La responsabilità della PA in caso di omessa demolizione, di Fabio Cusano

Con sentenza 7 novembre 2023, n. 9583, il Consiglio di Stato, sez. VI, ha ribadito che deve ritenersi illegittima la condotta omissiva dell’amministrazione che, in assenza di giustificati motivi, non dia seguito al procedimento di demolizione di un immobile abusivo, quantunque esecutivo e definitivo. L’elemento psicologico della colpa della P.A. va individuato nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ossia in negligenze, omissioni d’attività o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse protetto di colui che ha un contatto qualificato con la P.A. stessa.

Con sentenza non definitiva il TAR accoglieva in parte il ricorso accertando l’obbligo del Comune di stabilire in modo espresso entro trenta giorni il termine di conclusione del procedimento di cui all’ingiunzione di demolizione e messa in pristino, disponendo la prosecuzione del giudizio con il rito ordinario per la decisione sull’istanza risarcitoria. Con la sentenza definitiva il TAR rigettava la richiesta di risarcimento danni, ritenendo che le odierne appellanti non avessero fornito sufficienti elementi al fine di provare: 1) il nesso causale tra la condotta omissiva del Comune ed il pregiudizio subito e 2) la quantificazione del danno.

L’appello è fondato.

La giurisprudenza di questo Consiglio è costante nel ritenere che “L’esercizio della funzione pubblica, manifestatosi tanto con l’emanazione di atti illegittimi quanto con un’inerzia colpevole, può essere fonte di responsabilità aquiliana, sulla base del principio generale del neminem laedere (art. 2043 c.c.). Il rapporto amministrativo si caratterizza, infatti, per l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico, idoneo, se difforme dal paradigma legale ed in presenza degli altri elementi costitutivi dell’illecito, ad ingenerare la responsabilità extracontrattuale dell’amministrazione” (Cons. Stato, sez. VI, 22/11/2022, n. 10269; id., sez. IV, 12/11/2015, n. 5143: “La domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex art. 2043, può essere accolta dal giudice, solo se l’istante — su cui, ex art. 2697 c.c., incombe l’onere di provare gli elementi costitutivi della fattispecie illecita — dimostri, tra l’altro, che la mancata adozione del provvedimento dovuto, ha provocato nel suo patrimonio pregiudizi che non si sarebbero verificati ove l’atto fosse stato tempestivamente emanato”).

La risarcibilità del danno dipende dunque dall’esistenza di tutti gli elementi dell’illecito aquiliano, che possono ritenersi sussistenti nel caso di specie, nei seguenti termini.

Data in premessa la titolarità in capo agli appellanti di una situazione soggettiva meritevole di tutela, tale essendo il loro diritto di proprietà la cui lesione è derivata dagli abusi edilizi commessi dal vicino odierno controinteressato e per la cui tutela abbisognava dell’intervento della pubblica amministrazione (da qui una componente anche pretensiva), accertata l’inerzia e con essa l’illegittimità del comportamento omissivo del Comune alla luce della sentenza del TAR, sul piano causale, seguendo il canone di giudizio del “più probabile che non”, è verosimile ritenere che, se l’Amministrazione avesse agito legittimamente nei termini della legge le appellanti avrebbero ottenuto il “bene della vita” anche ai fini economici.

Il TAR ha tuttavia negato il risarcimento del danno patrimoniale ritenendo che non era stata fornita la prova del nesso causale tra la condotta omissiva del Comune ed il pregiudizio subito e non era stata dettagliata la quantificazione del danno.

La prospettiva non può essere condivisa.

L’illiceità della condotta dell’amministrazione può ritenersi accertata alla luce della sentenza non definitiva del TAR, che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza delle odierne appellanti. Più in generale, deve ritenersi illegittima la condotta omissiva dell’amministrazione che, in assenza di giustificati motivi, non dia seguito al procedimento di demolizione di un immobile abusivo, quantunque esecutivo e definitivo.

Tale condotta deve inoltre ritenersi colpevole alla luce della costante giurisprudenza di questo Consiglio, secondo la quale “l’elemento psicologico della colpa della P.A. va individuato nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ossia in negligenze, omissioni d’attività o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse protetto di colui che ha un contatto qualificato con la P.A. stessa” (Cons. Stato, sez. VI, 08/09/2020, n. 5409). Invero, l’inerzia del Comune non appare giustificabile alla luce dei canoni sopra elencati.

Il danno evento consiste, nel caso di specie, nell’impossibilità per le appellanti di godere dell’immobile di loro proprietà e, di conseguenza, nella lesione delle loro prerogative proprietarie.

Quanto al nesso causale, la giurisprudenza ha in più occasioni affermato che “Ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dell’Amministrazione e l’evento dannoso, si deve muovere dall’applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della conditio sine qua non). Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, comma 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto” (Cons. Stato, sez. VI, 19/01/2023, n. 674).

In particolare, trattandosi di causalità omissiva, “In tema di responsabilità civile (sia essa legata alle conseguenze dell’inadempimento di obbligazioni o di un fatto illecito aquiliano), la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva e il fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità (positiva o negativa) del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio contro fattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi a uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa -statistica delle frequenze di classi di eventi (c. d. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)” (Cassazione civile, sez. III, 14/03/2022, n. 8114).

Nel caso di specie è evidente che la condotta negligente del Comune costituisca una condicio sine qua non dell’evento dannoso, unitamente alla condotta dei responsabili dell’abuso. Invero, l’esecuzione dell’ordine di demolizione, con il conseguente ripristino dello stato (e della sicurezza) dei luoghi, avrebbe consentito la rimozione dei sigilli apposti sull’immobile delle ricorrenti e, di conseguenza, la possibilità per le stesse di tornare ad abitare nell’immobile de quo. Di contro, l’inerzia dell’amministrazione, unitamente al comportamento omissivo dei destinatari dell’ordine di demolizione, ha prodotto una situazione di stallo complessivo che ha impedito alle stesse di godere dell’immobile.

Passando, infine, al quantum risarcitorio, “il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità, andata perduta, di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto, mediante concessione a terzi dietro corrispettivo, restando, invece, non risarcibile il venir meno della mera facoltà di non uso, quale manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, suscettibile di reintegrazione attraverso la sola tutela reale” (Cassazione Civile, Sez. Unite, 15/11/2022, n. 33645).

Secondo la giurisprudenza civile, in tema di risarcimento del danno da impossibilità di godere di un bene immobile, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito (sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato), di cui, a fronte della specifica contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza. L’allegazione che l’attore faccia della concreta possibilità di godimento perduta può essere specificatamente contestata dal convenuto costituito. A fronte di tale allegazione, il convenuto ha l’onere di opporre che il proprietario non avrebbe esercitato il diritto di godimento. La contestazione al riguardo non può essere generica, ma deve essere specifica, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto dall’art. 115 c.p.c., comma 1. In presenza di una specifica contestazione sorge per l’attore l’onere della prova dello specifico godimento perso, onere che può naturalmente essere assolto anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115, comma 2, c.p.c.) o mediante presunzioni semplici. Nel caso della presunzione l’attore ha l’onere di allegare, e provare se specificatamente contestato, il fatto secondario da cui inferire il fatto costitutivo rappresentato dalla possibilità di godimento persa. Sia nel caso di godimento diretto, che in quello di godimento indiretto, il danno può essere valutato equitativamente ai sensi dell’art. 1226 c.c., attingendo al parametro del canone locativo di mercato quale valore economico del godimento nell’ambito di un contratto tipizzato dalla legge, come la locazione, che fa proprio del canone il valore del godimento della cosa (Cassazione civile, Sez. Unite, 15/11/2022, n. 33645).

Nel caso di specie le appellanti hanno allegato l’impossibilità di abitare nell’immobile a causa dello sgombero e dell’apposizione dei sigilli (sgombero determinato, si intende, dalla condotta abusiva del vicino), e tale circostanza non è mai stata specificamente contestata dal Comune, il quale, in primo grado, si è limitato a difendere la legittimità del proprio operato e a chiedere il respingimento della domanda risarcitoria in quanto infondata e generica, e in secondo grado ha aderito alle considerazioni del TAR secondo le quali non vi sarebbe prova del nesso causale fra condotta ed evento né del quantum risarcibile. In altre parole, il Comune non ha mai contestato l’affermazione secondo la quale, in assenza della propria condotta antigiuridica, legatasi a quella del controinteressato, le appellanti avrebbero abitato nell’immobile de quo, sicché tale circostanza deve ritenersi sufficientemente provata in quanto oggetto di puntuale allegazione da parte delle odierne appellanti e non contestata da controparte.

Sebbene il quantum invocato dalle appellanti non sia circostanziato da elementi di maggiore o specifico dettaglio, corrisponde ad un dato di comune (e ovvia) conoscenza il fatto che dalla fruibilità del bene le parti appellate avrebbero in tutti questi anni ricavato un vantaggio economico sicuramente apprezzabile, ovvero non avrebbero dovuto sostenere delle spese. Ciò detto sull’an della pretesa, in ordine al quantum del danno patrimoniale, sulla base di un equo apprezzamento delle circostanze del caso concreto (art. 2056 c.c.) l’importo è logicamente proporzionato alla durata dell’illecito e all’importanza del bene leso.

Il risarcimento dei danni derivanti dall’impossibilità di abitare nell’immobile, derivante dall’ordine di sgombero e dall’apposizione dei sigilli, può dunque essere liquidato in via equitativa.

In definitiva, l’appello è stato accolto.