Con sentenza 18 agosto 2023, n. 7829, il Consiglio di Stato, sez. VII, ha ribadito che l’art. 9-bis, comma 1-bis, del D.P.R. 380/2001 in sostanza ha codificato il principio per cui lo stato legittimo di un immobile è quello che risulta dai titoli edilizi, potendosene prescindere solo per gli immobili “realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio” nonché per quelli relativamente ai quali “sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia”: la norma è stata introdotta soprattutto allo scopo di fornire all’acquirente di un immobile la certezza della legittimità dell’immobile, potendo ottenere dall’amministrazione comunale (come desumibile dall’art. 34-bis, comma 3, del D.P.R. 380/2001) una attestazione dello stato legittimo dell’immobile, che comunque non è sostitutiva dei titoli edilizi. Ne consegue che lo stato di un immobile attestato in un documento diverso dal titolo edilizio abilitativo non ha mai posseduto efficacia probante, tale da far insorgere un affidamento di buona fede, salvo che per gli immobili per i quali non era necessario il titolo abilitativo e limitatamente alla prima costruzione e alle modificazioni intervenute prima del 1967.
Gli appellanti realizzavano alcune opere in difformità, delle quali l’Amministrazione non veniva a conoscenza per molto tempo. Nel 2017 gli appellanti cedevano l’immobile ad una società, la quale presentava la CILA per la realizzazione di opere di manutenzione straordinaria: in occasione dell’esame di tale pratica edilizia il Comune si è avvedeva che lo stato di fatto del fabbricato, puntualmente rappresentato nelle tavole progettuali presentate dalla società, non corrispondeva allo stato legittimo risultante dai titoli edilizi del 1965 e del 1991; procedeva quindi a inibire il nuovo intervento edilizio e, successivamente, ingiungeva la demolizione opere abusive e ripristino dei luoghi.
Gli ex proprietari, odierni appellanti, impugnavano ambedue i provvedimenti, deducendone l’illegittimità per mancanza di pubblico interesse al ripristino.
Giova rammentare, in primo luogo, che l’art. 9 bis, comma 1-bis, del D.P.R. n. 380/2001, aggiunto al corpo della norma dall’art. 10, comma 1, lett. d), n. 2, del D.L. n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla L. n. 120/2020, stabilisce che “Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Le disposizioni di cui al secondo periodo si applicano altresì nei casi in cui sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia”.
La previsione, benché entrata in vigore solo nel 2020, in realtà costituisce mera applicazione di norme già da molti anni vigenti nell’ordinamento, in particolare delle norme che hanno introdotto l’obbligo, per i proprietari di terreni, di munirsi di un titolo autorizzatorio per realizzare le costruzioni, sanzionando la violazione di tale obbligo. Trattasi, in particolare: dell’art. 31 della L. 1150/42 , che per primo ha introdotto l’obbligo della licenza di costruzione per tutti gli edifici da costruirsi all’interno dei centri abitati; nonché degli artt. 10 e 6 della L. n. 765/1967, i quali hanno previsto, rispettivamente, l’estensione dell’obbligo della licenza di costruzione in tutto il territorio comunale – e quindi anche fuori dai centri abitati – nonché la sanzionabilità delle opere eseguite senza licenza di costruzione o in contrasto con essa. Il sistema così disegnato è stato poi portato ad ulteriore completamento con la L. n. 10/1977, che ha introdotto anche l’obbligo, del proprietario, di partecipare alle spese di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, nonché con la L. n. 47/85, che ha rafforzato il sistema sanzionatorio degli abusi edilizi.
Si osserva, dunque, che dal momento in cui l’edificazione dei suoli è stata assoggettata al preventivo rilascio di un atto autorizzatorio, variamente denominato nel corso dei decenni, ed è stato istituito un sistema sanzionatorio che ha punito la realizzazione di opere edilizie in assenza o in difformità dai titoli autorizzativi, è stato implicitamente stabilito che la legittimità – ovvero lo “stato legittimo” – di un immobile è parametrata alle condizioni che ne hanno legittimato la prima costruzione (licenza di costruzione ovvero ubicazione fuori dai centri abitati, fino al 1967) nonché ai titoli edilizi che hanno autorizzato successive modifiche. Per questa ragione la giurisprudenza formatasi sul contenzioso avente ad oggetto ordinanze di demolizione di immobili esistenti da lungo tempo, solo con riferimento ai fabbricati di cui si prospettava la costruzione fuori dai centri abitati prima del 1967, ha ammesso che la prova della legittimazione potesse essere fornita anche con mezzi diversi dal titolo edilizio, cioè con mezzi di prova idonei a dimostrare la ricorrenza delle indicate condizioni in presenza delle quali non necessitava la licenza di costruzione (ex multis, fra le più recenti, si veda Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 570 del 27 gennaio 2022). In ogni altro caso il parametro di riferimento è sempre stato individuato solo nei titoli edilizi: tant’è che per superare l’insanabile contrasto tra lo stato di fatto di un immobile e quello risultante dai titoli edilizi, per lungo tempo una parte della giurisprudenza ha ammesso che l’ordine di demolizione dovesse recare una motivazione rafforzata in punto pubblico interesse al ripristino, e ciò, peraltro, solo nel caso in cui fosse trascorso un lungo lasso di tempo tra la realizzazione dell’abuso e l’ordine di demolizione.
Tuttavia, la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2017 ha affermato il principio secondo cui “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
L’art. 9-bis, comma 1 bis, del D.P.R. n. 380/2001 in sostanza non ha fatto altro che codificare il principio per cui lo stato legittimo di un immobile è quello che risulta dai titoli edilizi, potendosene prescindere solo per gli immobili “realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio” nonché per quelli relativamente ai quali “sussista un principio di prova del titolo abilitativo del quale, tuttavia, non sia disponibile copia”: la norma è stata introdotta soprattutto allo scopo di fornire all’acquirente di un immobile la certezza della legittimità dell’immobile, potendo ottenere dall’amministrazione comunale (come desumibile dall’art. 34 bis, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001) una attestazione dello stato legittimo dell’immobile, che comunque non è sostitutiva dei titoli edilizi.
Segue da quanto esposto che lo stato di un immobile attestato in un documento diverso dal titolo edilizio abilitativo non ha mai posseduto efficacia probante, tale da far insorgere un affidamento di buona fede, salvo che per gli immobili per i quali non era necessario il titolo abilitativo e limitatamente alla prima costruzione e alle modificazioni intervenute prima del 1967.
Pertanto, l’appello è stato respinto.