Il Mutamento di destinazione d’uso degli immobili – una questione irrisolta.

di 8 Gennaio 2002 Edilizia

Cenni introduttivi
L’annoso problema del “mutamento di destinazione d’uso degli immobili” ancora una volta viene dal nostro legislatore accuratamente “by-passato” o, mi si perdoni l’espressione “scaricato sulle regioni”.

Si è tentato con la Legge 23 dicembre 1996, n. 662, modificativa dell’art. 25, comma ultimo, della Legge 27 febbraio 1985, n. 47, di dare un nuovo indirizzo all’originario testo del comma ultimo, dell’art. 25, della Legge 27 febbraio 1985, n. 47.
Infatti, l’art. 2, comma 60, della Legge 23 dicembre 1996, n. 662, sancisce che .
Rispetto alla formulazione precedente si nota subito che nella attuale disposizione normativa del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, c.d, la situazione rimane sostanzialmente inalterata con la sola differenza che il richiamo non è fatto al diverso regime concessorio o autorizzatorio, ma al nuovo regime del “permesso di costruire” o della “denuncia di inizio attività (D.I.A.)”.
In ogni caso l’intera materia della disciplina della “destinazione d’uso” è rimessa alle indicazioni che dovranno dare le regioni non essendo più richiamati ad attività di sorta i comuni per cui non vi è più il passaggio all’ulteriore recepimento da parte degli enti locali della norma regionale da emanarsi.
Quali saranno gli “usi” o le “variazioni d’uso” sottoposte a “denuncia di inizio attività (D.I.A.)” e quali a “permesso di costruire” sarà la legge regionale a dirlo che siano o meno accompagnate da opere.
Ancora una volta occorrerà quindi attendere che le regioni si attivino e non vi è alcuna indicazione o norma transitoria che indirizzi gli operatori in attesa delle norme regionali. Pur essendo però scomparso dal testo legislativo il riferimento ai comuni ciò non di meno non sembra che ad essi sia del tutto sottratta una certa capacità di intervenire sul tema. La pianificazione urbanistica comunale resta pur sempre tra le prerogative dell’ente comunale, il quale, a giudizio di chi scrive, pur nel rispetto delle norme regionali, avrà sempre la facoltà di individuare le “destinazioni di zona” e, per ciascuna zona, le “destinazioni d’uso consentite” e quelle che ritiene di “dover vietare perchè incompatibili o pericolose” o perchè intende “privilegiare in certe zone alcuni usi scoraggiandone altri”. Di certo la regione altro non potrà che fornire delle linee guida, sicchè malgrado la nuova formulazione dell’art. 25, comma ultimo, della Legge 28 febbraio 1985, n. 47, il problema è rimasto sostanzialmente identico a quello previgente non solo alla modifica dell’art. 25, comma ultimo, ma alla stessa Legge 28 febbraio 1985, n. 47.
Il problema è a Voi tutti noto e mi permetto di richiamarlo alla Vostra attenzione perché nella mia esperienza professionale ho avuto modo di verificare quanto esso sia sentito dai proprietari di immobili per le loro esigenze anche mutevoli “di disporre liberamente dei propri beni adibendoli agli usi più disparati” e quanto invece “sia loro avverso l’orientamento delle pubbliche amministrazioni comunali” che sfocia “in provvedimenti repressivi” e spesso anche “l’orientamento dei magistrati in sede penale che non di rado li sanzionano”.



Il mutamento di destinazione d’uso senza opere – Aspetti sanzionatori –

La Legge 28 febbraio 1985, n. 47, attribuisce al giudice penale tra le altre funzioni anche quella di ordinare la demolizione delle opere abusive quando siano effettuate in totale difformità o in assenza della concessione edilizia o quando esse proseguono malgrado l’ordine di sospensione.
Ovviamente, per quanto ci riguarda, l’abuso può coinvolgere con le opere anche il “mutamento della destinazione d’uso originariamente prevista principalmente per l’ipotesi di lavori effettuati in totale difformità dalla concessione edilizia”.
L’ordine di demolizione, quindi, ove non emesso dall’autorità amministrativa, ma emesso dal giudice penale ha natura giurisdizionale e, come tale, posto in esecuzione dal pubblico ministero (P.M.) a norma degli artt. 655 e s.s. c.p.p., e, 666 e s.s. c.p.p.
La Corte di cassazione a Sezioni Unite ha infatti ritenuto (Cass. Sez. Unite., 19 giugno 1996, n. 15, in Riv. pen. ec., 1996, nota di Angelillis, Ventura; e in Riv. giur. ed., 1997) che l’ordine di demolizione emesso dal giudice penale è correlato all’esercizio della potestà giurisdizionale e, compreso nella sentenza passata in giudicato, è assoggettato all’esecuzione al pari delle altre statuizioni della sentenza.
Il problema vero si è posto allorquando si è osservato che rapportando l’art. 7 della L. 28 febbraio 1985, n. 47, ora art. 31, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” agli artt. 444 e 445 c.p.p. ove si chieda il patteggiamento della pena, non potrebbe essere applicato l’ordine di demolizione perchè l’art. 445 c.p.p. esclude l’applicazione di pene accessorie quale è appunto ritenuto l’ordine di demolizione.
La Cassazione penale però, con numerose sentenze (Cass. pen., Sez. II, 16 novembre 1995, n. 3123, in Giust. Pen., 1996, e in Riv. Trim. dir. pen. economia., 1996; Cass. pen., Sez. III, 11 febbraio 1994, n. 2279) ha ritenuto, invece, che l’ordine di demolizione debba essere obbligatoriamente inserito nella sentenza di patteggiamento e ciò perchè esso è sanzione formalmente giurisdizionale, ma sostanzialmente amministrativa di tipo ablatorio che il giudice deve disporre non trattandosi di pena accessoria, a nulla rilevando che l’ordine medesimo non abbia formato oggetto di accordo in quanto esso è atto dovuto, non suscettibile di valutazione discrezionale, sottratto alla disponibilità delle parti e del quale l’imputato deve tenere conto nell’operare la scelta del patteggiamento della pena.
Sostanzialmente, quindi, malgrado il “nomen juris”, l’ordine di demolizione ha natura di sanzione amministrativa e come tale non di pena.
Orbene, nell’analisi della fattispecie che ci riguarda, si è accennato alle “sanzioni legate ai mutamenti d’uso degli immobili urbanisticamente rilevanti attuati senza la preventiva autorizzazione edilizia o concessione edilizia” e sommariamente si è evidenziato come a volte “non sia neppure semplice qualificare come reato il mutare l’uso di un immobile”.
Particolarmente, “non sempre è possibile o agevole ritenere non consentito il nuovo uso quando non sia accompagnato da opere rilevanti, essendo, detto mutamento, rilevante ai fini urbanistici e penali solo quando esso comporti una variazione nella dotazione di standards urbanistici”.
Eziologicamente, quindi, la verifica degli standards urbanistici dovrebbe preludere alla contestazione del reato.
Si comprende che ciò non è sempre agevole perchè nel tessuto urbano molte sono le componenti che concorrono a determinare la dotazione di standard urbanistici e molti sono i fatti che sconvolgono tali dotazioni spesso non addebitabili all’autore del mutamento d’uso. Si sa che i nostri centri abitati, specie quelli storici, non rispettano certamente le norme e le dotazioni di standards urbanistici che l’urbanistica moderna richiede per le nuove edificazioni e si è detto che la gran parte di tali vecchi immobili sono stati edificati prima della entrata in vigore delle vigenti normative “senza specificazione delle destinazioni d’uso”. Ciò detto, la norma fondamentale cui fare riferimento per sanzionare gli abusi in tale materia è la L. 28 febbraio 1985, n. 47, ora art. 44, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”.
Questa prevede l’ammenda fino a £.20.000.000. milioni per l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalla stessa legge nonchè dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire. Secondo alcuni giudici penali tale disposizione normativa è applicabile anche ai “mutamenti di destinazione d’uso senza opere c.d. funzionale” allorquando, appunto, essi non siano consentiti dai regolamenti edilizi dagli strumenti urbanistici e nel titolo concessorio sia stato dichiarato l’uso cui l’immobile era destinato. Occorre però, ad avviso di chi scrive, richiamare l’attenzione sulla circostanza che tale orientamento non è univoco.
Infatti altra parte della giurisprudenza non ritiene sanzionabile il mutamento d’uso senza opere ove non sia intervenuta la legge regionale a disciplinare la materia o manchi un’apposita disciplina comunale degli usi degli immobili.
A tutto concedere, non può però non rilevarsi che l’uso diverso, sanzionabile, deve necessariamente rientrare tra quelli “incompatibili” dal punto di vista “urbanistico ed edilizio”. La trasformazione ad esempio di un sottotetto da destinazione non abitativo a destinazione abitativa costituisce mutamento della destinazione d’uso dell’immobile legittimante l’emissione di un provvedimento di sequestro preventivo (Cass. pen., Sez. III, 25 novembre 1996, n. 4021, in Cass. Pen., 1998). Deve cioè, comportare variazione della categoria edilizia e variazione in difetto degli standards urbanistici. Orbene secondo parte della giurisprudenza anche tale evenienza, per essere sanzionata, dovrebbe essere considerata dalla legge regionale come una variazione essenziale al progetto approvato (Cass. pen., 3 marzo 1987 – 9 marzo 1988, in Giust. Pen., 1988). Quando poi il mutamento attiene ad immobili sottoposti a vincolo dalle L. 1 giugno 1939, n. 1089 e L. 29 giugno 1939, n. 1497, recepite dal D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’art. 1, della Legge 8 ottobre 1997, n. 352, secondo alcuni autori il mutamento comporterebbe la sanzione di cui all’art. 20 lett. b), ora art. 44, lett. b), del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, perchè viene considerato in totale difformità dal titolo concessorio.
Orbene tra le diverse tesi sembra preferibile quella che muove i passi da un concetto fondamentale, sulla scorta di orientamenti della Cassazione penale. Questa (Cass. pen., Sez. III, 12 gennaio 1989, in Riv. giur. ed., 1991 e Cass. pen., Sez. IV, 14 gennaio – 1 ottobre 1992) ha rilevato che non è possibile concepire il “mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante senza la esecuzione di opere edili perchè l’art. 8 della L. 28 febbraio 1985, n. 47, inserito nell’art. 32, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia” presuppone l’esistenza di un progetto approvato e demanda alle regioni di determinare quali debbano intendersi, come essenziali, le variazioni al progetto, sicchè in mancanza di tali determinazioni non è possibile definire il mutamento d’uso come una variazione essenziale al progetto che dovrebbe essere predeterminata in modo perentorio.
D’altro canto la nuova formulazione dell’art. 25, comma ultimo, della L. 28 febbraio 1985, n. 47, introdotta, nel D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, sembra ribadire tale concetto.
Evidenziata “la difficoltà penale di configurare come reato il mutamento d’uso senza opere”, va rilevato che “non meno difficoltosa è la sanzione amministrativa del mutamento”. Sostanzialmente le ragioni delle difficoltà sono le stesse mancando i criteri che le regioni devono dettare perchè sia qualificato come “variazione essenziale”, rispetto al progetto approvato, l’adibire l’immobile ad un uso diverso dal precedente. Secondo alcuni andrebbe emanata la sanzione prevista dall’art. 10 della L. 28 febbraio 1985, n. 47, introdotto nell’art. 37, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ritenendo il mutamento eseguito senza apposita autorizzazione edilizia, oggi “denuncia di inizio attività” ex art. 22, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ma altra parte della dottrina rileva che anche in tal caso la norma è riferita pur sempre alla realizzazione di opere che invece nel caso specifico mancano. Altro poi è il problema se il nuovo uso dato all’immobile possa avere quei requisiti “igienico-sanitari di abitabilità o agibilità” che la legge richiede. Certamente le regioni dovrebbero farsi carico del problema che non è da sottovalutare essendo i cittadini esposti a sanzioni penali anche rilevanti convinti invece di agire in perfetta legalità a seconda dell’orientamento dottrinario o giurisprudenziale che viene loro rappresentato al momento della trasformazione d’uso degli immobili.
Poichè allo stato delle cose ancora le regioni omettono di affrontare lo spinoso problema, altro non può tentarsi di risolverlo interpretando l’art. 8 della L. 28 febbraio 1985, n. 47, inserito nell’art. 32, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ossia la definizione di “variazione essenziale”.
Questa ricorre in linea di principio esclusivamente quando il mutamento della destinazione d’uso implichi la variazione degli standards urbanistici previsti dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444. In tal caso la sanzione non potrà essere che quella di cui agli artt. 7 e 8 della L. 28 febbraio 1985, n. 47, introdotti rispettivamente negli artt. 31 e 32, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ossia la ingiunzione ed in caso di inottemperanza l’acquisizione gratuita del bene al patrimonio della pubblica amministrazione comunale.
Appare evidente che detta sanzione è spropositata rispetto all’abuso perchè punita allo stesso modo di chi “costruisce abusivamente” mentre nel caso di specie il bene è stato assentito regolarmente ma viene solo adibito ad una utilizzazione diversa.
Molti studiosi, ritenendo iniqua la norma si erano adoperati per una sua modifica diretta principalmente ad ottenere la sanzione connessa con il maggior valore acquisito dal bene a seguito del mutato uso. Lo stesso Senato della Repubblica in sede di approvazione del D.L. 23 aprile 1985, n. 146 aveva modificato la disciplina sanzionatoria prevista dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, rapportando i mutamenti d’uso alla disciplina prevista dall’art. 12 della stessa legge, introdotto nell’art. 34, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ma la Camera dei deputati ha poi soppresso la modifica per cui la disciplina sanzionatoria è poi rimasta immutata. Svanita la modifica sperata ha ripreso vigore la interpretazione della sentenza della Cassazione penale (Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 1982, in Riv. giur. ed., 1982, e in Cass. pen., 1982) che aveva posto linee guida di interpretazione dei “mutamenti d’uso rispetto al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 e alle varie categorie edilizie” distinguendo tra quelle “trasformazioni funzionali che non davano luogo a fabbisogno di standard urbanistico dalle altre”. Dalla lettura della sentenza emergono punti di riferimento e di discernimento importanti.
Pregevole, certamente, è la parte in cui si chiarisce che sono sottratti a regime concessorio quei mutamenti di destinazione d’uso attuati senza opere su costruzioni legittimamente eseguite prima che venisse imposto l’obbligo della "licenza" con la Legge 6 agosto 1967, n. 765. Infatti, motiva la Suprema Corte, in mancanza della specificazione di una destinazione d’uso attribuita dagli organi amministrativi della pubblica amministrazione comunale deve logicamente ritenersi che l’immobile stesso sia a destinazione libera. Una tale interpretazione che, come abbiamo più volte accennato, è condivisa da buona parte della dottrina e della giurisprudenza contrasta però in definitiva con le attese delle pubbliche amministrazioni comunali che vorrebbero aver maggior controllo e con la “ratio” stessa della norma che è diretta alla disciplina delle attività umane in genere e delle trasformazioni edilizie. Il problema si pone particolarmente per i centri storici non solo di tutte le città quanto più sentitamente delle città d’arte, quali ad esempio, Venezia, Firenze, Assisi, Roma, e così via, nelle quali si vorrebbero evitare attività contrastanti con il loro “humus” culturale storico ed artistico.
Un tale orientamento vanifica le aspettative degli amministratori locali anche in mancanza di norme regionali specifiche. In certo qualmodo sembra soccorrere a tali problematiche la Corte Costituzionale che con sentenza n. 73 (Corte Cost. 11 febbraio 1991, n. 73, in Riv. giur. ed., 1991) ha ritenuto comunque possibile il controllo da parte delle pubbliche amministrazioni comunali dei “mutamenti di destinazione d’uso senza opere” purchè il loro divieto sia suffragato da un apprezzamento di insieme del territorio che dia conto della situazione di incompatibilità che la nuova destinazione assumerebbe con il tessuto urbano. Tale valutazione, aggiunge la sentenza, può essere fatta anche in sede di pianificazione urbanistica ancorando le “destinazioni d’uso vietate e quelle ammesse alle diverse situazioni ambientali del territorio comunale anche con parametri predeterminati”. Il conseguente regime sanzionatorio, per i mutamenti non autorizzati, avrebbe dovuto essere comunque disciplinato dalla legge regionale alla quale spettava il compito di dettare solo i criteri generali di disciplina. Alcune regioni, in effetti, quasi anticipando la interpretazione della Suprema Corte, si erano già spinte a sanzionare con proprie norme i mutamenti non autorizzati. La regione Piemonte, ad esempio, prevede una sanzione da £ 500.000 mila a £ 1.000.000.000.
In definitiva, quindi, secondo la interpretazione e l’indirizzo della Corte costituzionale, le regioni devono limitarsi a creare le norme di indirizzo per l’esercizio da parte della pubblica amministrazione comunale del potere di regolamentazione, ponendo l’accento sulla circostanza che le “trasformazioni d’uso c.d. funzionali” debbono essere assoggettate solo ad un regime autorizzatorio (ora denuncia di inizio attività D.I.A.) mentre quelle che danno luogo a variazioni essenziali comportanti variazioni degli standards urbanistici abbisognano di concessione edilizia (ora permesso di costruire).
Ritengo, che il “mutamento della destinazione d’uso senza opere c.d. funzionale” o “con opere di adattamento” vada inquadrato facendo riferimento alle “categorie edilizie” introdotte dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444.
In altri termini ogni qualvolta, indipendentemente dalla esecuzione di opere che faranno capo al regime loro proprio, si passa da una “categoria edilizia ad un’altra”, va verificata la “compatibilità dell’uso ed eventualmente la dotazione di standards urbanistici”.
Sicchè, pur “senza opere”, trasformare l’uso di un immobile abitativo ad esempio, in ristorante, comporta “cambio di categoria edilizia non compatibile con l’uso precedente” e potrebbe dar luogo “a verifica degli standards urbanistici” ossia ad esempio della “dotazione di parcheggio”.
E’ intuitivo che diversa cosa sarebbe “adibire lo stesso immobile abitativo a studio professionale”.
In questo caso “non vi sarebbe mutamento della categoria edilizia e l’uso è compatibile con quello abitativo”.
Abbiamo, quindi, “una prima linea guida” che pur nel silenzio della nuova norma – D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ci fa ritenere che nel “primo caso”, quello del “ristorante” occorra “munirsi della concessione edilizia o permesso di costruire” nella sua nuova dizione, mentre, “nel secondo caso” ben può parlarsi di “mutamento libero” stante “la compatibilità, il mantenimento della categoria edilizia e l’assenza di opere”.


E’ chiaro che nel caso di eventuali opere occorrerà che queste siano assentite.



Nel D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, a ben vedere, tali differenze si colgono, pur non senza difficoltà.
Infatti, l’art. 22, sottopone a semplice “denuncia di inizio attività (D.I.A.)” le “varianti ai permessi di costruire che non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia”, sicchè occorre ritenere che ove “muti la categoria edilizia occorra il permesso di costruire” e, va da se, che la modificazione dell’uso sia solo quella che “comporti sbilanciamento negli urbanistici, D.M. 2 aprile 1968, n. 1444”.
La giurisprudenza amministrativa, ormai costante, ha sempre sostenuto che (Cons. St., Sez. V, 14 ottobre 1992, n. 1005, in , 1992; Cons. St., Sez. V 2 febbraio 1995, n. 180, in , 1995; , 1995; e in , 1995; T.A.R. Lombardia, Sez. Milano, 14 maggio 1996, n. 664; TA.R. Lombardia, Sez. Brescia, 4 settembre 2001, n. 767; T.A.R. Lombardia, Sez. Brescia, 4 settembre 2001, n. 768)
Tale linea guida non risolve, però, il problema perché occorre considerare che la gran parte del “patrimonio edilizio” è sorto ben prima del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, e quindi ben prima della Legge 28 gennaio 1977, n. 10, e della Legge 28 febbraio 1985, n. 47, e addirittura ben prima della legge urbanistica fondamentale, Legge 17 agosto 1942, n. 1150.
Neppure il , D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, all’art. 44, relativo agli aspetti sanzionatori introduce elementi di novità o di spunto facendo riferimento alla difformità dal “permesso di costruire” e ben si sa che la gran parte del patrimonio edilizio è sorto “senza indicazione della destinazione d’uso degli immobili”.
Oltretutto, nella legislazione precedente al 1942 gli stessi piani urbanistici non avevano effettivi poteri conformativi della proprietà essendo indirizzati maggiormente a disciplinare l’ampliamento dell’aggregato urbano e condizioni minimali di convivenza civile.
Tali immobili venivano al più “accatastati con l’indicazione dell’uso” al quale si intendeva adibirli e per quei “locali terranei” che sono poi divenuti prevalentemente ad “uso commerciale” spesso, per un risparmio di imposta, si attribuiva la “semplice destinazione di magazzino o deposito” intendendosi per tale il locale di conservazione o immagazzinamento della merce.
Inutile dire che “l’accatastamento non è preso in alcuna considerazione ai fini del mutamento” e copiosa giurisprudenza amministrativa ha ritenuto “non applicabile le norme sopravvenute in siffatta materia agli immobili edificati prima della emanazione delle norme predette” perché ovviamente la “legge dispone per il futuro e non è retroattiva !!!”.
La Corte di Cassazione a Sezione Unite con sentenza del 29 maggio 1982, in , ha ritenuto che sono sottratti a regime concessorio quei mutamenti di destinazione d’uso attuati senza opere su costruzioni legittimamente eseguite prima che venisse imposto l’obbligo della “licenza edilizia” con la Legge 6 agosto 1967, n. 765.
Infatti, motiva la Suprema Corte, in mancanza della specificazione di una destinazione d’uso attribuita dagli organi amministrativi della pubblica amministrazione comunale deve logicamente ritenersi che l’immobile stesso sia a destinazione libera, e il Consiglio di Stato Sez. IV, con sentenza del 1 ottobre 1993, n. 818, in , 1993, I, 1182, ha stabilito che .
Il vero problema è, quindi, quello “di ricondurre questa parte del patrimonio edilizio in una disciplina normativa” che ritengo “effettivamente manchi”.
Particolarmente per i “locali terranei”, infatti, “gli usi sono i più disparati”.
Si pensi ai “bassi napoletani” ossia ad abitazioni in locali che oltre ad essere del tutto inadeguati all’uso “sarebbero dovuti essere destinati a depositi, o in genere ad attività commerciali o di piccolo artigianato”.
Nessuna norma “può vietare” a costoro “l’uso al quale hanno adibito l’immobile perché tutte le norme sono successive ed inapplicabili”.
Allo stesso modo e con le stesse conseguenze si pensi a “quei locali commerciali che siamo soliti vedere nei centri storici delle nostre città, di pochi metri quadrati, che originariamente erano piccoli ripostigli dell’abitazione e che oggi sono adibiti ad attività commerciali”. L’elenco sarebbe lungo!!!
Non credo che l’intervento del “legislatore regionale” possa modificare una simile situazione di fatto perché, ovviamente, anche questa norma sarebbe “successiva” e “non retroattiva”.
In altri termini non può negarsi che vi siano “due regimi” uno “precedente” al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, ed uno “successivo”.
La disparità del trattamento è evidente perché nel primo caso gli immobili vengono adibiti “liberamente all’uso prescelto”, mentre nell’altro i proprietari devono “assoggettarsi alle regole del diritto”.
Ricondurre, quindi, nello stesso ambito normativo tutti gli immobili è “questione di giustizia sostanziale”.
Personalmente credo che una scelta che il “legislatore” possa fare in simile situazione sia quella di richiamarsi “all’uso impresso all’immobile all’atto dell’accatastamento”.

La zonizzazione e le categorie edilizie

Le categorie edilizie sono quelle definite dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, e attengono alla zona di piano regolatore generale (P.R.G.).
Questo, è noto, divide il proprio territorio nelle seguenti zone omogenee: la zona "A" o "centro storico" è quella parte di territorio comunale interessato da agglomerato urbano di vecchia data che perciò riveste particolare carattere storico-artistico o di pregio ambientale-paesaggistico; la zona "B" o "zona di completamento" che è quella parte del territorio diversa dalla zona "A" anche edificata o parzialmente edificata; la zona "C" o "zona di espansione" destinata a nuovi complessi insediativi o parti di territorio comunale inedificate ove il tessuto urbanistico preesistente non raggiunge lo stesso limite di cui alla zona "B"; la zona "D" sono quelle parti di territorio comunale ove si prevede lo sviluppo industriale che è la parte del territorio destinata agli impianti produttivi; la zona "E" o "agricola" che è il territorio adibito ai soli usi agricoli e, per ultimo, la zona "F" o "zone di pubblico interesse" che è quella parte di territorio comunale destinata ad ospitare le attrezzature e gli impianti di interesse generale.
Ciò detto, la normativa in vigore non fornisce oltre alle categorie edilizie principali della residenza, dell’industria, del commercio e delle attività terziarie altre indicazioni ai fini della “c.d. zonizzazione funzionale” sicchè la pianificazione funzionale del territorio comunale diretta cioè a disciplinare le possibili destinazioni d’uso si è sempre fatta individuando piuttosto che gli usi consentiti per singola zona, gli usi vietati.
Ne è così derivato la “inesistenza di un limite ai possibili usi” ammettendo per determinate zone quali la "A, B e C" una generale promiscuità di usi comunque rientranti nella previsione generale di quella speciale zone omogenee limitandosi a vietare solo quegli usi previsti nelle speciali zone "D ed E" ossia al divieto di esercitare attività industriale e agricole, nelle zone "A, B e C".
Di tal fatta la “zonizzazione funzionale” si è ridotta alla semplice verifica e differenziazione tra “usi compatibili e usi incompatibili per ciascuna zona”. Seguendo tale logica, quindi, al fine di individuare gli “usi incompatibili” bisogna riferirsi a quelli possibili nelle sole “c.d. zone speciali” quali ad esempio zona "E agricola".
Questa, infatti, oltre la tipica funzione di area coltivabile e quindi "vincolata all’agricoltura" ha indiscutibile valore ambientale.
In tali zone l’edificazione consentita è precipuamente solo quella destinata all’uso agricolo sicchè le strutture da edificare devono essere in funzione della destinazione agricola. Ciò non di meno attività e funzioni compatibili con la originaria destinazione degli immobili in zona agricola sono possibili sicchè anche in detta zona per detti immobili possono verificarsi mutamenti di destinazione d’uso. L’uso agricolo, poi, di tale territorio comunale non è del tutto esclusivo potendo, determinate attività umane, essere necessariamente allocate in zone non edificate e, quindi, necessariamente agricole; si pensi ad esempio alle attività che comportano manipolazione di esplosivi quali il confezionamento di petardi o a industrie particolarmente insalubri o pericolose. Le zone "D industriali", sono anch’esse considerate speciali e quindi per così dire monofunzionali in esse pertanto altro non potrebbe che svolgersi l’attività industriale. Pur tuttavia anche per tali zone sono ammessi usi diversi.
L’uso residenziale, ad esempio, è ammesso, sia pure limitatamente, ai fini di servizio dell’attività produttiva. Siffatto modo di operare, ossia per esclusione delle attività vietate, è però, a giudizio di chi scrive, fuorviante e, per certo verso, elusivo della norma.
Il “mutamento di destinazione d’uso”, si è detto, ancorchè “senza opere”, può liberamente avvenire quando “non muti la categoria edilizia”.
La dizione e la stessa ripartizione riportate nel D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, è però estremamente vaga.

Rapporto tra categorie edilizie e catastali

Le quattro categorie edilizie individuate in: residenziale, commerciale, industriale e terziario non danno il senso degli usi o dei possibili usi degli immobili e di cosa significhi la compatibilità dell’uso con altro uso e quando rilevi una pretesa incompatibilità.
Meglio sarebbe, a giudizio di chi scrive, rapportarsi alle “categorie catastali” le quali, come si vedrà, finiscono per coincidere con quelle edilizie ma meglio spiegano cosa significhi per un immobile ricadere in una categoria edilizia piuttosto che in un’altra e quali siano in particolare le destinazioni degli immobili.
Le categorie catastali meglio evidenziano la incompatibilità tra destinazioni ben rapportandosi alle categorie edilizie. Sia l’una che l’altra consistono nella individuazione delle unità immobiliari simili per caratteristiche intrinseche che determinano la destinazione ordinaria e permanente di ciascuna unità immobiliare. Tali caratteristiche ai fini catastali sono essenzialmente riunite in tre grandi suddivisioni o raggruppamenti.
Nel primo, rientrano gli immobili a che a loro volta si suddividono in tre altri gruppi ossia gruppo: in cui rientrano: abitazioni di tipo signorile, abitazioni di tipo economico, abitazioni di tipo popolare, abitazioni di tipo ultrapopolare, abitazione in villini, abitazioni in ville, castelli, palazzi di eminenti pregi artistici o storici, uffici o studi privati, abitazioni ed allogi tipici dei luoghi o (rifugi di montagna, trulli, sassi, baite, e così via); gruppo in cui rientrano: collegi, convitti e conventi, educandati, ricoveri, orfanotrofi, ospizi, seminari, caserme, case di cura e ospedali, prigioni e riformatori, uffici pubblici, scuole, laboratori scientifici, biblioteche, pinacoteche, musei gallerie, accademie, cappelle ed oratori non destinati all’esercizio pubblico dei culti, magazzini sotterranei per depositi di derrate; gruppo “ comprendente gli immobili destinati alle ordinarie attività commerciali quali: negozi e botteghe, magazzini e locali di deposito, laboratori per arti e mestieri, fabbricati e locali per esercizi sportivi, stabilimenti balneari e di acque curative, stalle, scuderie, rimesse, autorimesse, tettoie chiuse od aperte.
Nel secondo raggruppamento rientrano gli immobili a ossia ricompresi nel gruppo destinati ad attività industriale o commerciale non suscettibili di altra destinazione se non con particolari opere di trasformazione edilizia, essi sono: opifici, alberghi e pensioni, teatri, cinematografi, sale per concerti e spettacoli , case di cura ed ospedali, istituti di credito, cambio ed assicurazione, fabbricati e locali per esercizi sportivi, fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di un’attività industriale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni, fabbricati costruiti o adattati per le speciali esigenze di una attività commerciale e non suscettibili di destinazione diversa senza radicali trasformazioni, edifici galleggianti o sospesi a punti fissi del suolo nonchè i ponti privati soggetti a pedaggio, che ai sensi dell’art. 15, della L. 26 gennaio 1865, n. 2136, e dell’art. 3, del Reg. 22 agosto 1877, n. 4024, sono considerati opifici.
Al terzo raggruppamento appartengono gli immobili a ossia ricompresi nel gruppo per loro caratteristiche non rientrano negli altri due raggruppamenti, quali: stazioni per servizi di trasporto, terrestri, marittimi ed aerei, ponti comunali e provinciali soggetti a pedaggio, costruzioni e fabbricati per speciali esigenze pubbliche (edicole per giornali, chioschi per bar, rifornimenti di auto e così via) fabbricati costituenti fortificazioni e loro dipendenze, fari, fabbricati destinati all’esercizio pubblico dei culti, fabbricati e costruzioni nei cimiteri, altri edifici a destinazione particolare, diversi da quelli precedenti.
Chiarite così le “categorie edilizie degli immobili ai fini del mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” non sarebbe sufficiente che esso avvenisse nell’ambito delle stesse categorie edilizie, ma occorrerebbe “che non vi fosse incompatibilità”.
Detta incompatibilità emerge, di fatto, a ben vedere, allorquando si passi “dall’uso previsto in un raggruppamento a quello previsto in altro raggruppamento”.
Lasciando da parte le personali tesi di chi scrive e ritornando alla realtà delle cose, da ultimo, non può dimenticarsi che “mutare la destinazione d’uso di un immobile può comportare la rideterminazione degli oneri concessori corrisposti all’atto del rilascio della concessione edilizia”.
Gli oneri concessori, infatti, vengono determinati in relazione all’uso dichiarato del costruendo immobile e non di rado è prevista “la gratuità della concessione edilizia o il pagamento in misura ridotta”, sicchè il “mutamento può comportare il conguaglio o la debenza degli oneri concessori”.
Anche su tale aspetto, “debenza o conguaglio”, dottrina e giurisprudenza si sono divisi. Pur tuttavia la prevalenza delle tesi è orientata al solo conguaglio. Ovviamente se la concessione edilizia è stata gratuita e il mutamento attiene ad un uso che la legge prevede soggetto a contributo, occorrerà la determinazione degli oneri contributivi con riferimento alla data del mutamento d’uso e non a quello della costruzione dell’immobile o rilascio della concessione edilizia.
Rapportare l’uso dell’immobile all’originario accatastamento, ovviamente, non lederebbe alcun principio giuridico ed obbligherebbe tutti indistintamente ad adeguarsi alla disciplina normativa attribuendo o meglio richiedendo, ove necessario, alla pubblica amministrazione comunale la “destinazione d’uso dell’immobile”.
Sarà, poi, compito del “legislatore regionale” disciplinare i “vari mutamenti con o senza opere e se essi richiedano o meno la semplice “denuncia di inizio attività (D.I.A.)” ovvero il “permesso di costruire”.

Battipaglia – Sa – 11 novembre 2001




Pasquale Rago



 

Per un maggiore approfondimento della tematica si rinvia a P. Rago., , Milano, 2000.