Sull’edilizia agevolata e l’impossidenza di altri alloggi, di Fabio Cusano

Con sentenza 12 febbraio 2024, n. 15, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 19 febbraio 2016, n. 1 (Riforma organica delle politiche abitative e riordino delle Ater), nella parte in cui stabilisce che l’ivi prevista documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza – documentazione richiesta per dimostrare l’impossidenza di altri alloggi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale – debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e dell’Unione europea.

La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia osserva che, anche ad ammettere che il giudice ordinario possa imporre la rimozione di una norma regolamentare, tale potere verrebbe a mancare quando, come nel caso di specie, la norma regolamentare in questione sia sostanzialmente riproduttiva di una norma legislativa. Il Tribunale di Udine, secondo questa parzialmente diversa prospettazione, avrebbe allora esorbitato dalla funzione giurisdizionale in quanto avrebbe ordinato alla Regione autonoma di esercitare i propri poteri normativi regolamentari in violazione della legge, in contrasto, in particolare, con quanto previsto dal principio di legalità di cui all’art. 97 Cost. e dal principio di supremazia della legge regionale sul regolamento regionale (art. 117, sesto comma, Cost.).

Il ricorrente chiede pertanto, in via subordinata, che si dichiari che non spettava al Tribunale di Udine adottare l’impugnata ordinanza «senza aver prima chiesto ed ottenuto da codesta Corte costituzionale la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge regionale n. 1 del 2016». In questi diversi termini, il conflitto di attribuzione è fondato.

Con la predisposizione del giudizio antidiscriminatorio di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, il legislatore, come si è poc’anzi detto, ha inteso fornire protezione al fondamentale diritto a non subire discriminazioni per tutte le volte che, in ragione di condotte, comportamenti o atti posti in essere da privati o dalla pubblica amministrazione, tale diritto venga leso. Il presupposto su cui si fonda il giudizio antidiscriminatorio – e il correlato potere del giudice ordinario di disporre, nei vari modi possibili, la cessazione della discriminazione – è dunque che la condotta discriminatoria sia direttamente imputabile al privato o, ed è il profilo che qui rileva, alla pubblica amministrazione.

Nel caso in cui, invece, la discriminazione compiuta dalla pubblica amministrazione trovi origine nella legge, in quanto è quest’ultima a imporre, senza alternative, quella specifica condotta, allora l’attività discriminatoria è ascrivibile alla pubblica amministrazione soltanto in via mediata, in quanto alla radice delle scelte amministrative che si è accertato essere discriminatorie sta, appunto, la legge: è quanto accade nel caso di specie, ove l’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016 è sostanzialmente riproduttivo dell’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016.

In evenienze del genere, il giudice ordinario non può allora ordinare la modifica di norme regolamentari che siano riproduttive di norme legislative, in quanto ordinerebbe alla pubblica amministrazione di adottare atti regolamentari confliggenti con la legge non rimossa. L’esercizio di un siffatto potere è, dunque, subordinato all’accoglimento da parte di questa Corte della questione di legittimità costituzionale sulla norma legislativa che il giudice ritenga essere causa della natura discriminatoria dell’atto regolamentare.

Il peculiare carattere del giudizio antidiscriminatorio fa sì che i termini non cambino significativamente quando, come accaduto nel caso di specie, il giudice ordinario ritenga che le norme legislative e regolamentari siano in contrasto (anche) con norme del diritto dell’Unione europea dotate di efficacia diretta, cui è tenuto a dare immediata applicazione.

La primazia del diritto UE – costantemente riconosciuta da questa Corte quale «architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali» (sentenza n. 67 del 2022) – richiede che il giudice nazionale, quando ritenga la normativa interna incompatibile con normativa dell’Unione europea a efficacia diretta, provveda immediatamente all’applicazione di quest’ultima, senza che la sua sfera di efficacia possa essere intaccata dalla prima (sentenza n. 170 del 1984). Ciò, ovviamente, sempre che non ritenga di sollevare questione di legittimità costituzionale, nel caso in cui ne ricorrano i presupposti che questa Corte ha precisato a partire dalla sentenza n. 269 del 2017 (v. poi, tra le molte, sentenze n. 149, n. 67 e n. 54 del 2022, n. 182 e n. 49 del 2021, n. 63 e n. 20 del 2019; ordinanza n. 182 del 2020).

In particolare, nell’ambito del giudizio ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, la primauté è garantita dal giudice ordinario innanzitutto allorché è chiamato ad accertare l’esistenza dell’asserita discriminazione. È in questo momento del giudizio che egli, ove accerti che la condotta per cui è causa trova fondamento in atti normativi incompatibili con normativa dell’Unione europea a efficacia diretta, dà immediata applicazione a quest’ultima e ordina la cessazione della discriminazione.

Nel giudizio dinanzi al Tribunale di Udine, il giudice ha ritenuto, per l’appunto, che fosse discriminatoria e in contrasto con l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE l’impossibilità per i ricorrenti di avvalersi, per attestare l’impossidenza di immobili, di una dichiarazione sostitutiva ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000. Conseguentemente, e correttamente, non ha applicato la normativa legislativa e regolamentare che prevede detta impossibilità e, in diretta applicazione della richiamata normativa europea, ha ordinato di valutare la domanda dei ricorrenti – volta a ottenere il contributo per l’acquisto dell’alloggio da destinare a prima casa – «come se la documentazione attestante l’impossidenza di altri immobili fosse stata regolarmente prodotta in base agli stessi criteri valevoli per i cittadini comunitari». È in questo momento del giudizio che il Tribunale di Udine, adottando il predetto ordine, ha a pieno garantito i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea.

L’impartito ordine di rimuovere l’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016, che sostanzialmente riproduce l’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, costituisce, invece, il piano di rimozione delle discriminazioni accertate che il Tribunale di Udine ha ritenuto di dover adottare. Una volta attribuito il bene della vita ai ricorrenti, dando piena e immediata attuazione al diritto dell’Unione europea, il giudice ha inteso poi impedire il ripetersi di discriminazioni identiche o analoghe che possano coinvolgere non tanto i ricorrenti, ma qualsiasi altro soggetto che si trovi nelle medesime condizioni.

In quest’ambito del giudizio non viene più in rilievo l’esigenza che il diritto dell’Unione europea dotato di efficacia diretta trovi immediata applicazione (Corte di giustizia, sentenza 22 giugno 2010, in cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli), perché tale esigenza è stata, appunto, già pienamente soddisfatta. Qui viene in gioco, invece, una logica interna all’ordinamento nazionale che, con una forma rimediale peculiare e aggiuntiva, è funzionale a garantire un’efficace rimozione, anche pro futuro, della discriminazione: il che peraltro, quando sia stata rilevata un’incompatibilità con il diritto dell’Unione europea, fa dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 uno strumento che garantisce anche l’uniforme applicazione di tale diritto e che contribuisce alla «costruzione di tutele sempre più integrate» (sentenza n. 67 del 2022).

In quest’ottica, laddove la norma regolamentare sia sostanzialmente riproduttiva di norma legislativa, ordinarne la rimozione implica che sia sollevata questione di legittimità costituzionale sulla seconda. La non applicazione per contrasto con il diritto dell’Unione europea a efficacia diretta – necessaria per l’attribuzione immediata del bene della vita negato sulla base dell’accertata discriminazione – non rimuove, infatti, la legge dall’ordinamento con immediata efficacia erga omnes, ma impedisce soltanto «che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale» (sentenza n. 170 del 1984). L’ordine di rimozione della norma regolamentare – che proietta i suoi effetti, per espressa scelta del legislatore compiuta con l’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, oltre il caso che ha originato il giudizio antidiscriminatorio – richiede, allora, che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge, la quale, ancorché non applicata nel caso concreto, è ancora vigente, efficace e, sia pure in ipotesi erroneamente, suscettibile di applicazione da parte della pubblica amministrazione o anche di altri giudici che ne valutino diversamente la compatibilità con il diritto dell’Unione europea.

Sono, dunque, tanto l’ordinato funzionamento del sistema delle fonti interne – e, nello specifico, i rapporti tra legge e regolamento regionali, anche in relazione al diritto dell’Unione europea – quanto l’esigenza che i piani di rimozione della discriminazione siano efficaci a richiedere che il giudice ordinario, se correttamente intenda ordinare la rimozione di una norma regolamentare al fine di evitare il riprodursi della discriminazione de futuro, sollevi questione di legittimità costituzionale sulla norma legislativa sostanzialmente riprodotta dall’atto regolamentare, anche dopo che si sia accertata l’incompatibilità di dette norme interne con norme di diritto dell’Unione europea aventi efficacia diretta.

In relazione al conflitto di attribuzione tra enti deve concludersi, pertanto, che non spettava al Tribunale di Udine ordinare la rimozione dell’art. 12, comma 3-bis, del regolamento regionale n. 0144 del 2016 (punto 2 del dispositivo dell’ordinanza impugnata), senza prima aver sollevato questione di legittimità costituzionale sull’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016; né, conseguentemente, spettava al medesimo Tribunale adottare l’apparato coercitivo sanzionatorio conseguente al suddetto ordine di rimozione (punti 3, 7 e 8 della medesima ordinanza). Il provvedimento del Tribunale di Udine, nelle parti impugnate, va pertanto annullato.

L’accoglimento del ricorso in relazione al principio di legalità (art. 97 Cost.) e al criterio gerarchico che informa i rapporti tra legge e regolamento regionali (art. 117, sesto comma, Cost.) comporta l’assorbimento dei motivi proposti con riferimento agli artt. 4, 5 e 6 dello statuto speciale, agli artt. 101, 113, 117, commi terzo, quarto e quinto, 120, secondo comma, 134 e 136 Cost., nonché all’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.

Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale introdotto dall’ordinanza in epigrafe del Tribunale di Udine risponde precisamente a quanto si è sinora affermato in merito al conflitto di attribuzione.

Vanno ulteriormente illustrate, peraltro, le ragioni per cui non possono nutrirsi dubbi sull’ammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, nonostante il giudice a quo espressamente affermi che la direttiva 2003/109/CE «sia dotata di tutti i requisiti che la giurisprudenza della Corte di Giustizia ritiene necessari per ammettere la produzione di effetti diretti da parte di tale fonte del diritto comunitario, ovvero i requisiti di sufficiente precisione ed incondizionatezza».

A tale direttiva – e, in particolare, al suo art. 11 – il giudice rimettente, infatti, ha già assicurato attuazione con l’accordare ai ricorrenti il bene della vita, a tal fine non applicando, perché appunto incompatibili con la direttiva, il censurato art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nonché l’art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020. Tutto ciò, al fine di condannare la resistente pubblica amministrazione alla cessazione della condotta discriminatoria contestata in giudizio e di adottare la connessa disposizione che i ricorrenti cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo, al fine del loro inserimento nelle graduatorie relative alla concessione del contributo per l’abbattimento del canone di locazione corrisposto nel 2021, potessero presentare la stessa documentazione che possono presentare cittadini italiani e UE.

Il Tribunale di Udine, pertanto, ha già dato piena e immediata attuazione al diritto dell’Unione europea, apprestando tutela immediata ai diritti dei ricorrenti, sul piano del conseguimento del bene della vita.

La questione di legittimità costituzionale nasce in relazione alla domanda con cui le parti hanno chiesto di ordinare alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia – al fine di impedire in futuro la ripetizione delle discriminazioni accertate – la rimozione dell’art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020. È in relazione a tale domanda, sulla quale deve ancora pronunciarsi, che il Tribunale di Udine solleva le odierne questioni di legittimità costituzionale: volendo avvalersi del potere di rimuovere il fattore genetico della discriminazione, nel caso di specie individuato non solo nelle richiamate norme regolamentari, ma anche – e prima ancora – nella norma legislativa, il giudice a quo correttamente censura l’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, che il citato art. 9, commi 3 e 3-bis, del regolamento regionale n. 066 del 2020 sostanzialmente riproduce, in quanto la dichiarazione d’illegittimità costituzionale consentirà che sia emesso «un ordine di modifica del Regolamento che eviti anche pro futuro un contenzioso ormai nutrito» nel distretto giudiziario.

Al primato del diritto dell’Unione europea, fatto immediatamente valere allorché è stata accertata la discriminazione, viene dunque ad aggiungersi, come già si è rilevato, uno strumento rimediale interno volto a impedire il rinnovarsi di detta discriminazione. Le peculiari caratteristiche del giudizio ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 consentono, così, la convivenza tra il meccanismo della non applicazione della normativa interna incompatibile con il diritto dell’Unione europea e lo strumento del controllo accentrato di legittimità costituzionale, in relazione a parametri interni o sovranazionali, sulla medesima normativa interna, che ne consente l’eliminazione dall’ordinamento con effetti erga omnes (sentenza n. 63 del 2019), in attuazione «del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)» (sentenza n. 269 del 2017): ciò a dimostrazione, una volta di più, di come il controllo di compatibilità con il diritto dell’Unione europea e lo scrutinio di legittimità costituzionale non siano in contrapposizione tra loro, ma costituiscano «un concorso di rimedi giurisdizionali, [il quale] arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione» (sentenza n. 20 del 2019). E ciò in un contesto «che vede tanto il giudice comune quanto questa Corte impegnati a dare attuazione al diritto dell’Unione europea nell’ordinamento italiano, ciascuno con i propri strumenti e ciascuno nell’ambito delle rispettive competenze» (sentenza n. 149 del 2022).

La dichiarazione d’illegittimità costituzionale della normativa interna, del resto, offre un surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea, sotto il profilo della certezza e della sua uniforme applicazione. Fermo restando, infatti, che all’obbligo di applicare le disposizioni dotate di effetti diretti sono soggetti non solo tutti i giudici, ma anche la stessa pubblica amministrazione – sicché ove vi sia una normativa interna incompatibile con dette disposizioni essa non deve trovare applicazione – può altresì verificarsi che, per mancata contezza della predetta incompatibilità o in ragione di approdi ermeneutici che la ritengano insussistente, le norme interne continuino a essere utilizzate e applicate. Proprio per evitare tale evenienza, e fermi restando ovviamente gli altri rimedi che l’ordinamento conosce per l’uniforme applicazione del diritto quando ciò accada, la questione di legittimità costituzionale offre la possibilità, ove ne ricorrano i presupposti, di addivenire alla rimozione dall’ordinamento, con l’efficacia vincolante propria delle sentenze di accoglimento, di quelle norme che siano in contrasto con il diritto dell’Unione europea.

Va da sé che, prima di dare attuazione al diritto dell’Unione europea, il giudice ordinario deve adeguatamente interrogarsi sul significato normativo del diritto UE e sulla compatibilità con il medesimo del diritto interno.

Il principio del primato del diritto dell’Unione discende dal principio dell’eguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati (art. 4 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), che esclude la possibilità di fare prevalere, contro l’ordine giuridico dell’Unione, una misura unilaterale di uno Stato membro (Corte di giustizia, sentenza 22 febbraio 2022, in causa C-430/21, RS). L’obbligo di dare applicazione al diritto dell’Unione, quando ne ricorrono i presupposti, implica che esso sia interpretato in modo uniforme in tutti gli Stati membri.

La corretta applicazione e l’interpretazione uniforme del diritto UE sono garantiti dalla Corte di giustizia, cui i giudici nazionali possono rivolgersi attraverso il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, così cooperando direttamente con la funzione affidata dai Trattati alla Corte (Corte di giustizia, parere 1/09 dell’8 marzo 2011, recante «Accordo relativo alla creazione di un sistema unico di risoluzione delle controversie in materia di brevetti»). È nell’ambito di questo confronto che la Corte di giustizia instaura con i giudici nazionali, in quanto incaricati dell’applicazione del diritto dell’Unione, che essa fornisce l’interpretazione di tale diritto, allorché la sua applicazione sia necessaria per dirimere la controversia sottoposta al loro esame (Corte di giustizia, sentenza 9 settembre 2015, in causa C-160/14, Ferreira da Silva e Brito e altri; sentenza 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M.A.S. e M. B.).

La necessità di rivolgersi alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, che costituisce un obbligo in capo ai giudici nazionali di ultima istanza, viene tuttavia meno, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, non solo quando la questione non sia rilevante o quando la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi sia stata già oggetto di interpretazione da parte della Corte, ma anche in tutti i casi in cui la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi (Corte di giustizia, sentenze 6 ottobre 2021, in causa C-561/19, Consorzio Italian Management e altri; 6 ottobre 1982, in causa C-283/81, Cilfit e altri).

Tutto ciò premesso, la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, è fondata.

Il Tribunale di Udine, come si è in precedenza rilevato (punto 5.8.1.), ritiene la disposizione censurata costituzionalmente illegittima nella parte in cui stabilisce che l’ivi prevista documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza – documentazione richiesta per dimostrare l’impossidenza di altri alloggi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale – debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE.

Questa Corte, in relazione a norma analoga a quella oggetto dell’odierna questione di legittimità costituzionale, ha già avuto modo di osservare che un siffatto onere documentale «risulta in radice irragionevole innanzitutto per la palese irrilevanza e per la pretestuosità del requisito che mira a dimostrare» (sentenza n. 9 del 2021).

Quando, come nel caso di specie, obiettivo del legislatore regionale è riconoscere «il valore primario del diritto all’abitazione quale fattore fondamentale di inclusione, di coesione sociale e di qualità della vita» (art. 1, comma 1, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016) e a tal fine sostiene «l’accesso a un alloggio adeguato, in locazione o in proprietà come prima casa ai cittadini della Regione, in particolare alle fasce deboli della popolazione» (art. 1, comma 2, della medesima legge regionale), «il possesso da parte di uno dei componenti del nucleo familiare del richiedente di un alloggio adeguato nel Paese di origine o di provenienza non appare sotto alcun profilo rilevante. Non lo è sotto il profilo dell’indicazione del bisogno, giacché, intesa l’espressione “alloggio adeguato” come alloggio idoneo a ospitare il richiedente e il suo nucleo familiare, è evidente che la circostanza che qualcuno del medesimo nucleo familiare possegga, nel Paese di provenienza, un alloggio siffatto non dimostra nulla circa l’effettivo bisogno di un alloggio in Italia» (sentenza n. 9 del 2021). Non è, inoltre, neppure un indicatore della situazione patrimoniale del richiedente, peraltro già considerata, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera b, della legge regionale n. 1 del 2016, dal necessario «possesso di determinati indicatori della situazione economica» di cui al d.P.C.m. n. 159 del 2013.

Nella medesima occasione, si è altresì rilevato che una norma del genere è anche discriminatoria «solo che si consideri il fatto che le asserite difficoltà di verifica del possesso di alloggi in Paesi extraeuropei possono riguardare anche cittadini italiani o di altri Paesi dell’Unione europea» (sentenza n. 9 del 2021). Essa, pertanto, pone in essere «un aggravio procedimentale che si risolve in uno di quegli “ostacoli di ordine pratico e burocratico” che questa Corte ha ripetutamente censurato, ritenendo che in questo modo il legislatore (statale o regionale) discrimini alcune categorie di individui (sentenze n. 186 del 2020 e n. 254 del 2019)» (ancora sentenza n. 9 del 2021; in termini analoghi, in riferimento ad altro onere documentale, sentenza n. 157 del 2021).

L’onere documentale di cui alla disposizione censurata è, d’altra parte, manifestamente in contrasto anche con l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, nell’ambito della cui attuazione «gli Stati membri devono rispettare i diritti e osservare i principi previsti dalla Carta, segnatamente quelli enunciati dall’articolo 34 di quest’ultima. Conformemente a quest’ultimo articolo, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa destinate a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti» (Corte di giustizia, sentenza 10 giugno 2021, in causa C-94/20, Land Oberösterreich).

A tale direttiva l’Italia ha dato attuazione con il decreto legislativo n. 3 del 2007, senza avvalersi della possibilità, prevista dall’art. 11, paragrafo 4, della direttiva indicata, di limitare la parità di trattamento alle prestazioni essenziali: deroga, questa, cui può ricorrersi, secondo la Corte di giustizia, unicamente quando lo Stato membro esprima chiaramente la relativa intenzione (Corte di giustizia, sentenza 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj). L’art. 1, comma 1, lettera a), di tale decreto ha sostituito l’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, che detta la disciplina concernente il «Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo». Il comma 12 di detto art. 9 prevede, in particolare, che il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può «c) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l’accesso alla procedura per l’ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale».

La legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nel prevedere, tra le altre azioni attuative del programma di politiche abitative, quella di sostegno alle locazioni (art. 19), offre una prestazione essenziale ai sensi dell’art. 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109/CE, in quanto essa è «destinata a consentire a persone che non dispongono di risorse sufficienti di far fronte alle proprie esigenze abitative, in modo da garantire loro un’esistenza dignitosa» (Corte di giustizia UE, in causa C-94/20). Non v’è dubbio, allora, che si tratti di prestazione che deve essere assicurata ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo «consentendo loro di alloggiare adeguatamente, senza impegnare nella casa una parte eccessiva dei loro redditi, a scapito, eventualmente, del soddisfacimento di altre necessità elementari» (ancora Corte di giustizia UE, in causa C-94/20). La disposizione censurata, ponendo in capo ai cittadini di paesi terzi titolari di permesso di lungo soggiorno oneri documentali diversi rispetto a quelli previsti per cittadini italiani e UE, impedisce allora a tali soggetti di «ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro» (sentenza n. 67 del 2022), come imposto invece dall’art. 11 della direttiva 2003/109/CE.

In ragione di quanto detto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nella parte in cui prevede che l’ivi prevista documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza – documentazione richiesta per dimostrare l’impossidenza di altri alloggi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale – debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e UE.