Perequazione urbanistica e nuovi scenari legislativi

di 25 Maggio 2005 Incontri
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1. I nuovi scenari della pianificazione urbanistica 

Sarebbe riduttivo occuparsi della perequazione urbanistica – intesa come più equa distribuzione di onori ed oneri tra proprietari – dal solo punto di osservazione della mera tecnica di pianificazione: in realtà al fondo del dilagare dell’interesse per l’istituto, per decenni relegato nell’asfittica interpretazione dell’art.23 della legge del 1942, vi è la modificazione profonda di alcuni scenari che pur non incidendo direttamente sul tema della perequazione, ne hanno permesso, più recentemente, una rilettura ed un’applicazione assai estesa e multiforme.

  Provo qui ad elencarli in sequenza mettendo in evidenza che solo alcuni sono l’esito di modificazioni del diritto positivo mentre la gran parte riflettono invece il manifestarsi di un diverso clima culturale nel quale operano i due grandi attori della vicenda urbanistica: i poteri pubblici e quelli privati.

E allora nell’ordine richiamerei:

–         L’applicazione anche all’urbanistica del principio di giustizia distributiva propria di altri settori della vita sociale ed economica (perequazione fiscale o tributaria, dei salari o stipendi) rispetto al sistema classico dello zoning inteso come distribuzione ordinata sul territorio delle diverse funzioni urbane che, tuttavia, produce la discriminazione tra proprietari per la natura vincolistica delle previsioni di spazi da riservare alle opere collettive;

–         La diversa declinazione dei poteri amministrativi più inclini al sistema della soft regulation che all’unilateralità del comando pianificatorio: l’esito è il passaggio da un’urbanistica per provvedimenti ad un’urbanistica per accordi[1]. Il diverso atteggiarsi dei poteri amministrativi trova in questo caso un fondamento nella l.241/90 che introduce nell’ordinamento il principio del ricorso agli accordi tra amministrazioni (art.15) e a quelli tra potere pubblico e privato (art.11).

–          La marginalizzazione dell’istituto espropriativo[2] nell’ambito delle normali scelte di pianificazione urbanistica perché oneroso e conflittuale e scisso dalla realizzazione delle opere private; il dinamismo della pianificazione confligge con la separatezza delle azioni (P.A. da un lato e privati dall’altro, manca il coordinamento).

–         La forte riconsiderazione del ruolo del privato come soggetto attivo e non passivo (non solo nella materia urbanistica ma anche in altre discipline: basti pensare qui al principio introdotto dalla nuova legge cost n.3/2001 della sussidiarietà orizzontale art.118 4 co.)[3] in grado di svolgere un ruolo pianificatorio (accollo delle opere di urbanizzazione e cessione volontaria delle aree in funzione del risultato di ottenere l’urbanizzazione dell’area);

–         La diversa funzione assunta dagli enti locali territoriali anche a seguito del diverso sistema di legittimazione elettorale di rappresentanza (elezione diretta del cosiddetto sindaco-imprenditore-manager o del presidente della provincia) in quanto enti rappresentativi delle collettività locali in funzione dello sviluppo e del benessere urbano. L’assetto del territorio – si afferma – è sempre più strumentale e servente le esigenze del mercato: sulla dinamicità degli assetti l’amministrazione locale si “gioca” il consenso elettorale.

–         La necessità di assicurare il risultato delle scelte pianificatorie in luogo della sola fissazione delle prescrizioni urbanistiche: di qui la diversa articolazione del piano urbanistico in piano strutturale ed operativo (previsto ormai in più del 60% degli ordinamenti regionali)[4] al fine di rendere maggiormente flessibile per determinati ambiti territoriali la fissazione delle prescrizioni urbanistiche codeterminando con gli interessi privati l’individuazione della scelta migliore d’uso del territorio, ma soprattutto garantendo che alla fissazione delle prescrizioni segua simultaneamente l’attuazione delle scelte concordate.

 

2. I problemi giuridici della perequazione.

 

Se quelli che ho elencati costituiscono lo sfondo sul quale sembra consolidarsi un nuovo interesse per le tecniche perequative dobbiamo analizzare se le “teorie” perequative in campo abbiano un fondamento giuridico, se cioè la legislazione vigente permette l’utilizzo delle diverse tecniche di perequazione applicabili all’istituto del piano regolatore generale.

Cosa s’intende per perequazione? Siginfica attribuire un valore edificatorio uniforme a tutte le proprietà che possono concorrere alla trasformazione urbanistica di uno o più ambiti del territorio prescindendo dall’effettiva localizzazione della capacità edificatoria sulle singole proprietà e dalla imposizione di vincoli d’inedificabilità ai fini di dotazione di spazi da riservare alle opere collettive.

Questo significa che i proprietari indistintamente partecipano in misura uguale alla distribuzione dei valori e degli oneri derivanti dalla pianificazione ai fini della trasformazione. In tal modo le amministrazioni possono disporre senza ricorrere al’esproprio (quindi senza oneri) di un cospicuo patrimonio fondiario pubblico come conseguenza diretta dell’attuazione del “piano perequativo”.

Questa tecnica di pianificazione, tuttavia, non ha solo il fine di superare la discriminatorietà degli effetti della zonizzazione e di disporre gratuitamente di aree pubbliche per servizi ma anche quello della cosiddetta integrazione di funzioni edificatorie: ovvero la possibilità che coesistano nei medesimi spazi diverse forme di utilizzazione del territorio. Anche qui come si vede l’obiettivo è quello di superare il rigido principio della divisione in zone monofunzionali (agricole, residenziali, produttive etc.) che si rivela spesso elemento di rigidità pianificatoria. Quella dell’integrazione delle funzioni sembra comunque principio acquisito sia in base al diritto positivo sia in base all’orientamento della giurisprudenza: basti pensare allo strumento del programma integrato d’intervento che nella definizione che ne da l’art.16 dellal.179/92 – una volta vigente – rientra dal punto di vista localizzativo in quella che può essere chiamata zona mista; o ancora alla disciplina delle aree produttive di cui al reg. delegificante (DPR 447/98 mod. dal DPR 440/2000 che esplicitamente ammette che in tali aree siano localizzabili attività di “produzione di beni e servizi, incluse le attività agricole, commerciali, artigiane, turistiche, alberghiere, i servizi resi dalle banche, e dagli intermediatori finanziari, i servizi di telecomunicazioni”[5].
L’applicabilità della tecnica perequativa sembra ristretta a determinate parti del territorio che possono essere definite zone o comparti di trasformazione oggetto di precisa delimitazione da parte del piano. Si tratta di applicabilità esclusa, per ovvi motivi, per le zone di conservazione e può riguardare anche più zone di trasformazione nello stesso piano ma identificabili per le loro stesse caratteristiche
[6]. D’altronde tale principio si applica anche quando il piano identifica con le stesse caratteristiche ad es le zone agricole.

Dall’analisi delle diverse teorie sulla perequazione emerge, tuttavia, che esiste più di un modello perequativo.

Il modello classico che richiama l’istituto del comparto di cui all’art.23 della legge urb. é quello limitato a particolari zone nelle quali i diritti oggetto di distribuzione tra i proprietari coincidono con l’edificabilità attribuita dal piano. In questo, caso è bene sottolinearlo, i valori oggetto di perequazione sono quelli che il piano attribuisce agli ambiti territoriali interessati. Si può parlare qui di perequazione parziale o a posteriori. In questo caso i diritti maturati all’interno del comparto non possono essere trasferiti all’esterno.

Una variante di questo modello è quella invece che prevede che anche l’edificabilità attribuita ad aree esterne al comparto (anche non contigue) possano concorrere alla trasformazione del comparto. In questo caso l’edificabilità convenzionale attribuita alle aree esterne di cui si richiede la conservazione ( e quindi l’inedificabilità) viene spostata all’interno del comparto determinando una capacità edificatoria aggiuntiva mentre la perequazione degli oneri viene ripartita tra tutte le aree esterne o interne al comparto. Questo sembra sia il caso utilizzato in determinate situazioni nel nuovo PRG di Roma in corso di adozione. Analogo mi sembra il caso del PRG di Reggio Emilia – che ha dato luogo alla famosa sentenza del TAR Emilia n.22/98 – che ha previsto le cosiddette zone miste a valenza ecologica nelle quali sono previsti due perimetri: uno più ristretto nel quale concentrare le capacità edificatorie della zona (o comparto) ed una più ampia destinata a verde da cedere gratuitamente all’amministrazione e la cui edificabilità viene trasferita sulla zona di concentrazione edilizia. In quest’ultimo caso mi sembra che il meccanismo perequativo persegua l’obiettivo di acquisire aree anche eccedenti gli standards urbanistici.

Esiste, tuttavia, un terzo modello perequativo che si differenzia dai primi due poiché si tende ad attribuire alla perequazione un meccanismo applicativo generalizzato esteso tendenzialmente ad una parte rilevante delle aree di espansione o di trasformazione[7]. In questo caso è previsto il riconoscimento di parametri di edificabilità convenzionali – normalmente piuttosto bassi, uniformi per categorie di aree del territorio comunale sulla base dello stato di fatto e di diritto esistente, classificate sulla base di criteri preventivi rispetto alle scelte di piano (che prescinde cioè dal piano in formazione) e soprattutto non correlati al carico urbanistico definito dal piano.

Il complesso dei volumi così riconosciuti in materia uniforme a tutte le proprietà della stessa classe non conicide con il carico urbanistico effettivo previsto per il raggiungimento degli obiettivi del piano. In questo caso il meccanismo perequativo consente di individuare una maggiorazione di edificabilità che è dovuta esclusivamente alla pianificazione. Una parte di questa edificabilità aggiuntiva è gratuitamente riservata al comune, e coincide con le urbanizzazioni ed il fabbisogno di altri interventi pubblici, l’altra resta ad appannaggio dell’utilizzatore. Si può dire anzi che il riconoscimento a priori di capacità edificatorie convenzionali si converte in quantità di edificazione sensibilmente inferiori a quelle stimate complessivamente occorrenti per realizzare gli obiettivi del piano. Il risultato è che la differenza rappresenta la misura dell’edificabilità riservata alla mano pubblica. Ma questo meccanismo genera una sorta di edificabilità pubblica priva di area, acquisita dall’ente pubblico ad di fuori dei meccanismi appropriativi tipici e consente l’acquisizione al patrimonio pubblico di aree in una misura che non è parametrata alle esigenze effettive delle urbanizzazioni e degli standards ma che deriva in pratica per differenza dalla mera conversione del parametro di edificabilità convenzionale.[8]

Quest’ultimo modello, è quello previsto sia dalla recente legge Basilicata sia dalla legge della Calabria che lo riprende in pieno, ma a mio avviso solleva alcuni problemi che vanno esaminati.

Il primo riguarda il fatto che quest’ultimo sistema ovvero quello di attribuire, a prescindere dal piano, un diritto edificatorio meramente convenzionale alle aree considerate, è operazione estranea al concetto di conformazione dei beni attraverso la valutazione tipica del procedimento pianificatorio, poiché sembra perseguire aprioristicamente, il diverso scopo della mera distribuzione dei valori.

Si pongono allora due questioni: la prima – che riguarda il tema della legalità dei poteri dell’amministrazione – se sia ammissibile, cioè, in via amministrativa l’applicazione di un metodo del genere – come è stato fatto in alcuni piani urbanistici[9] – o non sia necessaria una definizione normativa dei poteri dell’amministrazione che definendo aprioristicamente valori convenzionali di edificabilità dei suoli, modifica il contenuto dei poteri urbanistici vigenti; la seconda, riferendosi alle leggi regionali prima citate, che introducono tale modello perequativo generalizzato e a priori, se non esista un problema di competenza statale esclusiva ai sensi dell’art. 117.2, lett. l) Cost. in materia di ordinamento civile, che da molti è stato letto alla stregua del vecchio limite del diritto privato. In sostanza tale modello perequativo sembra incidere direttamente sullo statuto proprietario, in particolare sul regime giuridico della proprietà fondiaria. Anche se non è detto che non vi siano margini per fondare una competenza legislativa regionale in tema (fornendo una lettura meno estesa della materia ordinamento civile) non è questa la sede per sciogliere tale nodo di carattere costituzionale. Attenendosi alla prima impressione, parrebbe quindi necessario che intervenga una disciplina legislativa statale per dare una legittimazione al sistema perequativo specie se portato all’eccesso come nell’ultimo modello esposto.

Né d’altronde abbiamo in materia il conforto della giurisprudenza mai espressasi sul problema.

Sembra quindi necessario che intervenga una disciplina per dare una legittimazione al sistema perequativo specie se portato all’eccesso come nell’ultimo modello esposto. Né d’altronde, in assenza di questa riforma, abbiamo in materia il conforto della giurisprudenza che su questo non si è mai espressa.

 

3 Un nuovo ruolo dell’amministrazione e dei privati, ma anche maggior lavoro per l’urbanista.

 

Non mi nascondo che la problematica perequativa potrebbe assumere risvolti ancora più complessi lì dove si fosse in presenza dello sdoppiamento del piano regolatore in strutturale ed operativo, individuando nel primo gli ambiti territoriali oggetto di disciplina definitiva tramite la codeterminazione degli interessi pubblici e privati nel piano operativo. Ho la netta impressione che adottando il sistema perequativo cosiddetto a priori e generalizzato esteso a tutti gli ambiti territoriali, sia necessario àncorare a parametri molto dettagliati le modalità di trasformazione dei suoli ma anche individuare già qui il carico urbanistico impresso dal piano strutturale per evitare che in fase di piano operativo i meccanismi convenzionali o meglio l’urbanistica contrattata sia troppo esposta ad un arbitrio dell’amministrazione o ad un’eccessiva contrattazione con i privati. Riterrei invece più praticabile per la gestione del piano operativo o meglio dei piani operativi – poiché tale strumento è ad appannaggio del mandato di ogni amministrazione – che all’interno degli ambiti territoriali possano essere individuati sub-ambiti di trasformazione nei quali l’amministrazione preveda l’attuazione degli interventi ammessi mediante modalità perequative di cui siano fissati i parametri già nel piano strutturale. Questo permetterebbe una differenziazione delle situazioni pianificatorie nel piano operativo lì dove ad es. determinati interventi non richiedono perequazione (interventi diretti) o si riferiscono ad interventi complessi oggetto di scambio edificatorio con l’amministrazione (ad es programma integrato d’intervento) nei quali il privato s’impegna a realizzare opere di mecenatismo (opere pubbliche) che l’amministrazione ha già identificato e quantificato come necessarie per la collettività locale direttamente nel piano strutturale e nel programma triennale delle opere pubbliche (art.14 l.109/94). In breve, ad una più attenta lettura dell’esperienza del sistema dello sdoppiamento – che anche qui non è ancora passato al vaglio del giudice amministrativo – nella redazione del piano strutturale occorre la preventiva fissazione non di minori ma di maggiori regole del gioco che metta in condizioni amministrazione e privati di concordare le scelte nel piano operativo. D’altronde la divisione in piano strutturale e piano operativo non vuole significare che l’amministrazione rinuncia ai propri poteri di conformazione dei suoli, e che si piega all’ossimoro di un’urbanistica estemporanea[10], al contrario: vuol solo dire che in determinate situazioni si autolimita nel dettare già prescrizioni vincolanti che possano non rispondere alle effettive esigenze dello sviluppo e del miglior assetto urbano, rinviandole nel concreto ad un momento successivo, ma avendo già predeterminato a monte e cioè nel piano strutturale le condizioni della trasformazione.

Ma al di là dell’ipotesi dello sdoppiamento e riferendosi ancora al vigente PRG, mi sembra evidente che così procedendo cambi profondamente il processo di pianificazione pubblica che dal paradigma unilateralità del potere-zonizzazione-localizzazione stia passando forse troppo in fretta a quello del tipo consenso-comparto- compartecipazione[11] – specie se esteso a gran parte del territorio comunale, costringendo l’amministrazione ad assumere un ruolo promozionale e contrattuale particolarmente impegnativo tutto affidato a meccanismi consensuali, mentre dall’altra parte anche il privato deve assumersi una serie d’impegni e responsabilità di risultato che in molti casi non sembrano del tutto pacifici. Tra l’altro si pone il problema, a mio avviso assai rilevante, del controllo nel tempo dell’esecuzione di quanto disposto negli atti convenzionali. Ecco perché non cambia solo il ruolo dell’amministrazione e dei privati nella gestione del piano ma muta profondamente anche il ruolo dell’urbanista e del suo staff nella redazione del piano per due motivi: il primo perché comporta un’attenta valutazione dei contenuti morfologici e di sostenibilità alla trasformazione dei diversi ambiti territoriali ai fini della ammissibilità delle integrazioni funzionali; il secondo perché nelle norme tecniche del piano strutturale devono già essere individuati i contenuti e le modalità negoziali cui riferirsi in fase di pianificazione operativa. E qui spendo ovviamente una parola a favore della categoria dei giuristi che dovrebbero far parte integrante dello staff che redige il piano.

Infine, come collocare la disposizione di cui al 5 comma dell’art.17 del cosiddetto collegato infrastrutture (Atti senato n.1246) che prevede la sola competenza della giunta comunale all’approvazione dei piani urbanistici attuativi conformi allo strumento urbanistico generale? E’ applicabile al sistema dello sdoppiamento del piano regolatore? E’ possibile sottrarre al consiglio comunale la valutazione della codeterminazione pubblico-privato ma soprattutto sottrarre le scelte concordate alla fase di pubblicità e di partecipazione pubblica?

Ma le perplessità non finiscono qui poiché – a seguito della l. cost.3/2001 e di revisione del titolo V – si è affermato un principio di equiordinazione tra i poteri pubblici in particolare tra regioni ed enti locali (art.114) e nello stesso tempo gli enti locali dispongono ora di una piena potestà regolamentare in ordine all’organizzazione e all’esercizio delle funzioni loro attribuite (art.117.5): di conseguenza mi pongo il problema se nella disciplina urbanistica ad es. si possa prevedere – come nelle leggi della Basilicata ed ora della Calabria – la cosiddetta perequazione obbligatoria generalizzata o non ci si trovi in presenza di una “riserva di disciplina del piano regolatore” nel senso che la determinazione dei contenuti della pianificazione è rimessa all’autonomia statutaria comunale.

Sono tutti problemi che vanno presa in attenta considerazione nel momento in cui il legislatore volesse accingersi, come pare, alla scrittura della legge urbanistica nazionale di cui dovrebbe, attenzione, fissare solo i principi fondamentali della materia poiché siamo in tema di legislazione concorrente o ripartita. Usare ancora gli occhiali centralistici senza rendersi conto che le cose sono cambiate profondamente rispetto al vecchio testo presentato in parlamento nella precedente legislatura significherebbe commettere un errore di prospettiva gravissimo, ma questo é materia di un altro intervento in tema.

 

Paolo Urbani


 


[1] vedi  la modifica della l 241 art 11 che prevede la possibilità del risorso all’accordo sostitutivo di provvedimento non più ai soli casi previsti dalla legge di cui il l’accordo bonario in tema di acquisizione dei suoli privati alla mano pubblica ne è l’esempio principale.

[2] Su cui vedi anche indirettamente la sent corte cost n.179/99

[3] art.114.4: “Stato, regioni, città metropolitane, province, comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.

[4] Sia consentito rinviare al mio Urbanistica consensuale, Bollati Boringhieri Torino, 2000.

[5] Ciò comporta che gli strumenti urbanistici devono adeguarsi alle nuove disposizioni.

[6] Criterio che la giurisprudernza amministrativa presupposto fondamentale per l’identificazione di tali aree.

[7] Su cui vedi L.Piscitelli, Perequazione e integrazione tra zone, in E.Ferrari (a cura di) L’uso delle aree urbane e la qualità dell’abitato, Milano 2000 p.165 cui devo il riconoscimento che questo scritto costituisce l’unico contributo giuridico approfondito sulla ricostruzione del cosiddetto modello perequativo generalizzato e a priori.

Vedi anche l’ottimo contributo di E.Boscolo, La perequazione urbanistica: un tentativo di superare l’intrinseca discriminatorietà della zonizzazione tra applicazioni pratiche ed innovazioni legislative regionali in attesa della riforma urbanistica, in L’uso delle aree urbane op.cit. 193 s.

[8]
Cosi Piscitelli op.cit.

[9] In assenza di una legge regionale che preveda tali meccanismi perequativi a monte del piano.

[10] P.Urbani Trasformazione urbana e societa di trasformazione urbana in RGU2000.

[11] E.Boscolo, op.cit.