Sull’autotutela doverosa, di Fabio Cusano

Con sentenza 2 novembre 2023, n. 9415, il Consiglio di Stato, sez. II, ha sancito che il Comune è tenuto a riscontrare l’istanza di autotutela di terzi, che risulterà doverosa solamente nel caso di mendacio accertato con giudicato penale, tanto procedendo all’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi basati su false attestazioni, quanto motivandone la mancata effettuazione.

Alla base della controversia si pongono una serie di interventi realizzati su un fabbricato, costruito in adiacenza a quello della controinteressata, tali da comportarne la sopraelevazione. L’intervento, che in quanto comportante aumento di volumetria e superficie, oltre che modifica di sagoma e prospetti, avrebbe dovuto essere ascritto al concetto di “nuova costruzione”, è stato invece inquadrato dal Comune, da ultimo anche con sanatoria, come ristrutturazione edilizia.

Il Consiglio ritiene necessario un, sia pur sintetico, richiamo a ciò che la dottrina e la giurisprudenza riconducono al concetto di “autotutela doverosa”. Con tale espressione si intende far riferimento a quelle situazioni in presenza delle quali il potere di riesame dei propri atti da parte della pubblica amministrazione è, appunto, dovuto, tassativamente individuate dal legislatore, ovvero declinate in maniera altrettanto precisa in via pretoria.

I casi di autotutela doverosa normativamente previsti sono stati via via eliminati dall’ordinamento, riducendosi ormai a singole e sporadiche ipotesi: si pensi alla disciplina dei controlli in materia di s.c.i.a., che ove travalichino la tempistica assegnata in via per così dire “ordinaria” (sessanta o trenta giorni, a seconda che si tratti o meno di materia edilizia), impone (non facoltizza) l’adozione dei provvedimenti conformativi, sospensivi o inibitori «in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies», e dunque in primo luogo nel rispetto del limite temporale (oggi) di dodici mesi (sul concetto di “autotutela doverosa” in materia di s.c.i.a., comunque limitata all’an e non estesa al quomodo, v. Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2023, n. 2371; sez. VI, 8 luglio 2021, n. 5208).

Accanto ai casi di autotutela doverosa “totale”, la dottrina più accorta teorizza la sussistenza di un’autonoma categoria di “autotutela doverosa parziale”, consistente nella mera dequotazione del termine ragionevole per procedere all’annullamento d’ufficio, come noto, pari ormai a dodici mesi per i casi di autorizzazioni o atti che accordano benefici economici. Ciò può avvenire stabilendone in via autonoma uno diverso (quale quello di dieci anni accordato alla Regione dall’art. 39 del T.u.e. per l’annullamento di deliberazioni e provvedimenti autorizzatori comunali) ovvero semplicemente prescindendone. A tale seconda categoria è sicuramente da ricondurre il caso in esame per come declinato dal legislatore.

La giurisprudenza ha poi individuato casi nei quali l’autotutela diviene strumento di garanzia di supremi valori ed interessi dell’ordinamento contro la consolidazione degli effetti d’un atto illegittimo ed ingiusto, seppure non tempestivamente revocato o annullato, in verità riconducendo allo stesso anche la fattispecie oggi in esame.

Come già detto, il Collegio ritiene che l’art. 21-novies, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990 declini sicuramente un caso di autotutela doverosa parziale, nell’accezione sopra chiarita, ovvero nel senso di consentire all’Amministrazione il suo esercizio anche oltre i termini fissati dal legislatore.

L’uso lessicale del verbo servile potere («possono essere annullati»), anziché dell’indicativo presente del verbo essere (“sono annullati”), pare inequivoco nel rendere l’accertamento penale irrevocabile del falso insufficiente ad imporre l’annullamento dell’atto, dovendo essere effettuate comunque anche le ulteriori verifiche previste dalla norma, fermo restando che nel caso di specie non si porranno esigenze di tutela dell’affidamento del dichiarante il falso o del diretto (e consapevole) beneficiario dello stesso. Ciò a maggior ragione ove si consideri che presumibilmente il giudicato di condanna interverrà dopo un lasso di tempo consistente dall’adozione dell’atto ampliativo, sicché l’Amministrazione non potrà esimersi dal valutare l’incidenza del fattore temporale sulla decisione relativa all’annullamento d’ufficio, tornando ad espandersi anche, si ritiene, l’operatività della ragionevolezza del termine. E tuttavia la scelta del legislatore di derogare al limite temporale di esercizio dell’autotutela non può rimanere priva di conseguenze sul piano della doverosità dell’attivazione delle necessarie verifiche. La possibilità, cioè, che si riediti il proprio potere anche a distanza di molto tempo, come tipicamente avviene nel caso del giudicato penale di falso, implica necessariamente che una valutazione delle conseguenze dello stesso sulla (eventuale) conservazione del titolo venga effettuata, seppure a potenziale discapito delle esigenze di certezza delle posizioni giuridiche ormai consolidate nel tempo. Da qui la correttezza, ritiene il Collegio, dell’utilizzo del termine “autotutela doverosa”, essendo essa tale anche a distanza di anni nell’accezione di imporre il riesame e conseguentemente riscontrare la relativa richiesta avanzata dal terzo interessato in tal senso, senza vincolarne gli esiti.

È evidente peraltro come la scelta di caducare l’atto sarà comunque più semplice da un punto di vista motivazionale, stante che, come precisato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, l’erronea prospettazione, da parte del privato, delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare una sua posizione di affidamento, con la conseguenza che l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte (Cons. Stato, A.P. 17 ottobre 2017, n. 8).«L’interesse pubblico all’eliminazione, ai sensi dell’ art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 , di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa, a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente» (così T.A.R. , Salerno , sez. II , 05 gennaio 2021, n. 18, richiamata da Cons. Stato, sez. VI, 6 luglio 2023, n. 6615). Principi questi che possono – recte, devono – evidentemente orientare la scelta dell’Amministrazione, ma non imporla, giusta l’incidenza del tempo trascorso, ad esempio, sull’attuale titolarità del bene.

L’equivoco di fondo nel quale incorre il primo giudice poggia in primo luogo sulla dilatazione della portata applicativa dell’art. 75 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, ricompreso tra le “sanzioni” di cui al Capo VI del Testo unico, e come tale richiamato espressamente dall’art. 21-novies, comma 2-bis della l. n. 241 del 1990. A tale norma è stata infatti riconosciuta la natura di «regola generalissima per sanzionare l’ottenimento d’un beneficio (di qualunque natura, foss’anche solo ampliativo del jus aedificandi) solo grazie ad una non veritiera rappresentazione dei presupposti di fatto su cui esso si basa ed altrimenti non dovuto» (Cons. Stato, sez. VI, 31 dicembre 2019, n. 8920). Ne sono peraltro conseguite letture ancor più rigorose a discapito del privato, che da un lato hanno esteso il concetto di «rappresentazione di fatti», riconducendovi anche le omissioni dichiarative, dall’altro hanno consentito l’annullamento a prescindere dalla previa cristallizzazione del falso in un giudicato penale.

Siffatta lettura, che il Collegio non condivide, non tiene conto delle differenze contenutistiche, comunque, ravvisabili nel coacervo delle norme ‒ oggettivamente mal coordinate tra di loro – nelle quali il legislatore si è occupato dell’impatto delle dichiarazioni menzognere o comunque non veritiere sul procedimento amministrativo. Laddove, infatti, il rinvio all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 rendesse sempre e comunque applicabile l’annullamento d’ufficio, lo stesso si risolverebbe in una sostanziale interpretatio abrogans del comma 2-bis dell’art. 21-novies, derubricandolo a mero richiamo a un meccanismo sanzionatorio rinvenibile aliunde, del tutto incompatibile con il ricordato utilizzo del verbo “potere” quale ribadita affermazione del permanere di un seppur minimo margine di discrezionalità amministrativa. Al contrario, la clausola di salvaguardia «fatta salva l’applicazione […] delle sanzioni previste dal Capo VI del testo unico» evoca caso mai un cumulo di sanzioni/conseguenze della declaratoria falsa, non la radicale sovrapposizione delle due ipotesi, con assorbimento dell’una (quella “meno” rigorosa) nell’altra.

L’art. 75 del d.P.R. n. 445/2000 fa riferimento alla decadenza da «benefici», dicitura che può sicuramente essere sovrapposta a quella di «provvedimenti di attribuzione di benefici economici» contenuta nell’art. 21-novies, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, ma che la giurisprudenza ha inteso allargare condivisibilmente anche a quelli di autorizzazione, fra i quali rientrano i titoli edilizi.

Tale ampliamento trova del resto riscontro nelle affermazioni dell’Adunanza plenaria (Cons. Stato, A.P., 11 settembre 2020, n. 18), che ha fatto riferimento ad una vicenda pubblicistica estintiva, ex tunc, di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio), lato sensu intesa. In tal caso, peraltro, la ravvisata configurazione, ricondotta ad una precisa scelta del legislatore, ha consentito di evidenziarne i tratti comuni col più ampio genus dell’autotutela, dal quale tuttavia essa «deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente: a) per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21- nonies della legge 241/90 che ne disciplini presupposti, condizioni ed effetti; b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti».

La decadenza di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, invece, pare rientrare nel novero delle vere e proprie sanzioni, stante che in quanto tale è richiamato dall’art. 21-novies, comma 2-bis della l. n. 241 del 1990. E tuttavia condivide con la vicenda pubblicistica estintiva menzionata dall’Adunanza plenaria il mancato rilievo dato all’elemento psicologico della condotta. Peraltro, solo “stralciandola” dal novero delle sanzioni – e così facendo venire meno l’operatività del rinvio alle stesse – possono trovare piena giustificazione gli approcci che prescindono, ai fini dell’integrazione dei suoi presupposti, dalla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa e si comprende appieno il limite dell’effetto ablatorio prodotto, al massimo coincidente con l’utilità innanzi concessa attraverso il pregresso provvedimento ampliativo sul quale la decadenza viene ad incidere. Lo stesso concetto di “decadenza”, d’altro canto, evoca per regola una caducazione sanzionatoria, ovvero conseguente alla presa d’atto della carenza dei presupposti per fruire di determinati benefici. Ad ogni buon conto, vuoi che si tratti di una sanzione, vuoi che sia più corretto parlare di meccanismo pubblicistico conseguente alle dichiarazioni false, non ne pare plausibile l’identificazione nell’annullamento d’ufficio, col quale piuttosto coesiste, salvo dar luogo ad un unico atto, coincidente contenutisticamente.

Il Collegio ritiene utile a confortare la ricostruzione fornita anche il richiamo alle modifiche all’art.75 sopra richiamato da ultimo apportate dall’art. 264, comma 2, lett. a), del d.l. 19 maggio 2020, n. 34. Esse si collocano in un più generalizzato contesto di valorizzazione dell’utilizzo delle dichiarazioni dei privati, al fine di agevolarne l’accesso a benefici economici, in un momento di particolare crisi economica quale quello connesso alla pandemia. A fronte, quindi, dell’incremento delle possibilità di utilizzo delle due forme tipiche di dichiarazioni sostitutive (quella in luogo di certificazione e quella di atto notorio) il legislatore ha inteso rafforzare il sistema dei controlli e inasprire le sanzioni, in una logica di centralità del principio di autoresponsabilità, che implica anche assunzione delle conseguenze della erroneità delle proprie affermazioni. Nell’inserire nell’art. 75 del comma 1-bis, relativo al recupero dei benefici già erogati, nonché al successivo divieto di percepirne per un certo lasso di tempo, ci si riferisce chiaramente a quelli di natura economica, esemplificati nominativamente come «contributi, finanziamenti e agevolazioni». E tuttavia si rafforza l’idea della finalità di “punizione”, lato sensu intesa, della violazione del rapporto fiduciario che l’Amministrazione ha inteso instaurare per velocizzare i procedimenti e semplificarne la definizione, attenuando gli oneri gravanti sul privato. La norma, cioè, si inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui il dovere del dichiarante di affermare il vero. Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” da un lato gli preclude il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione, dall’altro ne comporta la decadenza, appunto, dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio, restituendo anche quanto indebitamente già percepito, ove si tratti di benefici economici, a prescindere dall’elemento soggettivo che ha connotato la condotta, ovvero il dolo o la colpa del dichiarante.

Quanto detto consente infine di evidenziare come l’art. 21-novies e l’art. 75 si sovrappongono solo in parte con riferimento all’oggetto della dichiarazione. Il primo, infatti, distingue chiaramente le «false rappresentazioni», dizione ad ampia valenza contenutistica nella quale sicuramente rientra la descrizione dello stato dei luoghi ove si va ad inserire un intervento edilizio, dalle «dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci», ovvero quella specifica e tipica tipologia di dichiarazioni disciplinate dagli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, in relazione alle quali l’art. 75 irroga la decadenza quale conseguenza del mendacio. A tutto concedere, quindi, alla lettura rigorista che vuole far prevalere sempre e comunque la decadenza sull’annullamento d’ufficio, ciò deve essere limitato ai casi in cui il mendacio sia contenuto in una dichiarazione sostitutiva di certificazione (i cui oggetti sono analiticamente elencati all’art. 46 del d.P.R. n. 445/2000) ovvero di “atto notorio”, vale a dire quello stato di fatto la cui conoscenza è di comune dominio (“notoria”, appunto) che il privato è autorizzato a formalizzare in un documento a sua firma. Nei casi, invece, di «rappresentazioni di fatto» non veritiere non rientranti in tali tipologie, ovvero rese da soggetti cui l’ordinamento attribuisce una specifica qualifica soggettiva, l’art. 75 non rileva, vuoi che lo si ritenga un rimedio (sanzionatorio o meno) aggiuntivo all’autotutela, vuoi che, per quanto sopra detto, lo si assorba nella stessa, piuttosto che identificarla con essa.

Anche per tale strada, tuttavia, la sostanziale ritenuta operatività, ancorché limitata a specifici casi, del solo art. 75 finisce per vanificare la decantata svolta garantista che il legislatore ha inteso imprimere con la novella del 2015, sottraendo alla valutazione della singola amministrazione la valenza inficiante della declaratoria falsa e pretendendone l’accertamento definitivo da parte di un giudice penale.

In definitiva, il Collegio ritiene che l’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 21-novies della l. n. 241 del 1990, aggiunto dalla legge n. 164 del 2014, rappresenti una sorta di “clausola di salvaguardia”, che finisce effettivamente per limitare l’ampia discrezionalità attribuita, in via generale, all’amministrazione, ma non fino al punto di renderla doverosa. Essa, cioè, pone tra gli elementi di valutazione di cui la P.A. deve tenere conto nel decidere se e come pronunciarsi sulla legittimità dei propri provvedimenti, la necessità di evitare effetti pregiudizievoli per la stessa amministrazione, fermo restando che gli stessi già possono conseguire all’avvenuta adozione dell’atto illegittimo. Più precisamente, il precetto in questione più che prevenire le conseguenze negative per l’apparato pubblico che si verificherebbero qualora l’autorità agente fosse chiamata a rispondere dei danni provocati dalle violazioni da essa commesse nell’attuazione della legge, eliminate o meno, in via di autotutela, mira a prevenire in generale comportamenti negligenti nell’esercizio della funzione pubblica.

Né il vincolo contenutistico dell’autotutela può trovare fondamento nell’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001. La richiesta di attivazione dei controlli, infatti, si colloca o a valle dell’avvenuto esercizio dell’autotutela, avendo l’eventuale annullamento del titolo reso illegittimo un intervento che originariamente non lo era, ovvero del tutto al di fuori della stessa, per verificare, cioè, altri profili di illiceità che si collocano comunque al di fuori della copertura del titolo di legittimazione.

Va detto che la distinzione tra controllo del territorio e controllo sulla legittimità dei titoli che ne consentono le modifiche, chiara a livello teorico, finisce per debordare in molteplici ambiti chiaroscurali di non agevole collocazione dogmatica. In astratto, dunque, il primo, quale strumento conferito per dare effettività alle scelte di pianificazione urbanistica rimesse all’Ente locale, attiene alla verifica, effettuabile senza limiti di tempo, della conformità degli interventi al regime di edificabilità dei suoli per come cristallizzati nei titoli edilizi, ove rilasciati, ovvero all’illecita realizzazione in assenza degli stessi di modifiche che in qualche modo impattino sul territorio; il secondo, invece, implica, a monte e preventivamente, la verifica della sussistenza dei presupposti per assentire una determinata richiesta di esercizio dello ius aedificandi, ex post, esclusivamente la possibilità del loro annullamento, sussistendone i presupposti di legge, volti a contemperare le esigenze di tutela della legalità con quelle di certezza delle situazioni giuridiche e di legittimo affidamento che il privato ripone nella correttezza dell’operato della pubblica amministrazione.

Nella pratica, accade spesso che il richiamo all’imprescrittibilità dei poteri di vigilanza divenga il grimaldello attraverso il quale legittimare controlli postumi, ovvero spostare in avanti il dies a quo di decorrenza del termine di silenzio assenso dilatando a dismisura il concetto di requisiti formali e sostanziali che la domanda deve possedere per potere essere valutata. L’esigenza di salvaguardare comunque l’interesse pubblico al corretto sviluppo del territorio, che ne interseca sovente di altri connotati da ancor maggiore sensibilità (si pensi all’ambiente, al paesaggio o al patrimonio culturale) ha indotto il legislatore a richiamare espressamente il potere di vigilanza quale rimedio finale per cauterizzare situazioni illecite. In tal senso dispongono dunque sia l’art. 19, comma 6-bis, ultimo periodo, con riferimento alla s.c.i.a. in ambito edilizio, sia l’art. 21, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990, che richiamano, rispettivamente, le «disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e dalle leggi regionali» e le «attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20». Il rischio, di intuibile percezione, è che in nome dell’essenziale interesse pubblico alla salvaguardia del territorio e al corretto uso del suolo si legittimi l’inerzia della pubblica amministrazione, consentendole di attivarsi solo su impulso di una controparte ovvero all’esito di una denuncia penale, contraddicendo la configurazione del silenzio assenso quale rimedio eccezionale e non modello comportamentale ordinario da tempo predicata dalla giurisprudenza del consiglio di Stato.

L’art. 27 del T.u.e. costituisce in realtà un importante contenitore capace di abbracciare, ma senza invaderne il perimetro, il controllo di legittimità sugli atti amministrativi, per “recuperare”, a prescindere dallo stesso, al procedimento sanzionatorio, tutto ciò che esula dal modello tipologico prescelto, non solo quanto se ne distacchi in fase esecutiva. Si pensi al caso di inoltro di una s.c.i.a. o di una c.i.l.a. per opere che chiaramente richiedono il permesso di costruire: l’inefficacia del procedimento dichiarativo prescinde dalla necessità di caducarne gli effetti, ben potendosi motivare la ritenuta sussistenza dell’illecito nel provvedimento sanzionatorio.

L’esempio fatto, che riecheggia solo in parte quanto accaduto nel caso di specie, evidenzia tutta la difficoltà di tracciare sempre un discrimine netto tra valutazione del titolo e valutazione dell’intervento: trattasi tuttavia di uno sforzo ermeneutico che il Comune è chiamato a fare, così da distinguere i profili di illegittimità, rilevabili ex post nei limiti dell’autotutela, da quelli di illiceità, stigmatizzabili in qualunque momento.

Peraltro, diversamente da quanto affermato con riferimento all’esercizio dell’autotutela in generale, secondo costante orientamento giurisprudenziale, l’amministrazione comunale ha l’obbligo di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati su area confinante formulata dal relativo proprietario. In particolare, il proprietario confinante, in ragione dello stabile collegamento con il territorio che si esprime nel concetto di vicinitas, gode di una posizione differenziata e qualificata rispetto alla collettività, che lo legittima ad avanzare tale istanza, essendo direttamente inciso dagli effetti dannosi del mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto. L’amministrazione pertanto è tenuta ad attivarsi con l’adozione delle misure rese necessarie dall’illegittima edificazione, ovvero adottando un provvedimento che spieghi esplicitamente le ragioni della scelta negativa inversa, che dia conto delle valutazioni effettuate in merito alla sussistenza o meno dell’abuso denunciato, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso. In tali situazioni, si ritiene che trovi applicazione l’art. 2 della l. n. 241/1990, che impone alla pubblica amministrazione di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso, anche se ritiene che la domanda sia irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata, non potendo rimanere inerte, salvo il limite negativo, logico, prima che giuridico, della totale pretestuosità o infondatezza della richiesta/denuncia. Più in generale ciò risponde ai principi di correttezza, buon andamento e trasparenza, e nel contempo all’esigenza di garantire alle parti, attraverso l’emanazione di un provvedimento espresso, di tutelare in giudizio i propri interessi a fronte di provvedimenti ritenuti illegittimi.

Il primo giudice ha sostanzialmente posto sullo stesso piano le due richieste, di autotutela e di controllo, operando un’indebita commistione tra le stesse, ovvero giustificando la doverosità della prima in ragione della sussistenza dei compiti di controllo. Al contrario, trattavasi di due distinti profili di obbligo di provvedere, uno riferito al richiesto riesame degli atti, l’altro alla verifica di conformità agli stessi, per come “conservati” o caducati, dello stato di fatto esistente.

Entro tali, più limitati confini, andava pertanto circoscritta l’autotutela doverosa che il TAR ha ravvisato nella previsione di cui all’art. 21-novies, comma 2-bis, della l. n. 241 del 1990.

A ciò consegue l’accoglimento del ricorso del Comune, seppure nei sensi e limiti precisati in motivazione. Nel giudizio avverso il silenzio, infatti, non è consentito al giudice amministrativo, in presenza di attività discrezionale, quale resta comunque in tali ipotesi quella di annullamento d’ufficio, valutare la fondatezza della pretesa azionata, perché ciò implicherebbe una non consentita ingerenza in spazi valutativi riservati all’amministrazione, con violazione del divieto di sindacare poteri non ancora esercitati. Tale giudizio sulla fondatezza della pretesa è possibile soltanto in presenza di attività vincolata anche nel quomodo, insussistente nel caso di specie. L’obbligo del Comune, pertanto, era limitato al – questo sì, doveroso – riscontro alle diffide nella loro distinta e autonoma configurazione, nonché al riesame degli atti, ivi compresi quelli sopravvenuti, limitatamente alla necessità di valutare l’eventuale impatto anche sugli stessi delle dichiarazioni mendaci. Nell’esercizio del conseguente potere sanzionatorio, resta altresì salva l’applicabilità, ove ne sussistano i presupposti, per l’applicazione dell’art. 38 del T.u.e.

In sintesi, il Comune, alla luce della presente sentenza, è tenuto a riscontrare l’istanza di autotutela della ricorrente, in quanto “doverosa” nell’accezione chiarita, alla luce del giudicato penale sopravvenuto, o procedendo all’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi cui fa riferimento il sopravvenuto giudicato di falso, ovvero motivandone la mancata effettuazione, anche in relazione alla sopravvenuta e ormai consolidata sanatoria. Nell’esercizio del proprio potere di vigilanza, egualmente doveroso, è tenuto altresì ad attivare il previsto procedimento sanzionatorio, sia in caso di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi, specificamente indicati, sia con riferimento a quanto realizzato al di fuori degli stessi, ivi compresa la richiamata sanatoria, ove non fatta oggetto di riesame in via autonoma. In entrambi i casi, è tenuto a dare riscontro motivato alla richiedente o adottando i previsti provvedimenti demolitori, o esplicitandone la mancata adozione. Resta ferma la valutazione, in sede di esecuzione delle (eventualmente) intimate demolizioni della sussistenza dei presupposti per consentire la c.d. fiscalizzazione dell’abuso, sia ove si determini nel senso dell’annullamento dei titoli edilizi (art. 38 del d.P.R. n. 380/2001), sia in relazione agli interventi difformi o non “coperti” dagli stessi, ivi compresa la sanatoria successivamente rilasciata (a seconda del caso, art. 33, comma 2 ovvero 34, comma 2, del medesimo Testo unico). Resta fermo altresì l’obbligo, a cura dei competenti organi comunali, di attivare i procedimenti finalizzati ad accertare le previste responsabilità connesse sia all’adozione del provvedimento illegittimo che al suo mancato annullamento.