Il recepimento della nuova normativa comunitaria sulle acque (2000/60)

di 29 Ottobre 2003 Incontri

Il recepimento della Direttiva comunitaria sulle acque (2000/60): profili

 istituzionali di un nuovo governo delle acque

Relazione di Paolo Urbani tenuta al Convegno IEFE-Gruppo 183 su “L’attuazione della Direttiva Comunitaria sulle acque (2000/60): – Università Bocconi, Milano 17 ottobre 2003.

 

Il contesto legislativo

L’analisi degli aspetti istituzionali in tema di risorse idriche non può che evocare il concetto di “governo delle acque” sotto il profilo dei suoi usi, della loro difesa dagli inquinamenti, della difesa dalle acque. Si tratta di discipline assai risalenti contenute nella legislazione dei primi del novecento poi riunita nel TU del 1933, via via integrata in rapporto alle varie esigenze – piano generale degli acquedotti (1962), piani di risanamento delle acque (l.319/76) – per arrivare alla l.183/89 e 36/94 che allargano lo sguardo alla programmazione generale degli usi, alla salvaguardia delle aspettative delle generazioni future, al risparmio ed al rinnovo della risorsa ai fini della sostenibilità ambientale. Oggi la politica e la disciplina delle acque non sono più considerate parte a sé, viste come un tempo nella logica del privilegio degli usi produttivi della risorsa ma fanno parte integrante della politica dell’ambiente secondo gli indirizzi delle politiche comunitarie. Cosicché pur essendo la nostra legislazione nazionale specie quella più recente – si allude soprattutto alla l.183 e alla l.36 – ancorata ad una visione di ampio respiro sulla base di principi fondanti assai moderni e condivisibili, l’ordinamento comunitario ne arricchisce i contenuti introducendo il principio di precauzione, quello dell’azione preventiva, della correzione, del recupero dei costi dei servizi idrici compresi quelli ambientali e delle risorse, del principio chi inquina paga. Ma come sappiamo la politica comunitaria, attraverso la Direttiva 2000/60 ed i numerosi atti ad essi collegati[1], compie un salto di qualità assai rilevante guardando alle acque in modo unitario e circolare – il ciclo integrato dell’acqua – sia di quelle superficiali sia di quelle sotterranee nonché di quelle marine, al fine di assicurarne un uso sostenibile, equilibrato ed equo basato sull’intervento pubblico nell’economia idrodipendente[2]. Siamo di fronte cioè ad un diritto europeo dell’acqua[3] che impone regole generali agli ordinamenti interni, ai poteri pubblici ai produttori ed ai consumatori. Vista in quest’ottica, il bene pubblico acqua e la sua disciplina incidono trasversalmente sulle molteplici discipline delle attività umane (dal governo del territorio, allo sviluppo produttivo, all’agricoltura) fungendo da catalizzatore delle politiche connesse con quelle discipline, così da divenire sempre più un’invariante del sistema economico e sociale.

 

L’inattuazione delle scelte legislative.

 

Se si pone mente a queste riflessioni che considerano l’acqua come risorsa finita e come l’incipit dello sviluppo[4] il governo delle acque implica il coinvolgimento di una pluralità di attori dal centro alla periferia, pubblici e privati, così come le funzioni pubbliche riguardano i profili della conoscenza prima, della programmazione poi, della direzione o indirizzo, della pianificazione, della gestione e del controllo. Sono in realtà profili istituzionali ampiamente consolidati dalla legislazione dell’89 e del ‘94 ribaditi in ogni convegno, ma in gran parte inattuati. Oggi la Direttiva 2000/60 ci trova quindi impreparati poiché l’ordinamento comunitario impone – come sappiamo – una visione prospettica omnicomprensiva del tema acqua, mentre ancor oggi nel nostro sistema, dal punto di vista dell’organizzazione pubblica, vi è non solo una frammentazione dei soggetti e delle competenze nell’ambito di funzioni mal distribuite ma vi è anche una separatezza, sancita dalla l.36/94, tra usi delle acque per il consumo umano – per intendersi il servizio idrico integrato di cui all’art.4 lett.f) l.36/94 – e gli altri usi plurimi delle acque destinate ad usi produttivi (irrigui, industriali etc.) (artt.27-30). A tale proposito si possono citare ad es. a livello d’apice la separazione di funzioni tra gli aspetti della tutela e programmazione delle acque di competenza del ministero dell’ambiente e la realizzazione delle reti idriche di competenza del ministero infrastrutture, oppure l’incerta collocazione e le funzioni dei servizi tecnici nazionali oggi riunificati nell’APAT (con l’obliterazione del servizio geologico nazionale) o ancora l’assenza di poteri autoritativi del Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche (art.21 l.36/94), così come l’inattuazione – ai sensi dell’art.89 del D.legsl.112/98 – della cosiddetta “gestione del demanio idrico” che riguarda il profilo del rilascio delle concessioni di derivazione d’acqua pubblica, la ricerca, estrazione e utilizzazione delle acque sotterranee nonché la determinazione dei canoni e relativi proventi – funzioni di cui finora le Regioni non si sono avvalse e che richiederebbero invece una riconsiderazione complessiva degli usi plurimi delle acque –; gli unici interventi regionali in questo campo si sono ridotti al mero decentramento del rilascio dei provvedimenti concessori a livello provinciale.

 

Ma le inattuazioni del dettato legislativo possono rintracciarsi anche solo scorrendo l’art.4 della l.36/94 che prevede la riserva all’amminstrazione centrale delle seguenti funzioni: Censimento e monitoraggio delle risorse idriche (di cui parla anche la Direttiva 2000/60) Criteri sulla redazione dei bilanci idrici e disciplina dell’economia idrica Metodi e regole per determinare il minmo deflusso vitale Direttive sulla gestione del demanio idrico Linee di programmazione degli usi plurimi delle acque Revisione e l’aggiornamento del piano generale degli acquedotti. Nonostante il DPCM 4 marzo 1996 “Disposizioni in materia di risorse idriche” disponga in merito al contenuto di questi complessi adempimenti tecnico­amministrivi, a parere di molti addetti ai lavori, la loro concreta attuazione é rimasta quasi competamente inattuata; disposizioni, in qualche caso assai carenti sotto il profilo tecnico, che integrano quelle assai risalenti che furono emanate dopo la L.319/76 da parte del Comitato interministeriale per la tutela delle acque dall’inquinamento del 4 febbraio 1977. Ma non mancano altri provvedimenti che dimostrano una particolare sensibilità del legislatore nazionale, ma un’assoluta attuazione amministrativa, sul tema della salvaguardia delle acque dall’inquinamento: ci si riferisce al d. legisl.152/99 che – cosa assai rara nel panorama degli adeguamenti del nostro ordinamento ai dettati comunitari – costituisce per alcuni aspetti già un’anticipazione della Direttiva 2000/60, intervenendo sul problema della garanzia del minimo deflusso vitale, sulla connessa revisione delle concessioni di derivazione senza indennizzo, sulla previsione dei piani di tutela etc.

 

Lascia invece perlessi il pdl di delega ambientale di imminente approvazione che non sembra cogliere le novità della Direttiva 2000/60 – che richiede impegni a breve – e che prevede tra l’altro, in materia di pianificazione di bacino una ridefinizione della disciplina sostanziale e procedurale dell’attività di pianificazione; di una semplificazione del procedimento di adozione e approvazione degli strumenti di pianificazione con garanzia della partecipazione dei soggetti istituzionali coinvolti e della certezza dei tempi del procedimento; del superamento delle sovrapposizioni dei piani. Tematiche certamente importanti, alcune delle quali sono peraltro già state ampiamente disciplinate dalla legislazione vigente – ci si riferisce ad es. al coordinamento dei piani di settore con i piani provinciali (art.57 d.legsl.112/98) o a quelli della partecipazione dei soggetti istituzionali – vedi la conferenza programmatoria prevista dalla L.365/2000[5]– mentre occorrerebbe occuparsi dei criteri per l’individuazione dei distretti idrografici, del concetto e dei contenuti dei nuovi piani di gestione, dei poteri delle nuove Autorità di distretto: tutti profili questi previsti dalla Direttiva comunitaria e che richiedono una prima vincolante attuazione già entro il dicembre 2003.

 

Titolo V e distribuzione dei poteri.

 

Il quadro costituzionale del nostro ordinamento interno è stato poi modificato dal nuovo Titolo V cost. che è intervenuto nel ridefinire le competenze legislative di stato e regioni: l’acqua sembra essere riassorbita, coerentemente con l’impostazione comunitaria nella tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art.117 lett.s) Cost.) mantenendosi la competenza legislativa esclusiva dello stato: in realtà come accade per altre materie non esplicitamente citate dal testo costituzionale occorre procedere ad una scomposizione dei contenuti delle submaterie per verificare quanto delle funzioni fondamentali attinenti alle acque sia appannaggio centrale o regionalizzato anche considerando che molte funzioni amministrative sono già state attribuite alle regioni e agli enti locali dal D.legsl.112/98[6]: ma non sembra questo il punto poiché la Direttiva 2000/60 ci richiama fortemente al modello che deve presiedere al settore indipendentemente dalla separazione delle competenze. Ecco perché in questo quadro il governo delle acque – qui intese come bene primario e risorsa limitata – comporta un intenso rapporto di leale collaborazione tra Stato, Autorità di bacino, regioni, enti locali, consumatori e produttori.

 

Autorità di distretto e piani di gestione.

 

La Direttiva 2000/60 pone numerosi problemi tra i quali la dimensione spaziale e temporale della pianificazione del distretto – il cosidetto piano di gestione – e l’autorità di governo del distretto. E’ solo una questione di dimensione? O non è invece un problema di contenuti e di poteri diversi? L’autorità che ha in mente la Direttiva è un soggetto dotato di poteri oltre quelli di conoscenza tecnico-scientifica al servizio dei soggetti competenti in materia di usi del territorio; di competenze oltre che programmatorie con poteri effettivi di salvaguardia e vigilanza. Tutto il contrario delle Autorità di bacino, disegnate come autorità deboli serventi specie nell’ultimo d.legsl.152/99 le scelte “politiche” regionali[7]. In secondo luogo il piano di gestione è piano economico oltre che piano territoriale poiché volge il suo sguardo essenzialmente alla risorsa idrica ed al suo utilizzo compatibile, ed anche di questo occorre determinarne l’efficacia e la prevalenza sulle pianificazioni sottostanti e sulle attività degli altri poteri pubblici e dei privati. Su quest’ultimo aspetto occorre intendersi: il centro delle politiche dell’acqua sta certamente nella programmazione e nella pianificazione. Ma la pianificazione, specie nel nostro paese, l’abbiamo intesa come strumento di pianificazione territoriale più per assonanza con la pianificazone urbanistica che per autonoma consapevolezza sistematica. Orbene, al di là delle scelte di tutela acque che trova nel piano territoriale un ineludibile apporto, non si possono sempre considerare tutti gli altri aspetti degli usi della risorsa come propri di questo solo strumento e delle procedure previste dallal.183/89. In altre parole, ci troviamo di fronte all’eccessiva enfatizzazione dello strumento di pianificazione a fronte di altre modalità dell’esercizio dei pubblici poteri – specie da parte delle Autorità di bacino, organi misti e future Autorità di distretto – che spesso richiedono da un lato immediatezza ma dall’altro maggiore flessibilità e concertazione. Quanto al primo aspetto alludo all’esercizio dell’apposizione di misure di salvaguardia emergenziali, alle ordinanze, ai decreti segretariali, alle direttive e agli indirizzi: provvedimenti che rientrano nell’ampio menù dell’agire delle pubbliche amministrazioni, senza dover ricorrere al piano territoriale che in molti casi appare di lunga gestazione, impacciato e inadeguato alle esigenze della disciplina della materia idrica, i cui contenuti attengono sempre più a profili dinamici che non statici come nel caso degli assetti urbanistico­ territoriali: ne consegue che anche gli strumenti di disciplina devono rispondere alle stesse finalità (immediatezza, imperatività o flessibilità in rapporto alle fattispecie disciplinate) Quanto al secondo, la rimodulazione degli usi plurimi delle acque comporta una fase di concertazione­consultazione e condivisione tra tutti gli attori pubblici e specie privati già utilizzatori della risorsa idrica, i cui esiti finali possono anche essere ricompresi in un programma ma le cui modalità di elaborazione ed approvazione non hanno nulla a che fare con il procedimento del piano di bacino. La pianificazione di bacino ha finora toccato aspetti relativi alla difesa idorgeologica del suolo – la difesa dalle acque – ottenendo un qualche successo nell’imposizione di vincoli a salvaguardia dell’incolumità delle popolazioni e dei territori, anche se è accettata con fastidio, ma oggi si deve misurare proprio con la risorsa in sé e la sua utilizzazione: la revisione delle concessioni idriche. In questi ultimi due anni, peraltro, il processo ben avviato della pianificazione di bacino ha subito un arresto che esprime tutta la debolezza del governo delle acque man mano che si passa dalla tuela della difesa del suolo alla riconsiderazione ed al bilanciamento degli usi, poiché si sono adottati piani stralcio – ad es. i PAI (piano di assetto idrogeologico) – evitando accuratamente di applicare, contestualmente alle sue disposizioni, le misure di salvaguardia, rendendo così inutili le prescrizioni in essi contenute, mentre il procedimento dello loro approvazione in molti casi è ancora di li a divenire.

 

Concessioni di derivazione e bilancio idrico.

 

E veniamo al regime delle concessioni di derivazioni d’acqua pubblica. Se elementi fondamentali divengono la costruzione del bilancio idrico e l’analisi dell’economia idrica[8] questi non possono che essere considerati punti di riferimento essenziali per la revisione del concessioni in rapporto alla compatibilità tra gli usi plurimi delle acque. Ora il problema è che da una concezione tutta quantitativa degli usi delle acque concessi si deve passare ad un uso anche qualitativo dell’uso esclusivo che tenga conto anche della garanzia degli scarichi: altrimenti continueremo ad avere catasti separati delle derivazioni d’acqua e degli scarichi. Per anni abbiamo assistito all’intoccabilità delle concessioni idriche, alle difficoltà di procedere alla loro revisione, solo oggi intaccata dal D.legsl.152/99 che ne prevede la revisione per garantire il minimo deflusso vitale, ma la revisione deve avere un raggio più ampio: deve cioè estendersi alla compatibilità degli usi del bacino. Anche perché – e qui sta il salto qualitativo della direttiva – l’uso delle acque non può prescindere dall’analisi sullo stato del corpo idrico che non è un problema di stato qualitativo ma di stato “ecologico”, nel senso di prevedere cioè se l’utilizzazione intesa in senso lato può mantenere nel tempo le funzioni ecologiche primarie. Questioni che oggi sono solo pallidamente affrontate quando ci s’imbatte nel procedimento di rilascio di nuove concessioni idriche, nelle quali il parere vincolante dell’Autorità di bacino diviene il parametro per la verifica delle compatibilità delle richieste con gli aspetti ambientali e territoriali del contesto superficiale e sotterraneo del bacino di riferimento. La revisione delle concessioni[9] non può certo essere episodica ma deve avere carattere sistematico e generalizzato sia per evitare contenziosi nei confronti di diritti acquisiti connessi con specifici impegni convenzionali, sia per riconsiderare complessivamente gli equilibri tra gli usi. Si tratta di profili giuridici ed economici di enorme importanza che comportano la ridefinizione dei contenuti dei rapporti convenzionali, della formulazione di nuovi schemi di convenzioni tipo così come previsto per il servizio idrico integrato, i tempi, le condizioni, i canoni: tutte questioni che non pare siano state ancora affrontate. Ma la politica comunitaria anche qui agisce a trecentosessanta gradi poiché introduce una nozione di “servizio idrico” da intendere in senso esaustivo, comprendente qualsiasi attività di messa a disposizione di risorse idriche, interne, e marine, per determinati usi. Quindi non più, come prevede l’ordinamento della l.36, il servizio idrico astretto al sistema acquedottistico per usi civili, ma il complesso delle attività che dall’acqua dipendono, (usi irrigui, zootecnici, piscicultura, usi industriali, pozzi domestici, reti drenanti, invasi e condotte funzionali alla produzione enegetica, impianti di dissalazione, impianti di vario uso, acque superficiali e sistemi di ravvenamento delle falde). Al concetto di servizio si affianca quello di tariffa che non esaurisce il costo complessivo dell’uso idrico, dovendosi contemplare, dal punto di vista economico, il recupero dei costi di distribuzione, collettamento e depurazione ma soprattutto il sacrificio di altri usi che, per la limitatezza delle risorse, vengono sacrificati perché impraticabili. L’intreccio tra direttive centrali per la gestione del demanio idrico, la redazione del bilancio idrico e l’analisi economica dell’utilizzo idrico, connessa con i poteri impositivi delle regioni è quindi così complesso che, visti i tempi consumati nel nostro paese per mettere a punto le procedure per l’avvio del servizio idrico integrato, si rischia di rinviare questi ulteriori impegni comunitari oltre i limiti consentiti dalla Direttiva 2000/60.

Paolo Urbani 


NOTE

[1] La Direttiva scandisce numerosi adempimenti, correzioni, ed integrazioni da parte degli stati interni fino al 2024.
[2] F.Lettera, (bozze di stampa) 2003
[3] Sulla disponibilità della risorsa acqua intesa come diritto o come bene economico nel dibattito istituzionale internazionale, S.Sandriin questa Rivista 2003. La stessa Direttiva 2000/60 tende a ricondurre l’acqua tra i beni di mercato
[4] Basterà citare due casi: il primo, in alcuni piani regolatori generali è previsto che l’edificabilità è condizionata all’effettivo approvigionamento d’acqua degli insediamenti residenziali; il secondo che prevede il divieto di colture idroesigenti in particolari aree: vedi il Piano stralcio di bacino del Lago Trasimeno adottato dall’Autorità di bacino del Tevere e approvato con DPCM nel 2002.
[5] Su la cui natura giuridica vedi P.Urbani, in questa Rivista 2/2003.
[6] Se si volesse procedere ad un esercizio di analisi delle funzioni si potrebbe dire che a) la tutela della qualità delle acque rientra nella competenza esclusiva dello stato; se ne potrebbe delegare la potestà regolamentare alle regioni; (art.117); b) l’uso produttivo delle acque dovrebbe rientrare nella competenza esclusiva delle regioni; c) la difesa del suolo potrebbe rientrare nella competenza esclusiva dello stato (organicamente connessa alla tutela dell’ambiente) o ritenere che sia oggetto di competenza concorrente (afferente al governo del territorio) Per quanto riguarda l’uso potabile saremo in regime di legislazione concorrente (piano degli acquedotti). Ma tale ripartizione funzionale andrebbe oggi riconsiderata nell’ambito dei problemi più generali posti dalle politiche comunitarie in materia.
[7] Sia consentito rinviare sul punto a P.Urbani, Modelli organizzatori e pianificazione di bacino nella legge di difesa del suolo, in Rivista Giur. edl., 1993 ora anche in Scritti in onore di Alberto Predieri, Milano, 1996; IDEM, Le autorità di bacino di rilievo nazionale: pianificazione, regolazione e controllo nella difesa del suolo, in Riv. Giur. edil., 1995.
[8] P.Urbani, Bilancio idrico, concessioni di derivazione di acqua pubblica e ruolo delle autorità di bacino, in questa Rivista, 199711
[9] Perdipiù, lo strumento della concessione amministrativa, anche in questo settore, non sembra più giustificabile nell’ambito della disciplina dell’ordinamento comunitario, poiché sempre più in contrasto con il principio di concorrenza e di pari opportunità degli operatori; Autorità Garante della concorrenza e del mercato, M.D’Alberti, Concessioni e concorrenza, Temi e problemi n.8, 1998.