L’amministrazione non è tenuta ad agire in autotutela in presenza di strumenti di partecipazione popolare di Paolo Urbani

CS 2911 2023

Con la sentenza 22 marzo 2023, n. 2911 il Consiglio di Stato, Sez. V, ha sancito che a fronte di una petizione o di una proposta avente ad oggetto la richiesta di revoca di un provvedimento non sorge un obbligo di provvedere in capo all’amministrazione e dunque non è configurabile un’ipotesi di silenzio inadempimento nel caso in cui essa non adotti alcun provvedimento in autotutela.

Ad avviso del Consiglio, ai sensi dell’art. 31 c.p.a., il giudizio avverso il silenzio inadempimento presuppone che l’amministrazione abbia posto in essere una violazione del dovere di provvedere, e cioè del dovere di iniziare e concludere il procedimento nel termine previsto dalla legge; pertanto, occorre accertare se tale dovere sussista.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, va escluso l’obbligo di provvedere nel caso in cui l’istanza del privato sia volta a sollecitare il riesame di un atto divenuto inoppugnabile, atteso che l’affermazione di un generalizzato obbligo, in capo all’amministrazione, di rivalutare un proprio provvedimento, anche quando rispetto ad esso siano decorsi i termini per proporre ricorso, sarebbe vulnerata l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti che hanno titolo in atti autoritativi, con elusione del regime di decadenza dei termini di impugnazione (cfr. Cons. Stato, VI, 25 maggio 2020, n. 3277; IV, 11 ottobre 2019, n. 6923). “Il potere di autotutela soggiace alla più ampia valutazione discrezionale dell’amministrazione competente e non si esercita in base ad un’istanza di parte, avente al più portata meramente sollecitatoria e inidonea, come tale, ad imporre alcun obbligo giuridico di provvedere, con la conseguente inutilizzabilità del rimedio processuale previsto avverso il silenzio inadempimento della p.a.” (cfr., fra le tante, Cons. Stato, V, 19 aprile 2018, n. 2380; IV, 7 giugno 2017, n. 2751).

Deve, dunque, escludersi la sussistenza di un dovere generalizzato dell’amministrazione di provvedere sulle istanze di autotutela. Ed invero, la revoca si configura come lo strumento di autotutela decisoria preordinato alla rimozione, con efficacia ex nunc, di un provvedimento all’esito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico alla sua conservazione. I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall’art. 21 quinquies, l. 7 agosto 1990, n. 241, e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto e in una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico originario.

Risulta evidente che il potere di revoca è connotato da un’ampia discrezionalità, dal momento che, a differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula anche l’illegittimità dell’atto da rimuovere, quello di revoca esige solo una valutazione di opportunità, seppure ancorata alle condizioni legittimanti espresse dalla norma succitata, sicché il valido esercizio dello stesso resta, comunque, rimesso a un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’amministrazione procedente, rispetto al quale l’istanza del privato assume solo una valenza sollecitatoria.

Al riguardo, la giurisprudenza ha precisato che la richiesta avanzata dai privati nei confronti dell’amministrazione al fine di ottenerne un intervento in autotutela è da considerarsi “una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, che non fa sorgere in capo all’amministrazione alcun obbligo di provvedere” (Cons. Stato, VI, 15 maggio 2012, n. 2774; 11 febbraio 2013, n. 767). Invero, “i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell’amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare” (Cons. Stato, IV, 16 settembre 2008, n. 4362).