
Firenze, 18 aprile 2004

Il governo del territorio: verso una riunificazione nell’esercizio delle competenze?

Mi sembra che qui si possano sollevare quattro questioni su cui riflettere.
La prima questione è quella relativa al significato da dare al concetto di governo del territorio
di cui all’117 Cost.
E’ evidente che il concetto di urbanistica si è ampliato “a governo (degli usi e della gestione)
del territorio” – e che per l’individuazione della materia il legislatore costituzionale ha fatto ricorso non al metodo storico-normativo che cristallizza le definizioni basate sul solo linguaggio legislativo ma al metodo storico-evolutivo per il quale le definizioni vanno si individuate dalla legislazione ordinaria ma tenendo conto che la sua evoluzione è in grado di aver determinato anche l’evoluzione delle stesse definizioni giuridiche costituzionali.
In sostanza, con il termine governo del territorio non si è fatto altro che prendere atto di tutto
l’ordinamento pregresso, ma come risultava anche dagli apporti dottrinali e giurisprudenziali e dalla loro capacità di colmare ermeneuticamente la distanza tra la realtà e le norme.
Ma il termine “governo del territorio” introdotto in Costituzione – e l’eliminazione (dovuta al suo assorbimento) del termine urbanistica previsto dal vecchio art.117 cost – induce anche ad una diversa lettura sotto il profilo del suo significato letterale.
Questa è l’unica materia che il legislatore costituzionale caratterizza con una locuzione unitaria “governo del territorio”. Per altre materie o settori ciò non accade (ad es. porti e areoporti civili, grandi reti di trasporto oppure nel testo precedente “agricoltura”) mentre in altri casi l’individuazione della materia “ambiente” “beni culturali” “lavoro” “salute” é caratterizzata con il termine “tutela” con ciò determinando le finalità cui deve attenersi la disciplina.
In breve, il territorio non andrebbe più visto sotto il solo profilo dell’assetto – come indicava il DPR 616/77 – ma soprattutto del governo. E’ non è indifferente che al concetto di “governo” si riconnetta il diverso sistema di legittimazione elettorale che ormai coinvolge tutti i livelli di governo territoriale. Con tale locuzione s’intende che la disciplina della materia ha sempre al centro il territorio sotto l’aspetto degli usi più diversi (in ciò riprendendo l’originaria urbanistica intesa come disciplina degli usi) (produttivi, edilizi, della mobilità, ambientali, naturalistici) ma ai fini della loro governabilità (intesa come guida, direzione, amministrazione) più che in altri settori, concetto che implica – per la molteplicità degli usi e degli interessi in campo – un’azione coordinata ed equilibrata. La governabilità o come si usa dire oggi la “governance” diviene ancor più il fine cui deve tendere la disciplina degli assetti quando ci si trovi di fronte alla tutela di particolari beni che ne impongono un uso “misurato”.
L’esistenza sul territorio di determinati beni “pubblici” (risorse idriche, suolo, paesaggio, ambiente naturale) determina la presenza d’interessi “differenziati” e di una disciplina speciale “parallela” alla disciplina degli usi del territorio. La pluralità dei soggetti pubblici elettivi (autonomie territoriali) e delle amministrazioni di settore impone quell’azione di coordinamento e di governo tra istituzioni di diverso peso e dimensione che si esprime nella locuzione “governo del territorio” (e dei suoi usi) visto soprattutto – quando gli assetti prevedono la presenza di una pluralità di attori pubblici con competenze specifiche – sotto il profilo della “governance” che esprime il momento dinamico delle relazioni preventive e stabili tra soggetti dotati di autonomia e di competenze ben separate. In altre parole, come ci ha ricordato la Corte cost. nella sent.303/2003, in materia di legislazione concorrente, li dove vi sono competenze amministrative diverse, il loro esercizio deve necessariamente svolgersi attraverso lo strumento dell’intesa, ed io aggiungo anche nel caso in cui vi sia esercizio di competenze esclusive statali poiché comunque se gl’interventi ricadono sul territorio è solo attraverso intese o accordi che si possono comporre i diversi interessi. Ma sappiamo che in molti casi questo non accade ed è causa di estenuanti conflitti come nel caso delle opere pubbliche previste dalla l.443/01. (pensiamo solo al quadrilatero Umbria-Marche o all’autostrada Civitavecchia-Livorno).
Ma detto questo non credo sia possibile argomentare che attraverso il governo del territorio si
debba andare necessariamente verso una riunificazione delle competenze in capo agli enti territoriali: questo non è possibile sia perché lo impedisce il riparto delle competenze legislative previsto dalla Cost. sia perché non possiamo obliterare in molti casi il ruolo decisivo che svolgono le amministrazioni centrali o di settore nella tutela d’interessi generali che superano la dimensione locale. Una cosa è la distribuzione delle funzioni amministrative altro è il loro esercizio svolto nelle forme collaborative e delle intese.

La tutela del paesaggio come interesse differenziato che impone un processo collaborativo tra i diversi attori pubblici.

Ecco perché – e passo al seconda questione – non ritengo che la riforma adottata dal Codice dei beni culturali (D. Legsl. 41/2004) per la pianificazione ed il controllo dei beni paesaggistici risponda al criterio necessario della tutela differenziata degl’interessi sul territorio. Occorre quindi valutare con grande attenzione le modifiche apportate al sistema della tutela paesaggistica.
Il nostro sistema amministrativo è fondato sul principio che nei confronti di beni aventi rilevanza territoriale, la cura e soddisfazione dell’interesse pubblico differenziato vada affidata ad autorità specializzate. (Cerulli Irelli 1985, Urbani 2001). In sostanza, il rapporto tra interesse pubblico e specialità dell’ente preposto alla sua cura costituisce un’invariante del sistema (così per la difesa del suolo e le risorse idriche, per la tutela ambientale e naturalistica, per l’inquinamento atmosferico) (Giannini, 1973).
L’attribuzione della funzione amministrativa di pianificazione alle regioni – in coerenza con quanto previsto dal 118 cost. – è certamente corretta ma l’eliminazione in alcuni casi dell’autorizzazione paesaggistica assorbita nell’ambito del procedimento di rilascio del titolo edilizio o, nel caso in cui permanga il controllo sovrintendizio, la sua dequotazione al ruolo di semplice parere preventivo consultivo (non vincolante), non mi sembra garanzia di adeguata tutela degl’interessi paesaggistici. Peraltro lo spostamento verso i comuni della tutela dei valori paesaggistici posto in essere dalla gran parte delle regioni crea un equivoco istituzionale tra controllore e controllato. Occorre a mio avviso ripensare il sistema specie ora che si tratterà di avviare la redazione dei piani paesisitici secondo i nuovi contenuti, considerando che anche il paesaggio fa parte del “governo del territorio” ma con una precisa identificazione della materia che non può essere ricompresa tout court nell’urbanistica pena la perdita di specificità dell’interesse tutelato.:

Il piano territoriale di coordinamento provinciale come parametro di sostenibilità dello sviluppo locale.

Il principio di sussidiarietà previsto dal Titolo V ha ridato nuova centralità al comune come
soggetto primario del governo del territorio ma non possiamo dimenticare che il territorio dei
comuni rientra nella dimensione di media area della provincia e che il loro sviluppo deve
misurarsi con il contesto di media area provinciale. Questo non appare sempre chiaro cosicché
le politiche urbane sono spesso scollate dal contesto della pianificazione provinciale. La domanda è: la responsabilità é del piano provinciale che si rivela un “piano debole” la cui funzione spesso si deve arrestare di fronte alla “riserva” di piano regolatore dovendo curare solo l’assetto degl’interessi provinciali o invece la responsabilità è da ricercarsi nel metodo della pianificazione provinciale che molto spesso prescinde dall’apporto collaborativo dei comuni alla sua elaborazione?
E’ un punto molto importante su cui riflettere specie oggi che la provincia non ha più l’originaria funzione di controllo (propria delle regioni) assumendo quella di verifica di compatibilità delle scelte comunali con le invarianti del PTCP. La provincia oggi assume il ruolo di ente di copianificazione con i comuni ed il piano così costruito deve assumere la funzione di parametro di sostenibilità dello sviluppo locale.. E’ pur vero che secondo l’art.57 del d.legsl.112/98 il PTCP può divenire il contenitore delle discipline parallele (piano di bacino, paesaggistico, delle aree naturali) mediante accordi con le autorità preposte a tali pianificazioni di settore, ma a mio avviso questo non è sufficiente poiché anche nelle aree non vincolate si pone un problema di sostenibilità e di compatibilità degli interventi di trasformazione con quello degli antri enti locali. Questa sostenibilità sia territoriale che ambientale derivante dalle scelte del PTCP dev’essere il punto di riferimento cui ancorare la politica urbanistica dei comuni, altrimenti questi stretti dalla mancanza di risorse pubbliche, utilizzano l’edificabilità dei suoli al solo fine di garantirsi entrate costanti attraverso l’ICI, cadendo così nell’errore di considerare il territorio solo produttore di reddito ma non di sviluppo. Non è un caso che la legislazione regionale abbia previsto che il documento
preliminare del piano strutturale comunale sia condiviso preliminarmente dalla provincia e
dagli altri enti interessati nella conferenza di pianificazione.
Questo dovrebbe valere anche per i comuni nella fase di effettiva partecipazione all’elaborazione dei contenuti del PTCP per condividerne le invarianti fondamentali. Disciplina che già oggi è contenuta solo in alcune leggi regionali come quelle della Regione Emilia-Romagna (20/2000) e nella nuova riscrittura della legge Toscana di modifica della l.5/95. Va comunque detto che l’esperienza della pianificazione provinciale, tranne rare eccezioni, è del tutto insoddisfacente, proprio perché gli stessi urbanisti, ma anche le amministrazioni provinciali non hanno interpretato
adeguatamente la funzione ed il ruolo del piano provinciale, identificandolo come un piano di vincoli e non come un piano di opportunità di sviluppo. Di qui, a mio avviso, la necessità di
ripensare lo “statuto” del piano provinciale per meglio adeguarlo alle esigenze di coordinamento delle politiche urbanistiche comunali. Nella disciplina urbanistica della legge del 1942 l’originaria funzione di controllo regionale incideva direttamente sul dimensionamento dei piani urbanistici comunali, nonché sul rispetto degli standards urbanistici e dei vincoli delle tutele parallele. Mentre per questi ultimi la verifica di compatibilità con le disposizioni del PTCP è ancora attuale, l’ambito di autonomia comunale previsto dal Titolo V impedisce ormai che si operi sul dimensionamento dei piani; ciò non toglie tuttavia – così come è previsto ad es. dal PTCP della provincia di Milano – che lo stesso piano provinciale agisca comunque sulle politiche urbane definendo in alcuni casi anche i criteri cui questi si devono attenere per misurare la crescita urbana con la sostenibilità
ambientale e territoriale complessiva di media area.
In quest’ottica, a mio avviso, è senz’altro criticabile la non menzione della provincia nel testo di riforma di governo del territorio, considerando che ai sensi dell’art.117 lett p) la funzione di pianificazione territoriale rientra certamente tra le funzioni fondamentali della provincia, la cui individuazione e di competenza esclusiva statale (come escludere queste dal sistema della pianificazione soprattutto ora che la legislazione statale prima, e oggi quella regionale, hanno attribuito ad esse la funzione di verifica e compatibilità della pianificazione comunale con la pianificazione di media area?).

Le aree urbane ed il fabbisogno di opere di urbanizzazione

Credo che le aree urbane, specie le grandi aree urbane, rappresentino uno degli aspetti qualificanti il governo del territorio. Vi è una problema di modernizzazione delle città in rapporto all’Europa. E’ il settore ove la funzione dell’amministrazione centrale nel ruolo di parternariato appare determinante, come risulta in tutti i paesi della Comunità, funzione che l’attuale governo ha completamente trascurato. Ritengo che le politiche urbane dovrebbero essere ancorate da un lato a due principi dell’azione dei poteri pubblici riassumibili per semplicità nella sussidiarietà e nell’amministrazione di risultato e dall’altro rispondere essenzialmente a due canoni di riferimento: la coesione e la competitività. Per coesione s’intende qui la riconoscibilità di una collettività nei suoi valori urbani e culturali, nella qualità dei luoghi di vita e di lavoro, in breve nella dotazione di servizi personali e reali, nelle opere di urbanizzazione come si direbbe in linguaggio urbanistico, nelle infrastrutture ovvero in tutto quel sistema d’interventi a rete che concorre in modo determinante a costituire o a ricostruire un tessuto urbano che di questi elementi è estremamente carente. Per competitività si deve intendere la ricerca da parte dell’amminstrazione locale di trarre il massimo vantaggio da operazioni di riqualificazione urbana non più solo ancorate all’equilibrio economico-finanziario delle iniziative ma strettamente collegate alla soddisfazione della coesione intesa come soddisfazione dei fabbisogni collettivi.
L’azione di governo locale deve saper far interagire questi elementi e solo dalla loro intelligente combinazione ne possono derivare effetti positivi sull’assetto condiviso del territorio.
Se questo è vero occorre allora ribaltare la tradizionale concezione che il piano urbanistico abbia come funzione principale quella di determinare la destinazione d’uso dei suoli – in sintesi l’edificabilità – considerando complementare la copertura del fabbisogno di opere di urbanizzazione attraverso gli oneri.
Si deve rovesciare il ragionamento e porre come prioritario il programma triennale delle opere pubbliche o il piano dei servizi ed assicurare quindi la copertura dell’enorme gap di opere e di servizi nelle nostre città, condizionando l’edificabilità delle aree all’effettiva copertura di tali opere anche oltre gli oneri urbanizzativi. E di questa esigenza sembra farsi carico anche il pdl di individuazione dei principi fondamentali in materia di governo del territorio in discussione alla Camera, dando così copertura legislativa ad una prassi che molti giudici amministrativi considerano in contrasto con il principio di legalità dell’azione amministrativa, sul presupposto che in tal modo s’imporrebbero ai privati “oneri esorbitanti”.
In questo la separazione tra piano strutturale e piano operativo ben si presta a questo scopo.
D’altronde le tecniche del project finance, del confronto concorrenziale, dello scambio edificatorio vanno finalizzate proprio al soddisfacimento degl’interessi pubblici della collettività e non del singolo imprenditore. Sappiamo che questi strumenti, che trovano sempre più spazio nelle politiche pubbliche dei comuni per il soddisfacimento dei servizi pubblici o di pubblica utilità, sono strettamente ancorate all’utilizzazione edificatoria dei suoli nella forma dell’integrazione del “prezzo”, ricorrendo spesso alla variazione dello strumento urbanistico.
Credo allora che si debba prendere atto che queste tecniche non possano essere disgiunte dalle scelte generali di pianificazione ma debbano trovare adeguato spazio proprio all’interno delle scelte del piano strutturale perché possano essere governate unitariamente con lo sviluppo territoriale complessivo.
Ma in questo ragionamento dev’esser chiaro che nei processi di decisione urbanistica i privati
non possono essere più considerati solo destinatari ma interlocutori delle scelte poiché nella determinazione degli assetti e della loro governabilità il loro apporto finanziario può essere determinante per l’interesse pubblico generale.
Su questo è bene chiarire subito che la tecnica dell’urbanistica “consensuale”, se opportunamente disciplinata a monte direttamente nel piano strutturale, è in funzione dell’interesse pubblico generale, non del privato. La codeterminazione pubblico-privato degli assetti urbanistici non costituisce perdita di potere dei soggetti pubblici a favore di una deriva liberista ma al contrario assunzione di responsabilità dei privati nel soddisfacimento degli interessi pubblici generali.

Paolo Urbani
Firenze 18 aprile


Note

V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati RTDP 1985.
M.S.Giannini, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici RTDP 1973
P.Urbani, La pianificazione per la tutela dell’ambiente, delle acque e per la difesa del suolo in RGA 2/2001.