Sull’accertamento di compatibilità paesaggistica, di Paolo Urbani

Il Cons. Stato, sez. II, 5 giugno 2024, n. 5046 ha ribadito che l’accertamento di compatibilità dell’intervento col contesto paesaggistico nel quale esso s’inserisce è il frutto di un giudizio sulla coerenza dell’opera rispetto al complesso degli elementi che compongono quel contesto e rispetto al quale il valore tutelato impone che essa non sia percepita come dissonante, con apprezzamento che si connota per la sua intrinseca opinabilità. Di conseguenza, una motivazione succinta può ritenersi legittima se rileva gli estremi logici dell’incompatibilità di un manufatto con il contesto tutelato, e comunque, affinché il diniego di compatibilità paesaggistica postuma o di sanatoria di opere realizzate in zone vincolate possa ritenersi sufficientemente motivato, è necessaria l’indicazione delle ragioni assunte a fondamento della valutazione di incompatibilità dell’intervento con le esigenze di tutela paesistica poste a base del relativo vincolo. In particolare, la Soprintendenza, pur essendo titolare di un’ampia discrezionalità in materia, ha l’onere di corredare il provvedimento di diniego di ammissibilità paesaggistica di un’adeguata motivazione, riferita al concreto, alla realtà dei fatti e alle ragioni ambientali ed estetiche che impongono di escludere un determinato intervento o di limitarlo mediante prescrizioni.

L’appellante impugna la sentenza che ha respinto il ricorso contro il parere negativo sull’istanza di accertamento della compatibilità paesaggistica relativo a un intervento realizzato nell’immobile di proprietà e gli atti presupposti e successivi, compreso il diniego definitivo emanato dal Comune.

Con il primo motivo di appello, l’appellante contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui ha ritenuto che il parere negativo reso dalla Soprintendenza fosse sufficientemente motivato in relazione alla tutela del vincolo apposto sull’area, sostenendo che, al contrario, manca l’indicazione degli elementi e delle ragioni di pregiudizio per i valori tutelati, anche in considerazione del favore che l’ordinamento accorderebbe alla produzione di energia da fonti rinnovabili.

Il motivo è fondato.

A tal proposito, si rileva che, con il “preavviso di rigetto” la Soprintendenza aveva prefigurato l’emissione del parere negativo osservando che «l’intervento realizzato, introducendo una significativa alterazione della pregevole qualità del contesto paesaggistico caratterizzato da un’armonica integrazione tra paesaggio antropico e insediamenti abitativi, come riportato nel D.M. 3.6.1966, per localizzazione, dimensioni, caratteristiche morfologiche, materiche e cromatiche, non sia compatibile paesaggisticamente con il suddetto contesto e non risulti conforme alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico della regione Toscana, e che in considerazione del rilevante impatto, la realizzazione del progetto comporta una sostanziale compromissione dei valori paesaggistici costituenti la ragion d’essere del provvedimento di tutela».

Nel provvedimento definitivo, la stessa Amministrazione ha confermato l’esistenza di motivi ostativi all’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento «per localizzazioni, dimensioni, caratteristiche morfologiche, materiche e cromatiche», esprimendo quindi parere negativo «in quanto le opere non risultano compatibili paesaggisticamente con il contesto di inserimento e non risultano conformi alle disposizioni contenute nel Piano Paesaggistico della Regione Toscana e che, in considerazione del rilevante impatto le opere eseguite comportano una sostanziale alterazione dei valori paesaggistici costituenti la ragion d’essere del provvedimento di tutela».

Secondo il TAR, la Soprintendenza «ha compiuto una puntuale istruttoria e, ancora, ha indicato e motivato il contrasto tra l’opera di cui si tratta e le ragioni di tutela dell’area interessata dall’apposizione del vincolo [e] ha ricostruito l’iter logico seguito nel percorso valutativo che si è poi concluso nel giudizio finale di incompatibilità», circostanza che, alla luce dell’ampia discrezionalità tecnico-specialistica sottesa all’adozione di questi provvedimenti, renderebbe il parere negativo immune dai vizi dedotti dalla ricorrente.

Il Collegio al contrario ritiene che la motivazione sia apodittica, come denunciato dall’appellante.

Secondo una giurisprudenza consolidata, «l’accertamento di compatibilità dell’intervento col contesto paesaggistico nel quale esso s’inserisce è il frutto di un giudizio sulla coerenza dell’opera rispetto al complesso degli elementi che compongono quel contesto e rispetto al quale il valore tutelato impone che essa non sia percepita come dissonante, con apprezzamento che si connota per la sua intrinseca opinabilità» e, di conseguenza, «una motivazione succinta può ben ritenersi legittima se rileva gli estremi logici dell’incompatibilità di un manufatto con il contesto tutelato», comunque, affinché il diniego di compatibilità paesaggistica postuma o di sanatoria di opere realizzate in zone vincolate possa ritenersi sufficientemente motivato, è necessaria «l’indicazione delle ragioni assunte a fondamento della valutazione di incompatibilità dell’intervento con le esigenze di tutela paesistica poste a base del relativo vincolo» (tra le ultime, si v. Cons. St., sez. II, sent. n. 9981 del 2023) e, in particolare, la Soprintendenza, «pur essendo titolare di un’ampia discrezionalità in materia, ha l’onere di corredare il provvedimento di diniego di ammissibilità paesaggistica di un’adeguata motivazione, riferita al concreto, alla realtà dei fatti e alle ragioni ambientali ed estetiche che impongono di escludere un determinato intervento (Cons. Stato Sez. VI, 17/03/2020, n. 1903) o di limitarlo mediante prescrizioni» (in tali termini, Cons. St., sez. II, sent. n. 10877 del 2023).

In questo caso, tanto il parere negativo, quanto il “preavviso di rigetto” da esso richiamato si limitano a richiamare i vincoli insistenti sull’area e le disposizioni del Piano paesaggistico regionale, senza tuttavia spiegare in ragione di quali elementi l’intervento in esame, circoscritto alla sola copertura della casa dell’appellante e limitato a una superficie di circa 116 mq integrata con il tetto, non sia compatibile con i valori paesaggistici della zona (anzi, risulti addirittura di «rilevante impatto»).

La motivazione, nel riferirsi genericamente a «localizzazioni, dimensioni, caratteristiche morfologiche, materiche e cromatiche» dell’opera è invero stereotipata, perché potrebbe astrattamente attagliarsi a interventi eterogenei, anche diversi da quello in esame; al contrario, l’Amministrazione avrebbe dovuto specificare quali delle concrete caratteristiche dei pannelli fotovoltaici installati – peraltro, solo su parte del tetto dell’edificio – comportino un pregiudizio per i valori paesaggistici tutelati.

La carenza è tanto più significativa se si considera che la Commissione comunale per il paesaggio aveva invece espresso un parere contrario solo per una “porzione” dell’intervento, così implicitamente avallando la parte restante.

Sotto altro profilo, non è condivisibile la tesi dell’Avvocatura secondo cui la Soprintendenza non sarebbe tenuta a considerare i vantaggi per l’ambiente derivanti dall’installazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.

Come osservato in giurisprudenza, «la produzione di energia pulita è incentivata dalla legge in vista del perseguimento di preminenti finalità pubblicistiche correlate alla difesa dell’ambiente e dell’eco-sistema», con la conseguenza che le motivazioni di un diniego di autorizzazione paesaggistica alla realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili «devono essere particolarmente stringenti, non potendo a tal fine ritenersi sufficiente che l’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico rilevi una generica minor fruibilità del paesaggio sotto il profilo del decremento della sua dimensione estetica» (anche perché, se il giudizio di compatibilità paesaggistica si limitasse a rilevarne l’impatto nel contesto, «ogni nuova opera, in quanto corpo estraneo rispetto al preesistente quadro paesaggistico, sarebbe di per sé non autorizzabile») e occorre quindi «una più severa comparazione tra i diversi interessi coinvolti nel rilascio dei titoli abilitativi – ivi compreso quello paesaggistico – alla realizzazione (o, come nel caso di specie, al mantenimento, trattandosi di un procedimento di sanatoria) di un impianto di energia elettrica da fonte rinnovabile (nella specie da fonte solare)», ricordando anche che «la produzione di energia elettrica da fonte solare è essa stessa attività che contribuisce, sia pur indirettamente, alla salvaguardia dei valori paesaggistici» (Cons. St., sez. VI, sent. n. 1201 del 2016, opportunamente citata dall’appellante, la quale precisa che, diversamente da quanto argomentato anche in questo giudizio dalla difesa erariale, non conduce a una conclusione differente «la circostanza che, vertendosi nel caso di specie in un procedimento di sanatoria di opere già realizzate sine titulo, la valutazione della compatibilità paesaggistica delle opere sia stata compiuta dall’autorità paesaggistica non ex ante ma ex post, e cioè a seguito di un pieno esame della fattispecie concreta. La predetta circostanza fattuale doveva ancor più spingere l’autorità soprintendentizia alla ricerca di una soluzione di mediazione tra i contrapposti interessi, tenuto conto vieppiù che gli impianti di produzione di energia da fonte fotovoltaica (al pari di ogni altro impianto tecnologico) sono soggetti a rapida obsolescenza tecnica, di guisa che l’incidenza sul paesaggio non ha carattere permanente essendo destinata a perdurare fino a quando le nuove tecnologie non consentiranno di utilizzare nuove forme di sfruttamento dell’energia solare (più sofisticate e con ogni probabilità maggiormente apprezzabili sul piano estetico)»).

Questo orientamento merita di essere confermato anche alla luce del fatto che, come ricordato in più occasioni dalla Corte costituzionale, la tutela dei diritti e dei valori riconosciuti e garantiti dalla Costituzione deve essere “sistemica e non frazionata”, evitando che uno di essi si erga a “tiranno” nei confronti degli altri (sentt. n. 264 del 2012, n. 85 del 2013, n. 10 del 2015, n. 58 del 2018, n. 2, n. 27 e n. 54 del 2022), specialmente quando, come nella specie, si tratta di beni – l’ambiente e il paesaggio – aventi entrambi il medesimo rango di principi fondamentali, ai sensi dell’art. 9 della Costituzione come integrato dalla legge costituzionale n. 1 del 2022, rilievo dal quale consegue che la Soprintendenza, nel perseguire la missione attribuitale dalla legge, non può esprimere una posizione “totalizzante” che sacrifichi interamente l’interesse ambientale indifferibile alla transizione ecologica (in questi termini si v. anche Cons. St., sez. VI, sent. n. 8167 del 2022).

La fondatezza del primo motivo consente di ritenere assorbito il secondo motivo, con cui si contesta il solo e successivo provvedimento definitivo di diniego.

In conclusione, in parziale accoglimento dell’appello, la sentenza impugnata deve essere riformata, con accoglimento del ricorso di primo grado e, per l’effetto, annullamento degli atti con esso impugnati.

Di conseguenza, il Comune e il Ministero della cultura dovranno ripronunciarsi sulla domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica, accogliendola ovvero dando conto delle ragioni che precludono l’emissione di un provvedimento favorevole, in tal caso specificando quali caratteristiche dell’intervento siano in contrasto con il vincolo paesaggistico e per quale ragione, nonché comunque valutando il raggiungimento di una soluzione «che consenta ove possibile la realizzazione dell’intervento con il minor sacrificio dell’interesse paesaggistico nella sua declinazione meramente estetica (a tal uopo fornendo se del caso indicazioni conformative sulle modalità allocative dell’impianto)» (in questi termini, ancora, Cons. St., sez. VI, sent. n. 1201 del 2016).