Il Consiglio di Stato torna sulla manutenzione straordinaria e sul cambio di destinazione d’uso. Il punto sulla CILA di Fabio Cusano

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Con la sentenza n. 4110 del 24 aprile 2023, il Consiglio di Stato (sez. II) ha confermato che le modifiche di destinazione d’uso che possono conseguire agli interventi riconducibili al concetto di manutenzione straordinaria, anche dopo la novella del 2020 ad opera del D.L. 76/2020, sono solo quelle tra categorie urbanistiche omogenee, tale essendo l’inequivoco significato della dicitura “urbanisticamente rilevanti” e “non implicanti aumento del carico urbanistico” previsto dall’art. 3 del D.P.R. 380/2001, comma 1, lett. b).

Il Consiglio ha, altresì, ribadito che, anche se sulla conformità tecnico-giuridica della CILA – diversamente da quanto disposto per la SCIA – non è previsto un obbligo di controllo ordinario postumo entro un termine perentorio ravvicinato e, di conseguenza, un indice del legittimo avvio dell’attività oggetto della comunicazione, devono ritenersi applicabili alla CILA i principi consolidatisi con riferimento alla separazione tra autotutela decisoria e esecutiva in materia di SCIA o DIA. Di esse, infatti, la CILA condivide l’intima natura giuridica, sicché trovano applicazione i limiti di tempo e di motivazione declinati nell’art. 19 della L. 241/1990, commi 3, 4, 6-bis e 6-ter, in combinato disposto con il richiamo alle “condizioni” di cui all’art. 21-nonies della L. 241/1990 medesima.

Il Comune appella la sentenza con cui il TAR Veneto ha accolto il ricorso proposto dalla Società avverso l’ordinanza con la quale era stata dichiarata l’inefficacia della comunicazione inizio lavori asseverata (CILA), riferita al cambio di destinazione d’uso senza opere da commerciale ad artigianale di un vasto fabbricato di proprietà della stessa.

La controversia si riferisce all’individuazione dell’esatta accezione da attribuire al riferimento alle opere di manutenzione straordinaria come definite all’art. 3, lettera b, del testo unico per l’edilizia (D.P.R. 380 del 2001), in relazione al mutamento di destinazione d’uso senza opere, purché la nuova rientri tra le principali ammesse e comunque, non comporti la necessità di realizzare ulteriori aree a servizi, in quanto entrambi gli interventi sono autonomamente previsti. Va peraltro precisato che le destinazioni ammesse sono soltanto quelle artigianale/industriale e commerciale all’ingrosso, giusta la previsione in tal senso contenuta nelle NTA al PRG, cui fanno rinvio le NTA al PIP.

La Società, divenuta proprietaria del lotto, ha avviato da subito una serie di attività edilizie rientranti in tale regime derogatorio in quanto, comunque, riconducibili al paradigma della manutenzione straordinaria, per le quali si è avvalsa degli appositi procedimenti dichiarativi.

Il primo giudice, dopo aver rilevato che tutte le iniziative in precedenza intraprese, dettagliatamente enunciate, non avevano comportato alcuna iniziativa inibitoria, ovvero di diniego o rigetto da parte del Comune, ha escluso qualsivoglia legame tra le stesse e l’ultimo intervento e conseguentemente ogni intento elusivo della disciplina pianificatoria da parte della Società, che avrebbe semplicemente sfruttato il regime di maggior favore introdotto dall’art. 10 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. decreto “Semplificazioni”) con riferimento alla manutenzione straordinaria, implicante ora anche la modifica di destinazione d’uso, in passato vietata.

Pertanto, ha concluso per la legittimità della CILA in quanto «il mutamento d’uso che realizza un risultato equivalente a quello vietato sarebbe avvenuto quasi due anni dopo (con la CILA ex art.6 bis DPR 380/01 del 19.02.21), in un contesto normativo e regolatorio profondamente mutato per effetto del DL 76/20, convertito L. 120/20, che – quindi – non esisteva neppure nel 2019», quando erano state avviate le prime opere di manutenzione straordinaria.

Il Comune sostiene l’erroneità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001, nella versione modificata dal d.l. n. 76/2020. Si è costituita in giudizio la Società.

Ad avviso del Consiglio, nel merito l’appello è fondato.

Gli strumenti attuativi costituiscono lo snodo fondamentale per completare il processo di sviluppo del territorio, consentendo il raggiungimento di un risultato che la previsione generale (e spesso minimale) del Piano regolatore non sarebbe in grado di raggiungere. L’esigenza di una visione unitaria e complessiva della concretizzazione delle disposizioni programmatorie più elevate, evitando situazioni disorganiche e disorganizzate soprattutto in precisi ambiti settoriali, si realizza poi nel rapporto tra piano attuativo e successivo rilascio dei singoli titoli edificatori, dei quali il primo diviene conditio sine qua non, non solo nell’an, ma anche nel quomodo.

Il meccanismo, cioè, tipicamente multilivello che connota variamente la disciplina urbanistico-edilizia, implica una trasversalità verticale tra previsioni di massima, obiettivi di settore e strumenti concreti di attuazione: l’ottenimento di un titolo edificatorio relativo ad un fabbricato da realizzarsi all’interno di un Piano attuativo è possibile proprio perché sono stati definiti a priori e a monte tutti gli elementi caratterizzanti la futura urbanizzazione del territorio, nel quale le costruzioni private verranno ad inserirsi, definendo gli standard urbanistici e localizzando attrezzature, infrastrutture, reti, ecc., nonché disciplinando la fase esecutiva e i soggetti esecutori.

Il ricorso agli strumenti attuativi costituisce perciò un preciso modello di pianificazione degli interventi per renderne razionale la realizzazione su un’area non urbanizzata, ovvero il cui livello di urbanizzazione non sia ritenuto sufficiente ovvero ancora per il quale si reputi necessario un potenziamento e una riqualificazione delle dotazioni territoriali in vista della specifica direzione di sviluppo che si intenda imprimere loro, anche in funzione di esigenze di miglioramento della vivibilità, di tutela dell’ambiente, ovvero di leva allo sviluppo economico. Il Comune è in definitiva chiamato a valutare nelle sue scelte di buon governo del territorio se vi sia un sufficiente rapporto di proporzionalità fra le infrastrutture, lato sensu intese, e i bisogni degli abitanti insediati e di quelli che si prevede vi si insedino, proprio in ragione della scelta urbanistica effettuata, avuto riguardo anche alla tipologia degli insediamenti.

Il Consiglio ha già avuto modo di soffermarsi sulla genesi del Piano industriale, quale tipica species del più ampio genus dei Piani attuativi, costituente uno dei primi esempi codificati di compenetrazione tra assetto generale e disciplina di dettaglio (Cons. Stato, sez. II, 19 aprile 2022, n. 2953). Attraverso di essi, già previsti dall’art. 27 della l. 22 ottobre 1971, n. 865, i Comuni dotati di piano regolatore o di programma di fabbricazione, oltre ad imprimere un regime giuridico lato sensu “produttivo” ad una determinata zona, garantiscono l’accesso alle aree ivi comprese ad operatori economici che le devono utilizzare in funzione dello stesso.

Di regola la loro approvazione contempla anche quella dell’apposito schema di convenzione o atto d’obbligo che contiene gli impegni, da parte del soggetto promotore, alla realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione, o alla compartecipazione agli oneri funzionali alla stessa, le modalità, i termini entro i quali esse devono essere ultimate, le congrue garanzie finanziarie, nonché eventuali ulteriori obbligazioni specifiche che il Comune riterrà opportuno inserire in relazione alla particolarità e consistenza dell’intervento previsto.

La causa della convenzione urbanistica, ovvero l’interesse che l’operazione contrattuale è teleologicamente diretto a soddisfare, va valutata non con riferimento ai singoli impegni assunti, ma con riguardo alla oggettiva funzione economico-sociale del negozio, in cui devono trovare equilibrata soddisfazione sia gli interessi del privato che quelli della pubblica amministrazione al corretto assetto del territorio.

Ciò ha comportato finanche la riconosciuta legittimità, in assenza di una norma generale che lo vieti, della previsione di contribuzioni ulteriori e maggiorate, che il privato accetti di accollarsi, rispetto a quelle fissate dalla legge, integranti, come tali, la sola soglia minima imprescindibile (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2023, n. 2996).

La convenzione accessiva trova ormai idonea collocazione nell’art. 11 della l. n. 241 del 1990, che ha di fatto portato a sistema tutte le astratte possibilità di accordo cui la pubblica amministrazione può addivenire con i privati. Essa non costituisce un contratto di diritto privato, né ha specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, configurandosi piuttosto come atto intermedio del procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento finale, dal quale promanano poteri autoritativi della pubblica amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 579). In assenza di tale momento pattizio, pertanto, la fase endoprocedimentale finalizzata al rilascio del titolo, che andrà ad implementarsi del contenuto dello stesso, non può essere portata a compimento. Laddove, quindi, l’opera sia assentibile con un mero procedimento dichiarativo, egualmente lo stesso non potrà essere attivato, fermi restando i poteri inibitori e sanzionatori espressamente previsti dalla legge per impedirne la prosecuzione o rimuoverne gli effetti.

Il regime edificatorio declinato dal Comune in oggetto risponde perfettamente al delineato paradigma, essendo lo ius aedificandi condizionato alla preventiva stipula della convenzione, approvata in bozza quale allegato al Piano, sia per regolare i rapporti economici tra le parti, sia per “controllare” lo sviluppo dell’area in conformità con lo stesso.

L’affermazione del primo giudice, in forza della quale lo ius novum «a volte favorisce il privato, altre lo penalizza», vale sicuramente con riferimento alle sopravvenute modifiche del regime edilizio; ma non può impattare anche sul contenuto normativo sotteso alle scelte urbanistiche precedentemente approvate, pena la loro vanificazione.

Nel caso di specie, inoltre, la Società – e conseguentemente il primo giudice – ha operato addirittura una commistione tra tipologie di interventi distintamente previsti dalle N.T.A. (la manutenzione straordinaria, da un lato, e il cambio di destinazione d’uso senza opere, dall’altro), ritenendo che la prima consenta con regime dichiarativo ciò che la seconda assoggetta a permesso di costruire.

Va a tale proposito ricordato che la modifica di destinazione d’uso non costituisce una tipologia di intervento edilizio ex se, bensì piuttosto l’effetto dello stesso. Non a caso la relativa dizione non figura nell’elenco delle definizioni contenuto nell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma compare nelle singole declinazioni delle stesse, ora quale limite negativo (come per la manutenzione straordinaria, appunto), ora, al contrario, come possibile esemplificazione contenutistica (come per il restauro e risanamento conservativo di cui alla successiva lettera c), che può determinare un cambio delle destinazioni d’uso, purché compatibile con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso che i relativi interventi devono comunque rispettare). Secondo l’attuale paradigma della manutenzione straordinaria, pertanto, tale limite negativo non opera più in assoluto, salvo i casi di frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere, ma esclusivamente per quelle modifiche che siano «urbanisticamente rilevanti» e «implicanti incremento del carico urbanistico».

L’equivoco di fondo nel quale è incorso il primo giudice, assecondando la ricostruzione della Società, consiste nell’introdurre una duplice chiave di lettura tra modifica di destinazione d’uso “all’interno”, per così dire, della manutenzione straordinaria e modifica di destinazione d’uso ex se, per la quale al contrario soltanto continuerebbero a valere ridette categorie. La ricostruzione, cioè, conferisce dignità di autonomo intervento alla modifica di destinazione d’uso quand’anche funzionale o senza opere, sussumendola sotto l’egida della manutenzione straordinaria, laddove in passato tale evenienza era rimessa all’eventuale legge regionale chiamata a declinare «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività» (art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001).

A ben guardare, tuttavia, le modifiche di destinazione d’uso che possono conseguire agli interventi riconducibili al concetto di manutenzione straordinaria, pure dopo la novella del 2020, sono solo quelle tra categorie urbanistiche omogenee, tale essendo l’inequivoco significato della dicitura «urbanisticamente rilevanti» e «non implicanti aumento del carico urbanistico» previsto dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2011, anche nella sua attuale formulazione.

Esso va invero individuato avuto riguardo alle previsioni dell’art. 23 ter inserito nel T.u.ed. con il c.d. decreto legge “Sblocca Italia” (d.l. 12 settembre 2014, n. 133), che le ha introdotte al preciso scopo di omogeneizzare le scelte di governo del territorio, evitando frammentazioni finanche terminologiche sicuramente contrarie ai più elementari principi di certezza del diritto e foriere di oneri aggiuntivi per i cittadini-utenti. La disposizione pertanto che riduce a cinque le categorie previste (tra le quali, per quanto di interesse, menziona separatamente la produttiva e direzionale, da un lato, e la commerciale, dall’altro) individua, almeno in termini astratti e generali, raggruppamenti connotati da valutata similarità di carico urbanistico, tanto da qualificare “rilevante”, appunto, il mutamento della destinazione d’uso dall’una all’altra, seppure non accompagnato dall’esecuzione di opere edilizie (c.d. mutamento “funzionale”, appunto).

La compatibilità dell’insediamento in determinate zone di categorie urbanisticamente eterogenee attiene al regime pianificatorio locale che può dettagliare le indicazioni nazionali, declinandole in ulteriori specificità, ma non mutarle radicalmente (né ha inteso farlo nel caso di specie, tant’è che le parti convengono sul fatto che, ove non si parli di manutenzione straordinaria, la modifica di destinazione d’uso sarebbe stata parificabile ad una nuova costruzione, necessitante di permesso di costruire).

Anche sotto tale profilo la rilevata contrarietà con l’art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 sussiste e correttamente è stata richiamata nel provvedimento impugnato in termini di inadeguatezza della CILA a legittimare l’intervento.

Inoltre, il Consiglio ha ricordato che la CILA con il d.lgs. n. 222/2016 è divenuta il titolo general-residuale, necessario per tutti gli interventi edilizi per i quali le norme del testo unico non impongono la SCIA o il permesso di costruire ovvero che non rientrano ai sensi dell’art. 6 nell’attività edilizia libera. Con tale scelta si è radicalmente cambiata l’opzione normativa di cui al previgente comma 4 del richiamato art. 6 che, al contrario, lasciava aperta la categoria della SCIA e tipizzava in maniera specifica gli interventi sottoposti a CILA. A ciò è conseguito che sono ricondotte alla CILA opere quantitativamente rilevanti, quali – come è dato evincere da una lettura a contrario dell’art. 22 – gli interventi di manutenzione straordinaria leggera, appunto, ovvero quelli che, pur comportando cambi di destinazione d’uso urbanisticamente non rilevanti, non riguardano parti strutturali dell’edificio e non incidono sui prospetti.

Trattasi tuttavia di uno strumento di semplificazione che non trova un corrispondente nella legge generale sull’azione amministrativa (ma solo in altre normative di settore, come quella sulle attività commerciali) e che si traduce in una ancor più intensa responsabilizzazione del privato, chiamato ad assumersi in prima persona il rischio di avviare un’attività in contrasto con le complesse e talvolta contorte normative di settore, per di più solo in parte confortato dall’asseverazione del tecnico abilitato (che peraltro, secondo il tenore letterale della norma, non deve fare riferimento agli strumenti urbanistici adottati, né a tutte le normative di cui il comma 1 dell’art. 6 bis impone comunque specificamente il rispetto).

Diversamente da quanto disposto per la SCIA, sulla conformità tecnico-giuridica della CILA non è previsto un obbligo di controllo ordinario postumo entro un termine perentorio ravvicinato e, di conseguenza, un indice del legittimo avvio dell’attività oggetto della comunicazione, limitandosi la norma a introdurre una sanzione pecuniaria “secca”, pari a mille euro, ridotta di due terzi se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando l’intervento è in corso di esecuzione, per il caso di omessa presentazione della stessa, senza in alcun modo disciplinare l’ipotesi in cui la stessa si profili contra legem.

In mancanza di apposite disposizioni, l’indebito utilizzo dello strumento dichiarativo de quo è stato in passato e autorevolmente ricondotto alle ipotesi di attività edilizia radicalmente sine titulo, senza passare per il tramite della declaratoria di inefficacia, legittimando l’applicazione delle corrispondenti sanzioni. La Commissione speciale chiamata ad esprimersi sul testo provvisorio del d.lgs. n. 222/2016 (parere n. 1784/2016) infatti ha al riguardo affermato che «In tali casi l’amministrazione non può che disporre degli ordinari poteri repressivi e sanzionatori dell’abuso, come peraltro implicitamente previsto dalla stessa disposizione, laddove fa salve “le prescrizioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia […]”».

La differenza di regime tra la previsione di un potere meramente sanzionatorio (in caso di CILA) e quella di un potere repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di controllo postumo in ‘autotutela’ rispetto alla SCIA si spiegherebbe, secondo il parere, «alla stregua dei principi di proporzionalità e di adeguatezza, tenuto conto che nella materia edilizia il legislatore ha costruito un sistema speciale, in cui il controllo dei poteri pubblici è meno invasivo qualora le attività private non determinino un significativo impatto sul territorio, secondo un modello che potrebbe essere chiamato di ‘semplificazione progressiva”», il quale implica che «l’attività assoggettata a CILA non solo è libera, come nei casi di SCIA, ma, a differenza di quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma deve essere ‘soltanto’ conosciuta dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio».

Tuttavia deve rilevarsi che proprio la mancata previsione di sistematicità dei controlli rischia di tradursi in un sostanziale pregiudizio per il privato, che non vedrebbe mai stabilizzarsi la legittimità del proprio progetto, di talché la presentazione della CILA, considerata anche la modesta entità della sanzione per la sua omissione, avrebbe in sostanza l’unico effetto di attirare l’attenzione dell’amministrazione sull’intervento, esponendolo ad libitum, in caso di errore sul contesto tecnico-normativo di riferimento, alle più gravi sanzioni per l’attività totalmente abusiva, che l’ordinamento correttamente esclude quando l’amministrazione abbia omesso di esercitare i dovuti controlli ordinari di legittimità sulla SCIA o sull’istanza di permesso.

Per tale ragione è da preferire la ricostruzione operata dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 23 aprile 2021, n. 3275), che ha inteso mutuare in subiecta materia i principi via via consolidatisi con riferimento alla separazione tra autotutela decisoria e esecutiva in materia di s.c.i.a. o d.i.a., in particolare dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 45 del 2019. Di esse, infatti, la CILA «condivide l’intima natura giuridica», sicché trovano applicazione i limiti di tempo e di motivazione declinati nell’art. 19, commi 3, 4, 6 bis e 6 ter della l. n. 241 del 1990, in combinato disposto con il richiamo alle «condizioni» di cui all’art. 21 novies della medesima normativa.

Anche sotto tali profili l’atto impugnato si presenta esente da censure, in quanto i passaggi procedurali intercorsi, se anche evidenziano sul piano formale comprensibili incertezze di inquadramento dogmatico, attestano su quello sostanziale la tempestività della reazione del Comune all’attività abusiva della Società, tale da escludere qualsiasi necessità di tutela dell’affidamento della stessa.

Il richiamo, pertanto, anche alla norma fondante il potere sanzionatorio ben si giustifica nell’ottica della illiceità originaria dell’intervento effettuato, ovvero, in chiave più garantista, consegue alla illiceità comunque sopravvenuta all’esercizio dei poteri inibitori che il Comune ha attivato nei termini di legge (al riguardo, v. Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2023, n. 2371).

Alla luce delle motivazioni suesposte, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, il ricorso di primo grado.