La Pianificazione paesaggistica


Relazione di Paolo Urbani al convegno della Società Toscana degli Avvocati Amministrativisti
Firenze – giugno 2004



Nella nuova disciplina del paesaggio di cui al Codice Urbani, l’aspetto della pianificazione dei valori paesaggistici assume, rispetto al passato, una rilevanza centrale.
Già prevista dalla l.1497/39 ma facoltativa, successivamente ripresa dal DPR n.8 del ’72 affidandone la redazione alle regioni, oggetto di fissazione dei contenuti con la l.431/85 ed il DPR 490/99, la pianificazione diviene oggi il perno attorno al quale ruota tutta la disciplina, strumento – obbligatorio sia per lo stato che per le regioni – di composizione degl’interessi differenziati con la disciplina degli usi ordinari del territorio.
D’altronde, nell’ambito delle tutele parallele l’ordinarsi per piani, con contenuti ed effetti giuridici, è divenuto imperativo categorico cui subordinare in una visione prospettica e di largo respiro qualunque azione di tutela. Basti pensare alla materia delle acque e della difesa del suolo, alla tutela dei parchi naturali, alla disciplina provinciale della localizzazione e smaltimento dei rifiuti.
Il principio di pianificazione costituisce dunque il caposaldo di qualunque attività dei pubblici poteri che – in funzione della tutela degl’interessi ad essi attribuiti – abbia come oggetto il territorio e la
sua conformazione. Ma una cosa è il richiamo al principio, altro è il contenuto e l’efficacia da attribuire all’atto di pianificazione, inteso in senso generale come ordinata spaziale e temporale a fini di risultato. (Giannini, Enc Diritto, Pianificazione ad vocem).
Ma il codice, pur avendo a disposizione un ampio menù di possibili metodologie di atti programmatici ha preferito riprendere in pieno, quello della pianificazione urbanistica assorbendone gli elementi cardine: la zonizzazione, la prescrittività, le modalità di attuazione.
Non si può non rilevare, tuttavia, un paradosso e cioè che mentre il dibattito tra i giuristi sul bilancio di oltre sessant’anni di applicazione della disciplina urbanistica registri un corale giudizio di fallimento di quell’esperienza (basterebbe qui citare Cerulli Irelli o Stella Richter), il legislatore nazionale abbia voluto invece riprendere in toto le tecniche della pianificazione urbanistica applicandole alla tutela del paesaggio. Certamente il ricorso ad uno strumento così analitico e prescrittivo va ascritto come reazione all’eccessiva vaghezza e genericità della disciplina puntuale dei vincoli paesaggistici vigenti, che hanno attribuito in modo eccessivo alla discrezionalità dell’amministrazione di settore la verifica delle compatibilità delle trasformazioni rispetto alla tutela del valore, cosicché è sembrato che l’analitica e particolareggiata individuazione delle trasformazioni d’uso ammissibili sia la migliore garanzia per ridurre la discrezionalità e ancorare la valutazione a parametri oggettivi e non soggettivi. Ma a nostro avviso, una così analitica prescrittività del piano ed una così eccessiva articolazione dei valori paesaggistici spesso di difficile o arbitraria identificazione (che senso ha introdurre anche le aree degradate?), urta con lo stesso concetto dinamico di paesaggio e qui mi riferisco alla bipartizione gianniniana tra paesaggio naturale e paesaggio artificiale. Mentre per il primo che chiamerei di tipo statico è probabile che le prescrizioni di piano possano limitarsi ad una disciplina negativa che evidenzi gli obblighi di non fare propria della disciplina vincolistica, per il paesaggio “artificiale” questo – cito
Giannini – “è opera di gruppo, restando quasi in assoluto anonimi gli autori degli interventi e dei cambiamenti, e adespoti i singoli oggetti o le singole combinazioni di pregio che compongono l’insieme urbanistico o naturalistico”[1]. In quanto tale la sua efficace ed unitaria conservazione dev’essere “opera corale del gruppo esponenziale, senza la quale la tutela è vissuta come imposizione e non come valorizzazione”.
Di conseguenza, ingessare nel tempo tramite lo strumento del piano, redatto dall’alto, i paesaggi “artificiali” ove l’opera dell’uomo ha creato delicate forme di equilibrio tecnico-artistico, significa negare in radice la necessaria flessibilità che occorre assicurare alle forme di tutela del valore paesaggistico in rapporto all’evolversi di quel contesto sociale ed economico.

Si deve quindi osservare che sarebbe stato più rispettoso del dettato costituzionale (art.118 cost), ricorrere proprio allo strumento dell’accordo gia previsto nel 2001 e siglato tra il Ministero dei Beni
culturali e le regioni, e non della legge anche in considerazione del fatto che al piano viene richiesta la disciplina della tutela dei beni paesaggistici ma anche della loro valorizzazione, materia quest’ultima che ai sensi dell’art.117 3 co. rientra nella legislazione concorrente.
Si sarebbe cioè potuto procedere, superando il concetto obsoleto del piano paesaggistico omnicomprensivo (ci si è mai domandati perché le regioni abbiano proceduto con tanto ritardo alla redazione dei piani paesistici vigenti?) affidando alla regioni l’individuazione, in stretto
collegamento gli interessi locali, delle soluzioni organizzative più aderenti alle specificità regionali.
– Ad es. attraverso un atto d’indirizzo (linee guida, piano direttore) da parte regionale che individuasse i principi cui deve ispirarsi la tutela in rapporto alla graduazione dei valori paesaggistici;
– affidando alle province – disegnate dal legislatore con enti di governo dell’ambiente – di concerto con gli enti locali interessati e le esigenze delle popolazioni locali, il compito di redigere piani provinciali paesaggistici di disciplina dei diversi beni previsti dall’art.134 del codice, da considerare oggetti necessari dei piani provinciali trasfondendone la disciplina poi nei piani urbanistici tramite accordi di pianificazione. Va rilevato sul punto che già in molte leggi regionali (ad es.Lombardia) è previsto proprio che i piani proviniciali assumano i contenuti e gli effetti del piano paesistico provinciale. E questo diviene ancor più necessario nella misura in cui anche dove le regioni hanno redatto i piani paesaggistici, la scala di pianificiazione di quei piani è in molti casi
non inferiore a 1:100.000, rendendo quindi velleitaria una effettiva disciplina d’uso e tutela dei beni paesaggistici.
Ciò avrebbe reso più snello il procedimento di formazione della pianificazione paesaggistica, per stralci territoriali, cosi come il piano di bacino si articola per stralci funzionali, applicando alla “cultura” del paesaggio il principio di sussidiarietà di cui al 118 Cost.
La previsione di un unico piano paesaggistico d’iniziativa regionale che sembra dover ricoprire – per l’ampiezza delle fattispecie da disciplinare – l’intero territorio regionale sulla base dell’equivoco mutuato impropriamente dalla Convenzione europea che tutto è
paesaggio, riproduce tutti i difetti della pianificazione urbanistica: due su tutti a) l’irragionevolezza dei tempi di redazione, approvazione e adeguamento di un piano di queste dimensioni, b) la rigidità delle prescrizioni. Ma poiché lo stesso codice prevede un lungo margine di tempo (4
anni) per le regioni per la formazione e due anni per i comuni per l’adeguamento dei piani paesistici (termini ordinatori) senza contare che ai sensi dell’art.145 la pianificazione paesaggistica sarebbe subordinata alla redazione delle linee fondamentali dell’assetto del
territorio nazionale, possiamo tranquillamente concludere per il rinvio almeno decennale di questa riforma che nasce già vecchia nei suoi contenuti ed illuministica nei suoi obiettivi.



Se guardiamo ora ai contenuti “necessari” del piano questi non possono che essere i beni individuati ai sensi dell’art.134: le aree (o meglio i beni) tutelate per legge, quelle oggetto di notevole dichiarazione d’interesse pubblico oggetto di provvedimento amministrativo, le altre aree individuate dalle regioni stesse.
Si è molto discusso sull’interpretazione da dare al 1 co dell’art.142 che afferma che i vincoli ex lege sono sottoposti alle disposizioni del Titolo I “fino all’approvazione del piano paesaggistico”.
Un’interpretazione allarmistica sembrerebbe affidare al piano un potere conformativo della tutela che potrebbe anche portare alla eliminazione della tutela stessa in rapporto alla graduazione del
valore paesaggistico. In sostanza il vincolo non assolverebbe altro che ad una funzione di salvaguardia rimettendo poi al piano la concreta determinazione dell’interesse paesaggistico da tutelare che potrebbe anche essere azzerato. Anche qui l’interpretazione sarebbe mutuata dalla disciplina urbanistica introdotta dalla legge ponte attraverso le cosiddette “norme di salvaguardia”.
Una seconda interpretazione più rispondente alla lettura complessiva delle disposizioni del codice in materia inducono a ritenere che si è in presenza di una fattispecie a formazione progressiva cosicché in assenza di piano le aree sono comunque tutelate ma con le prescrizioni del piano la tutela e valorizzazione acquista la necessaria concretezza. In breve il piano “attua” la tutela
non la può contraddire né attenuare nei suoi presupposti fondamentali. D’altronde, tale interpretazione più aderente allo spirito della disposizione s’impone soprattutto per una serie di considerazioni sistematiche. Tra le tante, vale la pena di notare che un’interpretazione che portasse alla radicale conseguenza del venir meno, a regime, delle aree tutelate per legge sarebbe in contrasto con l’art. 10 legge 6 luglio 2002, n. 137, la disposizione che ha delegato il governo a «codificare» la materia dei beni culturali e paesaggistici per adeguarla agli artt. 117 e 118 della Costituzione, con il limite di non operare «l’abrogazione degli strumenti attuali».
È appena il caso di ricordare come l’interprete sia tenuto tra più opzioni a preferire quella più compatibile con la Costituzione ed in questo caso con i principi e criteri direttivi della legge delega.
Detto questo però si deve rilevare che il sistema delle tutele differenziate nel nostro ordinamento risponde al principio che per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico occorrono autorità
specializzate preposte alla cura ed alla soddisfazione di quell’interesse; nel campo delle discipline parallele di tutela, il rapporto tra interesse pubblico e specialità dell’ente preposto alla sua cura costituisce un’invariante del sistema (così per la difesa del suolo e le risorse idriche, per la tutela ambientale e naturalistica, per l’inquinamento atmosferico). A nostro avviso, non ha senso parlare di beni paesaggistici vincolati alla destinazione se la loro utilizzazione, compatibile con la tutela, non è sottoposta al controllo preventivo dell’autorizzazione.
E’ tanto vero questo che quando il codice affronta il tema delle competenze degli enti locali cui le regioni conferiscono il potere di rilascio “dell’autorizzazione paesaggistica”, per il suo esercizio si prevede l’istituzione di una Commissione per il paesaggio (art.148) con specifiche competenze ed in posizione autonoma dalla commissione edilizia, superando anche qui il “bisticcio” di competenze ancor in atto a livello locale operato dalle leggi regionali in materia di delega ai comuni dell’autorizzazione paesaggistica. In sostanza il rapporto vincolo, piano, autorizzazione costituiscono elementi fondamentali del sistema di tutela.
Questi principi sono invece contraddetti, anche se in modo confuso e contraddittorio, dal testo dell’art.142 poiché si afferma in sostanza – e questo in particolare per le aree ex lege – che per particolari situazioni territoriali la valutazione della compatibilità paesaggistica è assorbita nel procedimento di rilascio del titolo edilizio eliminandosi in tal modo l’autorizzazione.
A me pare che questa disposizione costituisca un vulnus al sistema delle tutele differenziate che potrebbe estendersi anche ad altri settori. Le prescrizioni del piano paesistico ancorché recepite nello strumento urbanistico non possono in alcun modo assorbire il controllo sulle trasformazioni ammesse. I contenuti dei piani restano distinti così come le materie oggetto di disciplina sono diverse. Per quanto analitiche possano essere le prescrizioni residua sempre un ambito di discrezionalità del soggetto preposto alla tutela del valore differenziato che non può essere rimesso alla valutazione di un soggetto incompetente.
Lo stesso regime autorizzatorio dell’art.146 ancorché dequotato, è lasola garanzia della verifica della rispondenza effettiva degl’interventi alla tutela del valore paesaggistico.
Più in generale, non si può non rilevare comunque che – anche per effetto del principio di sussidiarietà e di equiordinazione tra i poteri pubblici sancito dall’art.114 Cost. – emerga sempre più – da parte degli enti esponenziali degl’interessi locali –un “fastidio” del “controllo differenziato” così come si palesava in passato un “fastidio” della partecipazione dei privati al processo di pianificazione urbanistica che oggi sembra ampliamente superato.
Il superamento della gerarchia degli interessi impone allo stesso modo il ricorso necessario ad un processo valutativo e di confronto tra i vari interessi non certo il loro assorbimento o la loro
eliminazione.
Un’ampliamento concettuale della disposizione del codice surrichiamata rischierebbe, nell’ambito dell’attuazione delle pianificazioni territoriali, di mandare in soffitta gran parte della disciplina in tema di conferenze di servizi e di annullare il significato della disposizione dell’art.57 del D.lgs.112/89 in tema di osmosi territoriale dei piani differenziati nel piano provinciale, che non
elimina tuttavia la disciplina differenziata del controllo.
Per il paesaggio, il risultato di tale disciplina, non molto lontana dalla prassi attuale, ci porterebbe facilmente a concludere che “ciascun territorio ha il paesaggio che si merita”.

Paolo Urbani

Roma 30 giugno 2004


[1] M.S.Giannini, I beni culturali, in Rivista trimestrale di Diritto pubblico, 1976 n.1 p.1.