L’amministrazione che non c’è, ovvero le riforme amministrative e il governo Berlusconi

di 13 Maggio 2003 Lavori Pubblici
 

Il programma elettorale del Polo delle libertà, tenuto nascosto sin quasi al giorno delle elezioni, per paura, a dire di Berlusconi, che fosse copiato, prometteva la "riorganizzazione degli apparati dello Stato" e la qualificava come una delle "cinque grandi missioni per cambiare l’Italia".
Nei primi mesi di attività questa "grande missione" non è certo stata al centro dell’azione del governo e del parlamento, impegnati prioritariamente sul fronte della giustizia e su alcune  misure economiche, oltre che in una serie di annunci di misure in materia di lavoro, previdenza, scuola, sanità,  opere pubbliche, per ora non concretizzate neanche sul piano delle proposte.

 

  Vi sono stati, peraltro, alcuni interventi in materia di pubblica amministrazione, che se sono, per la loro frammentarietà e occasionalità, difficilmente riconducibili ad un progetto complessivo di riforma amministrativa, lasciano trasparire la concezione che il governo di destra ha dell’amministrazione pubblica e lasciano intravedere alcune linee di fondo che vale la pena di analizzare e valutare.
Un elenco dei primi interventi del governo comprende:

  1. l’aumento del numero dei ministeri, ridotti a 12 dal governo di centrosinistra con la riforma del governo e della presidenza del Consiglio, con la "resurrezione" del ministero della salute e del ministero delle comunicazioni, operata con un decreto legge i cui requisiti di necessità e di urgenza erano di assai dubbia consistenza;
  2. il riaccentramento alla Presidenza del Consiglio, struttura che dovrebbe occuparsi della politica generale del governo, dei compiti di protezione civile, che erano stati organizzati in un’apposita Agenzia, con il risultato di riprodurre il dualismo con il ministero dell’interno e di accentrare compiti che spettano, ancor più dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, alle regioni e agli enti locali;
  3. l’appesantimento dell’organizzazione della Presidenza del consiglio, con l’istituzione di nuovi dipartimenti, come quello per le economie territoriali e la previsione di ulteriori nuove strutture, come l’annunciato dipartimento per la lotta alla droga;
  4. le proposte reiterate, anche se ancora non tradotte in realtà, di riportare ai ministeri buona parte dei compiti oggi svolti dalle agenzie e, ancor di più, dalle autorità indipendenti;
  5. la previsione, soprattutto nella legge finanziaria, di ampie e indeterminate misure di privatizzazione e outsourcing tanto delle strutture quanto delle attività amministrative, confermate dalla previsione di un’amplissima riduzione di funzioni amministrative nel disegno di legge di semplificazione (con criteri di difficile comprensione e ancora più difficile applicabilità, ma qui si vuole rilevare la direzione in cui ci si muove, più che la perizia e la capacità tecnica).
Per ricondurre queste misure e queste proposte ad un progetto complessivo di riforma dell’amministrazione occorrerebbe prestare loro uno spessore che non hanno. Emerge, invece, con chiarezza, un progetto ideologico che si basa su due pilastri: la rimasticatura dell’ideologia reaganiana in base alla quale "l’amministrazione non è la soluzione del problema, ma il problema" e la convinzione assoluta che il settore pubblico debba avere come modello il settore privato.
Per il primo aspetto, il sistema amministrativo non è visto come uno strumento per rendere servizi alla collettività e attuare le politiche di settore, ma piuttosto come un ostacolo al libero dispiegarsi di una politica che non si preoccupa dell’attuazione, dei costi e degli effetti delle sue decisioni, ma ritiene di avere la legittimazione per decidere tutto direttamente, per riappropriarsi di funzioni di regolazione del mercato che negli altri paesi occidentali sono svolti da autorità indipendenti, per accentrare funzioni che spettano alle regioni e agli enti locali. In questo quadro si inseriscono anche le proposte in materia di dirigenza pubblica, volte ad abbandonare la distinzione fra politica ed amministrazione e a ricreare una completa sovrapposizione fra l’una e l’altra: non a caso la verifica dei risultati, che nell’assetto vigente è determinata dalla legge nel tempo, nei modi e nelle misure sanzionatorie viene rimessa, invece, al completo arbitrio del vertice politico, che può decidere liberamente quando e come valutare il dirigente e quali misure adottare per liberarsi del dirigente ritenuto scomodo o non allineato.
Quanto al secondo aspetto, è facile rilevare che il settore privato italiano non è, di per sè, un modello di efficienza e di trasparenza, come dimostra il basso numero di aziende quotate in borsa e le difficoltà delle imprese italiane (con le dovute eccezioni) nei confronti dell’innovazione e della concorrenza. Ma il punto qui è un altro. Occorre dimostrare l’applicabilità e la vantaggiosità dei modi di funzionamento del settore privato a tutti i settori del sistema pubblico, dalla scuola alla sanità, dai beni culturali alla ricerca: la finanziaria prevede che sia possibile trasformare in soggetto privato praticamente qualsiasi ente pubblico e che sia possibile privatizzare o passare in outsourcing praticamente qualsiasi prestazione amministrativa, senza prevedere, però, non solo alcun criterio di scelta, ma neanche qualsiasi meccanismo di verifica e di controllo sui risultati ottenuti (e del resto le misure di valutazione, controllo e monitoraggio sono cospicuamente assenti da tutta la produzione normativa della maggioranza di destra).
Anche qui, l’ideologia impedisce di tenere almeno conto delle esperienze di altri paesi: del disastro provocato dalla privatizzazione senza liberalizzazione dell’energia elettrica in Caifornia, per cui i cittadini più ricchi del mondo subiscono continui black out, o dei danni provocati dalla politica thatcheriana in materia di sanità o del fatto che Blair sia stato costretto, recentemente, a ricomprare le ferrovie dai privati ai quali erano state cedute.

La modernizzazione del sistema amministrativo, iniziata dai governi di centrosinistra, continua ad essere una necessità per l’Italia, ma richiede la messa a punto di misure e interventi mirati e specifici per ogni settore, la messa in campo di capacità tecniche sperimentate, l’obbligo di verificare ciò che si fa e di correggere e imparare dall’esperienza e, soprattutto, una concezione dell’amministrazione pubblica come risorsa da porre a disposizione della collettività, per la resa dei servizi e la garanzia dei diritti. Oltre, naturalmente, ad una strategia riformista: che è il contrario dell’ideologia.