La Consulta dichiara incostituzionale il requisito di residenza nella disciplina ligure dell’edilizia residenziale pubblica di Fabio Cusano

Corte Cost 77 2023

 

Con la sentenza n. 77 del 20 aprile 2023, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera b), della L.R. Liguria 29 giugno 2004, n. 10, recante «Norme per l’assegnazione e la gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica», limitatamente alle parole «da almeno cinque anni»

Il Tribunale ordinario di Genova ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, lettera b), della L.R. Liguria n. 10 del 2004, per contrasto con l’art.  3 Cost. La disposizione censurata, come modificata dall’art. 4, comma 2, della L.R. Liguria n. 13 del 2017, stabilisce che «i requisiti del nucleo familiare per partecipare all’assegnazione degli alloggi di E.R.P. sono i seguenti: […] b) residenza o attività lavorativa da almeno cinque anni nel bacino di utenza a cui appartiene il Comune che emana il bando tenendo conto della decorrenza della stessa nell’ambito del territorio regionale».

Il rimettente ha ritenuto che tale disposizione, «nella parte in cui prevede il requisito di 5 anni di residenza nei Comuni del bacino interessato dal bando per l’accesso agli alloggi di edilizia economica popolare», violi l’art. 3 Cost. in quanto determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra italiani e stranieri.

Nel merito, la questione è fondata.

La norma in esame risulta del tutto simile a una disposizione legislativa della Regione Lombardia, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte con la sentenza n. 44 del 2020. La norma ivi censurata prevedeva, fra i requisiti che dovevano possedere gli aspiranti all’assegnazione di un alloggio ERP, la «residenza anagrafica o [lo] svolgimento di attività lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda». La citata pronuncia di illegittimità costituzionale ha investito la disposizione regionale della Lombardia «limitatamente alle parole “per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda”», trasformando così il requisito di residenza (o attività lavorativa) prolungata nella regione in requisito di residenza (o occupazione) tout court nella stessa regione.

Il motivo di illegittimità costituzionale è stato individuato nel contrasto del requisito della residenza (o occupazione) ultraquinquennale, come condizione di accesso all’ERP, «sia con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché produce una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non ne sia in possesso, sia con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., perché tale requisito contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica».

Sulla scia di numerosi precedenti, la Corte ha ribadito, in primo luogo, che «i criteri adottati dal legislatore per la selezione dei beneficiari dei servizi sociali devono presentare un collegamento con la funzione del servizio». Poiché la ratio del servizio di edilizia residenziale pubblica è il soddisfacimento del bisogno abitativo, la Corte ha constatato «che la condizione di previa residenza protratta dei suoi destinatari non presenta con esso alcuna ragionevole connessione». Il relativo requisito «si risolve così semplicemente in una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’ERP a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli)», ciò che «è incompatibile con il concetto stesso di servizio sociale».

In quel contesto la Corte ha confutato l’argomento speso dalla Regione, secondo cui il requisito della residenza protratta servirebbe a garantire un’adeguata stabilità nell’ambito della regione prima della concessione dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, cioè di un beneficio di carattere continuativo, osservando che «la rilevanza conferita a una condizione del passato, quale è la residenza nei cinque anni precedenti, non sarebbe comunque oggettivamente idonea a evitare il “rischio di instabilità” del beneficiario dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, obiettivo che dovrebbe invece essere perseguito avendo riguardo agli indici di probabilità di permanenza per il futuro».

La pronuncia prosegue ancora osservando che, «in ogni caso, […] lo stesso “radicamento” territoriale, quand’anche fosse adeguatamente valutato (non con riferimento alla previa residenza protratta), non potrebbe comunque assumere importanza tale da escludere qualsiasi rilievo del bisogno»: «è irragionevole che anche i soggetti più bisognosi siano esclusi a priori dall’assegnazione degli alloggi solo perché non offrirebbero sufficienti garanzie di stabilità». Cosicché «la prospettiva della stabilità può rientrare tra gli elementi da valutare in sede di formazione della graduatoria […] ma non può costituire una condizione di generalizzata esclusione dall’accesso al servizio, giacché ne risulterebbe negata in radice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica».

La stessa sentenza ha poi rilevato che il requisito «della residenza protratta integra una condizione che può precludere in concreto a un determinato soggetto l’accesso alle prestazioni pubbliche sia nella regione di attuale residenza sia in quella di provenienza (nella quale non è più residente)», con la conseguenza che le norme che introducono tale requisito vanno «vagliate con particolare attenzione, in quanto implicano il rischio di privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza». Infine, la sentenza n. 44 del 2020 ha argomentato anche l’assenza di una ragionevole connessione fra la condizione di previa occupazione protratta e la ratio dell’ERP.

Dopo la sentenza n. 44 del 2020, altre pronunce della Corte hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di norme che davano rilievo alla durata della residenza ai fini dell’accesso a benefici sociali (sentenze n. 199 del 2022 e n. 281 del 2020, in materia di incentivi all’occupazione; n. 9 del 2021, anch’essa in materia di edilizia residenziale pubblica; n. 7 del 2021, riguardante il fondo per il contrasto alla povertà). In particolare, nella sentenza n. 199 del 2022 questa Corte ha ribadito che, «se la residenza costituisce un requisito ragionevole al fine d’identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, non è invece possibile che l’accesso alle prestazioni pubbliche sia escluso per il solo fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza»; che «il radicamento nel territorio nel passato non è garanzia di futura stabile permanenza in un determinato ambito territoriale»; che, comunque, la prospettiva di stabilità non può «assumere un’importanza tale da escludere il rilievo dello stato di bisogno, potendo semmai risultare più appropriato ai fini della formazione di graduatorie e criteri preferenziali».

Con specifico riferimento all’edilizia residenziale pubblica, la Corte, nel dichiarare costituzionalmente illegittima una norma abruzzese che dava rilievo all’anzianità di residenza in Comuni della regione Abruzzo al fine della formazione delle graduatorie di assegnazione degli alloggi ERP, ha ribadito la «debolezza dell’indice della residenza protratta quale dimostrazione della prospettiva di stabilità» e «il carattere marginale del dato medesimo [del radicamento territoriale] in relazione alle finalità del servizio di cui si tratta», condividendo, in particolare, l’argomento del ricorrente secondo cui la normativa riguardante l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica è «finalizzata a soddisfare un bisogno della “persona in quanto tale che, per sua stessa natura, non tollera distinzioni basate su particolari tipologie di residenza”» (sentenza n. 9 del 2021).

La norma ligure in esame è sovrapponibile a quella oggetto della sentenza n. 44 del 2020, sia per il servizio sociale oggetto della limitazione, sia per la durata della residenza (o occupazione) richiesta come requisito di accesso, sia per il fatto di non distinguere tra italiani, cittadini dell’Unione europea e stranieri. In entrambi i casi, inoltre, la normativa regionale assegna alla residenza prolungata un doppio rilievo, come requisito di accesso e come elemento che concorre al punteggio per la formazione della graduatoria.

L’unica differenza riguarda l’ambito territoriale cui il requisito stesso è riferito: l’intero territorio regionale, nella legge lombarda; il «bacino di utenza a cui appartiene il Comune che emana il bando» nella norma ligure. Tale elemento distintivo non giustifica un esito diverso del presente giudizio rispetto al precedente. Esso anzi allarga la platea di coloro che sono esclusi dalla possibilità di fruire degli alloggi ERP, e sono dunque trattati in maniera ingiustificatamente differenziata, in quanto la norma ligure penalizza, per essere privi del requisito, anche soggetti già residenti in regione e non solo quelli provenienti da altre regioni o dall’estero.

Di fronte a norme che differenziano alcuni soggetti dagli altri ai fini dell’accesso a una prestazione sociale, gli argomenti relativi all’eguaglianza e quelli relativi alla ragionevolezza si sovrappongono e si intrecciano, costituendo la ragionevolezza, oltre che canone autonomo di legittimità della legge, anche – e prima ancora – criterio applicativo del principio di eguaglianza (sentenza n. 148 del 2017 e ordinanza n. 184 del 2018). Nella vicenda relativa alla legge lombarda, l’ordinanza di rimessione aveva invocato congiuntamente i principi di eguaglianza e ragionevolezza, e la sentenza n. 44 del 2020 conclude accertando il contrasto «con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché [la norma] produce una irragionevole disparità di trattamento a danno» dei cittadini e degli stranieri privi del requisito.

L’ordinanza del Tribunale di Genova, per parte sua, lamenta una discriminazione indiretta a danno degli stranieri e invoca poi, a sostegno, due decisioni di questa Corte che hanno affermato la necessità che i requisiti introdotti per l’accesso al welfare rispondano al principio di ragionevolezza (la seconda delle pronunce richiamate è proprio la sentenza n. 44 del 2020). Allo stesso modo del rimettente nel caso lombardo, dunque, anche il Tribunale di Genova ha censurato un’irragionevole disparità di trattamento, cioè il vizio accertato dalla sentenza n. 44 del 2020, e anche in questo caso, non diversamente che in quello, questa Corte non può esimersi dall’accertarne la sussistenza.

Le considerazioni svolte conducono a ritenere fondata la questione, per le stesse ragioni già fatte valere dalla sentenza n. 44 del 2020. Pertanto, la Consulta ha dichiarato l’art. 5, comma 1, lettera b), della L.R. Liguria n. 10 del 2004 costituzionalmente illegittimo, limitatamente alle parole «da almeno cinque anni», in quanto si pone in contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutti i soggetti, stranieri o italiani che siano, privi del requisito previsto dalla disposizione censurata.