“Basta essere uomini liberi per sentire come nel presente riviva troppa di quella ipocrisia che già in passato ha rovinato tutto, e generato umiliazioni, povertà e male morale. Anzitutto quella doppiezza per cui si predicano liberalizzazioni ma appunto riguardano sempre gli altri. […]”.
La prefazione di Geminello Alvi al “J’accuse” di Bernardo Caprotti – Patron di Esselunga – rappresenta un enfatico esempio di come i principi di liberalizzazione, cui il nostro ordinamento risulta essere sempre più informato sin dagli ultimi anni del secolo scorso, non sempre e non per tutti assurgono al rango di prescrittività: volendo e potendo argomentare in tal senso è sempre più evidente – a distanza di settanta anni da quando ciò venne affermato – come “tutti gli animali siano eguali ma taluni siano più eguali degli altri” .
L’obiettivo dell’elaborato, anzitutto, è stato quello di sviluppare una accurata analisi in merito al rapporto che intercorre fra la liberalizzazione delle attività economiche e la potestà di pianificazione urbanistica. La dialettica è stata affrontata attraverso un percorso critico e ricostruttivo che prende l’avvio dalla constatazione di un fenomeno in perenne evoluzione dei rapporti fra poteri pubblici e soggetti privati, sotto il profilo del modo in cui un provvedimento da parte dell’attore pubblico si sostanzi in una preclusione quantitativa ed economica dell’accesso al mercato, mortificando così la concorrenza.
Si sono prese le mosse dalla libertà di iniziativa economica privata di cui all’art. 41, comma 1 Cost., tentando di comprenderne la significanza alla luce – ieri – della possibilità per il pubblico di determinarne “programmi e controlli” per coordinarla ai fini sociali e – oggi – della necessità di non doverla esercitare in contrasto con l’”utilità sociale” od altri motivi imperativi di interesse generale. In tale ottica, sono stati analizzati i principi di massima informanti le dinamiche entro cui i diversi operatori economici operanti sul mercato si trovano a muoversi: il principio di libera concorrenza – come corollario alla libertà di iniziativa economica privata – quale valore non espresso ma insito all’art.41 Cost. e che soltanto con la riforma costituzionale 3/2001 ha guadagnato uno status costituzionale maggiormente definito. La disamina è proseguita in ottica sovranazionale, avendo avuto a riguardo non solo i principi fondanti di diritto primario dell’Unione Europea in materia di libertà di iniziativa economica, bensì la normativa secondaria di riferimento che – seppur con talune critiche ed evidenti limiti – ha condotto ad una rivoluzione copernicana attraverso l’allontanamento della manus publica dall’economia: la Direttiva 2006/123/CE.
Nell’ottica della “teoria delle idee” di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il principio in questione viene quindi analizzato in un triplice momento: inizialmente come “Concetto od Idea in sé” (dal greco titheim) – in quanto emergente nell’ordinamento nazionale – successivamente come “Concetto od Idea al di fuori di sé” (dal greco antì-titheim) – nella prospettiva che questi assurga anche a principio comune e fondante di un ordinamento sovranazionale e qui veda avvenire il proprio sviluppo – e da ultimo come “Concetto od Idea che ritorna in sé” (dal greco syn-titheim) – motivato dal fatto che esso ritorni all’ordinamento statuale e qui dispieghi i suoi effetti.
Il Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114 – recante norme inerenti la disciplina del commercio – aveva formalmente posto la pietra miliare della liberalizzazione delle attività economiche, anche se – come si è visto – l’innovazione del decreto in questione (con cui a tutt’oggi si fanno ancora i conti) è stata quella di aver previsto una programmazione a carattere regionale delle attività commerciali. Logicamente è apparso giusto interrogarsi se si fosse in presenza di una liberalizzazione ovvero di una potestà programmatoria e quindi dirigistica.
L’attuazione della Direttiva “Bolkestein” attraverso Decreto Legislativo 26 marzo 2010, n. 59 in primis e, successivamente, la decretazione di urgenza dei Governi tecnici hanno seguitato nel liberalizzare l’ordinamento italiano permettendo, in linea di massima, la libera apertura di nuovi esercizi commerciali di qualsivoglia dimensione senza contingentamenti alcuni.
A tal proposito risulta inevitabile interrogarsi sulla questione cardine dell’oggetto del presente elaborato: la libertà di apertura di esercizi commerciali senza alcun tipo di contingentamento si troverà, quindi, a dover far fronte al potere pianificatorio dell’Ente comunale che, almeno sino a qualche anno addietro, risentiva della massima discrezionalità nell’orientare l’insediamento anche e soprattutto di strutture commerciali di piccole, medie e grandi dimensioni.
Ci si è interrogati, quindi, sul modo in cui i due principi potessero coniugarsi ed è stato consequenziale chiedersi se l’attività economica dei privati nell’insediamento ed esercizio di una attività commerciale potesse avvenire del tutto indisturbatamente ovvero se residuasse un qualche tipo di interesse ed orientamento pianificatorio da parte del soggetto pubblico, ed eventualmente – in tale ultimo caso – in che modo questi potesse agire senza distorcere le dinamiche del mercato senza mortificare il principio di libera concorrenza.
Le contingenze economiche, capaci di far dimettere governi, hanno dimostrato molto spesso l’inattitudine degli stessi di dare risposte concrete alle esigenze della società. Alla luce della ritrazione dello Stato dall’economia – dovuta alla presa di coscienza che una regolamentazione pubblicistica non intrusiva e che non si sostanzi nella realizzazione di barriere discriminatorie di ingresso all’economia, favorisca una crescita economica dello Stato tutto – ha indotto i policy maker a predisporre quella cornice di misure amministrativistiche entro cui gli operatori economici si troveranno a muoversi.
Eponimo, in senso lato, di tale problematica è l’innesto del principio di liberalizzazione nella funzione di programmazione urbanistica regionale relativa alle strutture di vendita di medie e grandi dimensioni : la disciplina di attuazione della Direttiva Bolkestein e, successivamente, la decretazione di urgenza dei governi che si sono succeduti, non ha contribuito ad una abrogazione tout-court della disciplina in esame, motivo per cui, attualmente, il quadro di riferimento risulta incerto e stratificato.
Proprio tale quadro normativo poco chiaro ha favorito un atteggiamento ondivago da parte delle Regioni e conseguentemente si sono attualizzati quei rischi che la dottrina temeva sin dall’entrata in vigore del d. lgs n. 114/1998, ossia che: “le Regioni, nell’esercizio dei compiti ad esse conferiti, creino sul territorio nazionale ambiti di applicazione della normativa del commercio con differenziazioni marcate, che portano agevolmente a distorsioni della concorrenza […] ”.
Ciò che ci si auspica, quindi, è la predisposizione di un sistema normativo nazionale che rappresenti un quadro di riferimento di interventi mirati ed istruzioni operative (e non una mixitè di norme abrogatrici e di incerta applicazione) volti a garantire alle regioni la possibilità – nell’ambito delle proprie competenze – di attuare programmi che, seppur conformativi del mercato, siano rispettosi (ovvero il meno lesivi possibile) dei principi pro-concorrenziali, nazionali ed europei: risulta necessario partire dall’assunto che gli interventi regionali di programmazione, fisiologicamente limitativi dell’attività di impresa, siano indispensabili per evitare esternalità negative dovute alla sfrenata liberalizzazione e per tutelare interessi costituzionalmente rilevanti come la tutela della salute, il razionale governo del territorio, etc..
Le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’insediamento di medie e grandi strutture di vendita costituiscono fatalmente delle limitazioni al principio di liberalizzazione, il quale, secondo il Consiglio di Stato, sez. IV, 4 maggio 2017, n. 2026, “non può essere inteso in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali […]”.
In questa ottica spetta proprio all’Ente comunale attraverso il P.R.G. – in coerenza con la funzione di programmazione regionale – effettuare un contemperamento di interessi volti a derogare alle pure logiche dell’iniziativa economica, potendo incidere (anche) negativamente sulla concorrenza. Difatti solamente in questo modo si potrà concretizzare quel problematico “equilibrio tra questi due estremi, quello cioè del laissez-faire, laissez-passer dei fisiocratici e quello del mantenimento in capo ai pubblici poteri della regolazione e del controllo del territorio” .
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sezione), il 30 gennaio 2018 ha sentenziato che al ricorrere di motivi imperativi di interesse generale (disciplinati all’art. 15, par. 3 della Direttiva) è pienamente ammissibile che dei Piani Regolatori possano vietare una determinata attività economica in una specificata zona del Comune. Spetterà al giudice nazionale effettuare tale verifica.
In conclusione, all’interrogativo non è possibile non replicare con un pensiero vecchio di qualche decennio ma che risulta essere fragorosamente attuale.
“L’evoluzione del concetto di pianificazione urbanistica […] ha dunque portato a ciò che oggetto della pianificazione non viene più considerato soltanto l’assetto edilizio del territorio, né essa persegue più soltanto uno scopo di abbellimento architettonico o di sicurezza igienica, ma, […] scopo ultimo del piano regionale è il raggiungimento dell’equilibrio fra popolazione, economia e territorio […]; la pianificazione territoriale tende ad essere ormai, in realtà, una pianificazione dell’attività economica […]”.
Alla luce delle costanti e repentine evoluzioni di un mercato perennemente in divenire, si è portati a pensare che con esso debbano seguire lo stesso passo anche quei valori, quei principi e quelle norme a latere che ad esso si accompagnano e si integrano, ma che direttamente da esso non vengono modificati; alla luce di ciò, il principio eracliteo del “panta rehi”, ossia “tutto scorre”, non per forza significa che non sia possibile “afferrare la stessa acqua di un fiume per due volte”, ma che certe cose rimangono uguali soltanto cambiando costantemente.
Ed è proprio questo il motivo per cui, per spiegare in che rapporto la materia “governo del territorio” si trovi con l’economia ed il commercio, si è fatto riferimento ad una citazione che – volendo utilizzare un ossimoro – è anacronisticamente attuale.