Le caratteristiche della ristrutturazione edilizia di Paolo Urbani

Con la sentenza n. 858 del 25 gennaio 2023, il Consiglio di Stato, sez. IV, ha affermato che la ristrutturazione edilizia, per definizione, comporta la trasformazione del manufatto edilizio preesistente e l’intervento edilizio si considera non sussumibile in questa fattispecie soltanto allorché le modifiche si palesino “apprezzabili” sul versante del volume (che quindi entro certi limiti può aumentare), tali da comportare “connotati alquanto diversi” rispetto alla sagoma (che quindi entro certi limiti può mutare), idonee, in sintesi, a “trasformare totalmente”, cioè in maniera globale e radicale, l’edificio (che, quindi, di regola è destinato a cambiare per diventare un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”).

La controversia ha ad oggetto la legittimità del permesso di costruire, dell’autorizzazione paesaggistica e degli atti endoprocedimentali relativi ad un intervento di “sopraelevazione e ristrutturazione edilizia” su di un fabbricato ubicato nel Comune di Viareggio di proprietà privata.

L’appellante chiedeva al Comune il rilascio del permesso di costruire per effettuare dei lavori edilizi, da lei qualificati come di ristrutturazione di due unità immobiliari. Il comune rilasciava il permesso di costruire dopo che era stata rilasciata l’autorizzazione paesaggistica da parte del Comune di Viareggio, previo parere favorevole della Soprintendenza competente per territorio.

Le ricorrenti in primo grado, proprietarie di un edificio confinante a quello dell’appellante, domandavano l’accesso agli atti relativi alla pratica edilizia e impugnavano dinanzi ai giudici territoriali il permesso di costruire, l’autorizzazione paesaggistica e gli atti endoprocedimentali.

Le ricorrenti sostenevano che l’intervento assentito non consisterebbe, in realtà, in un intervento

di ristrutturazione edilizia, bensì in un intervento di nuova costruzione.

Il TAR Toscana accoglieva il ricorso; avverso detta statuizione, la soccombente ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado.

Ad avviso del Consiglio, l’appello è fondato.

Con il primo motivo, l’appellante afferma che risulta evidente la piena conoscenza della sussistenza di un provvedimento lesivo, ben prima di quanto abbia rilevato il TAR.

Relativamente al termine di impugnazione dei titoli edilizi, il Consiglio ha avuto modo di affermare che:

  1. la verifica della piena conoscenza dell’atto lesivo da parte del ricorrente, al fine di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale, deve essere cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni ovvero su deduzioni, pur sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche. La prova della tardività dell’impugnazione incombe sulla parte che la eccepisce, secondo i generali criteri di riparto del relativo onere e deve essere assistita da rigorosi ed univoci riscontri oggettivi, dai quali possa arguirsi con assoluta certezza il momento della piena conoscenza dell’atto o del fatto (Cons. Stato, sez. V, 28 ottobre 2019, n. 7389; sez. V, 11 maggio 2018, n. 2834);
  2. nell’ambito delle controversie che hanno ad oggetto l’impugnazione di titoli edilizi, il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s’intende avvenuta al completamento dei lavori, salvo che non si contesti l’an dell’edificazione (Cons. Stato, sez. II, febbraio 2022, n. 79; sez. VI, 9 gennaio 2020, n. 191; sez. IV, 2 luglio 2021, n. 5076; sez. IV, 28 luglio 2017, n. 3763; sez. IV, 21 marzo 2016, n. 2782; 21 marzo 2016 n. 1135; 15 novembre 2016, n. 4701);
  3. nondimeno, la prova della conoscenza anticipata della lesività del provvedimento che ha consentito l’edificazione può essere fornita, da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso, anche a mezzo di presunzioni semplici (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2022, n. 219; sez. VI, 09 gennaio 2020, n. 191; sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5675; sez. IV, 28 luglio 2017, n. 3763; sez. IV, 23 giugno 2017, n. 3067).

Applicando i principi appena richiamati, il Collegio rileva come la spiccata peculiarità del caso di specie deponga per la “conoscenza anticipata”, da parte delle controinteressate, circa l’avvenuto rilascio di un provvedimento potenzialmente lesivo della loro posizione giuridica.

Giova evidenziare, infatti, che la dinamica delle trattative non ha trovato, in primo grado, una compiuta smentita circa le modalità di svolgimento, da parte delle ricorrenti, le quali si sono premurate di fornire, invece, quella che il Collegio ritiene essere una diversa qualificazione giuridica della vicenda.

I fatti relativi allo svolgimento delle trattative possono ritenersi dunque ammessi in base al principio di non contestazione di cui all’art. 64, comma 2, c.p.a., considerato che quanto affermato dalle ricorrenti non può valere né come contestazione implicita (non trattandosi di “fatti incompatibili”, cfr. Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2013 n. 4194), né come contestazione “specifica”, non potendo valorizzarsi a tal fine l’impiego della locuzione “Ammesso e non concesso” da parte delle ricorrenti.

Giova peraltro evidenziare anche che l’appellante ha depositato in atti le dichiarazioni provenienti da soggetti terzi che sono stati coinvolti nelle trattative tra le parti per ragioni professionali (notaio, mediatori immobiliari), i quali hanno reso dichiarazioni scritte conformi a quanto rappresentato dall’appellante.

Conseguentemente, contrariamente a quanto da loro affermato, le proprietarie del fondo limitrofo, ricorrenti in primo grado, proprio per la dinamica delle trattative intavolate con la controparte, erano a conoscenza della presenza di un progetto potenzialmente lesivo, anche nel contenuto essenziale, della loro sfera giuridica, nonché della volontà della appellante di realizzarlo, sicché quando i lavori sono iniziati erano a conoscenza – o avrebbero potuto esserlo, adoperando l’ordinaria diligenza – della lesività del titolo edilizio rilasciato alla loro controparte.

Con il secondo motivo, l’appellante evidenzia che i lavori autorizzati rientrerebbero appieno nella nozione di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3 d.P.R. n. 380/2001.

Il Collegio ritiene che, contrariamente a quanto affermato dal TAR, l’intervento realizzato dall’odierna appellante non possa considerarsi di “demolizione e ricostruzione”, ma di ristrutturazione edilizia tout court.

Secondo la consolidata giurisprudenza del Consiglio, “La ristrutturazione edilizia sussiste solo quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso, mentre – laddove esso sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria (allungamento delle falde del tetto, perdita degli originari abbaini, sopraelevazione della cassa scale, etc.) – l’intervento rientra nella nozione di nuova costruzione” (Cons. Stato, sez. VI, 13 gennaio 2021, n. 423).

Nel caso di specie, risulta del tutto ininfluente, ai fini della suddetta qualificazione, la circostanza, ampiamente valorizzata invece dal TAR per dimostrare che si sarebbe trattato di un intervento di demolizione e ricostruzione (di per sé, peraltro, non incompatibile con la nozione di ristrutturazione edilizia), che l’appellante avrebbe realizzato l’opera «…utilizzando la tecnica del “cuci e scuci”», in considerazione del dato, ritenuto dirimente dal Collegio, che in base agli atti depositati in giudizio, non può affermarsi che:

  1. l’immobile sia stato “totalmente trasformato”;
  2. che vi sia stato un “apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell’intero fabbricato)”;
  3. che il “disegno sagomale” presenta “connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria”.

Risulta non conforme ai principi di diritto sopra enunciati quanto affermato dal TAR.

In primo luogo, sul piano processuale, il TAR ha fondato l’assunto decisorio sulla perizia di parte delle ricorrenti, senza però adeguatamente motivare la ragione per la quale questa perizia fosse in grado, non tanto e non soltanto di superare, in attendibilità e rigore tecnico, quella parimenti versata in atti dalla controinteressata, ma e soprattutto l’accertamento tecnico-discrezionale compiuto dall’amministrazione comunale ai fini del rilascio del permesso di costruire (sui limiti del sindacato della discrezionalità tecnica, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25 ottobre 2022, n. 9078 e giurisprudenza ivi richiamata).

In secondo luogo, sul piano sostanziale, il TAR non considera che la ristrutturazione edilizia, per definizione, comporta la trasformazione del manufatto edilizio preesistente e l’intervento edilizio si considera non sussumibile in questa fattispecie soltanto allorché le modifiche si palesino “apprezzabili” sul versante del volume (che quindi entro certi limiti può aumentare), tali da comportare “connotati alquanto diversi” rispetto alla sagoma (che quindi entro certi limiti può mutare), idonee, in sintesi, a “trasformare totalmente”, cioè in maniera globale e radicale, l’edificio (che, quindi, di regola è destinato a cambiare per diventare un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”).

Quanto realizzato dall’appellante rimane, pertanto, sussumibile nella nozione giuridica di opera di “ristrutturazione edilizia”, essendo intervenuta, nei limiti del consentito (e compatibile con la nozione di r.e.), l’integrazione della struttura portante dell’edificio, con elementi antisismici.

Alla luce delle espresse considerazioni, il Consiglio ha accolto l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato il ricorso introduttivo del giudizio.

CS_858_2023