Con sentenza 14 settembre 2023, n. 8325, il Consiglio di Stato, sez. IV, ha ribadito che il potere di gestione in chiave urbanistica del territorio, proprio perché comprende tra i suoi fini anche la protezione dell’ambiente, quale fattore condizionante le relative scelte, può legittimamente indirizzarsi verso valutazioni discrezionali che privilegino la qualità della vita, anche in parti del territorio comprensive di beni immobili non aventi le caratteristiche intrinseche e peculiari che ne comportino livelli sovraordinati di tutela. In tale ordine di idee i limiti imposti alla proprietà privata attraverso destinazioni d’uso che garantiscano la salvaguardia ambientale non devono essere valutati in sede giurisdizionale alla luce delle specifiche leggi che garantiscono la tutela del paesaggio, ma sulla base dei criteri propri della materia urbanistica, per cui l’esercizio del potere di conformazione urbanistica è compatibile con la tutela paesistica, trattandosi di forme complementari di protezione preordinate a curare con diversi strumenti distinti interessi pubblici, con la conseguenza che, pur non sussistendo alcuna fungibilità tra le legislazioni di settore, le stesse possono riferirsi contestualmente allo stesso oggetto. Da tale impostazione discende che l’ambito di discrezionalità del comune nel determinare le scelte che incidono sull’assetto del territorio comunale è quindi molto ampio sia nel quid che nel quomodo.
La questione principale all’esame del Collegio attiene alla natura e alle funzioni della pianificazione urbanistica.
Secondo la moderna concezione della funzione di pianificazione, sviluppatasi a partire dalla nota decisione del Consiglio di Stato sul caso Cortina (Cons. Stato. Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710), il potere conformativo del comune non può essere condizionato dalle caratteristiche oggettive dell’area o da precedenti determinazioni, pena la messa in discussione della potestà generale di piano.
Nell’occasione, il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire che l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi, sia dei valori ambientali e paesaggistici, delle esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, delle esigenze economico-sociali della comunità radicata sul territorio. L’esercizio del potere di pianificazione, in tale prospettiva, deve tenere conto, in definitiva, del modello di sviluppo che s’intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione del futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio.
La nuova visione prospettica della disciplina pianificatoria non può non riflettersi anche a livello dei contenuti dello strumento urbanistico comunale, avendo la giurisprudenza amministrativa da tempo ritenuto che “il potere di gestione in chiave urbanistica del territorio, proprio perché comprende tra i suoi fini anche la protezione dell’ambiente, quale fattore condizionante le relative scelte può legittimamente indirizzarsi verso valutazioni discrezionali che privilegino la qualità della vita, anche in parti del territorio comprensive di beni immobili non aventi le caratteristiche intrinseche e peculiari che ne comportino livelli sovraordinati di tutela”(Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre1998, n. 1734). In tale ordine di idee, è stato ulteriormente osservato che “i limiti imposti alla proprietà privata attraverso destinazioni d’uso che garantiscano la salvaguardia ambientale non devono essere valutati in sede giurisdizionale alla luce delle specifiche leggi che garantiscono la tutela del paesaggio, ma sulla base dei criteri propri della materia urbanistica”, per cui “l’esercizio del potere di conformazione urbanistica è compatibile con la tutela paesistica, trattandosi di forme complementari di protezione preordinate a curare con diversi strumenti distinti interessi pubblici con la conseguenza che pur non sussistendo alcuna fungibilità tra le legislazioni di settore, le stesse possono riferirsi contestualmente allo stesso oggetto”(Cons. Stato, sez. IV, n.1734 cit.; id. 6 marzo 1998, n.382).
Da tale innovativa impostazione discende che l’ambito di discrezionalità del comune nel determinare le scelte che incidono sull’assetto del territorio comunale è quindi molto ampio sia nel quid che nel quomodo.
È oramai pacifico in giurisprudenza che, nell’ambito di tale discrezionalità l’amministrazione comunale, qualora il comune avvii un procedimento teso alla redazione di un nuovo piano regolatore generale, o di una sua variante generale, ha la potestà di ripianificare quelle parti del territorio le cui destinazioni d’uso vigenti non sembrano essere più consone alle nuove scelte. Ciò può riguardare simmetricamente sia la retrocessione delle aree edificabili ad aree agricole sia quello di riconoscere a queste ultime la destinazione edificatoria.
Si tratta in questi casi dell’esplicazione della discrezionalità amministrativa che permette ai comuni di pianificare il territorio anche in senso restrittivo rispetto al passato, con i limiti della razionalità e dell’insussistenza di pregressi affidamenti qualificati a favore della proprietà.
In coerenza con tali coordinate di fondo della funzione di pianificazione, modernamente intesa, il Comune ha ripianificato quelle parti del territorio le cui destinazioni d’uso non sembravano essere più consone alle nuove scelte dell’amministrazione.
Più in particolare, la nuova disciplina pianificatoria del Comune, con la variante di che trattasi, ha inteso adeguarsi al diverso, sopra delineato,orientamento che conferisce allo strumento urbanistico il ruolo di migliorare la conformazione del territorio anche alla luce di interessi diversi da quelli attinenti alle potenzialità edificatorie, attribuendo una valenza di rilievo alla conservazione di zone di pregio paesistico, in particolare scongiurando ulteriori edificazioni suscettibili di conculcare le zone litoranee.
Questi ultimi interessi (un tempo necessariamente “differenziati” rispetto all’oggetto della funzione di pianificazione) sono oggi passibili di essere inglobati nel nuovo paradigma della funzione pianificatoria e possono legittimamente, come è accaduto nel caso di specie, prevalere, all’esito del consueto bilanciamento sotteso ad ogni esercizio dell’attività discrezionale, sulle le capacità edificatorie in precedenza riconosciute a fondi astrattamente edificabili.
Questo è proprio quello che è accaduto con la variante di salvaguardia in esame.
La relativa motivazione evidenzia, infatti, la volontà del Comune di salvaguardare le ultime manifestazioni della preesistente pineta, in quanto espressione, paesaggisticamente qualificante, del promontorio che caratterizzatale tratto della costa ligure.
A tal riguardo, il consiglio comunale ha considerato: che i fondi interessati sono posti nella fascia di rispetto compresa nei trecento metri dalla linea del bagnasciuga; che la loro edificazione avrebbe comportato la definitiva perdita di una testimonianza paesistica che si riteneva di dover promuovere; che l’edificazione sui due fondi comporterebbe l’accentuazione del tratto disordinato palesato dall’urbanizzazione del sito, con conseguente necessità di rimodernare i servizi esistenti in zona, atteso il tempo trascorso dalla loro installazione e l’aumento dei loro fruitori.
La legittimità della variante in esame trae, peraltro, argomento dal costante indirizzo della giurisprudenza del Consiglio di Stato, a mente del quale, al fine di sorreggere, sul piano motivazionale, nuove previsioni pianificatorie, non occorre indicare particolari motivazioni se non quelle espresse in via generale nella relazione al piano urbanistico.
E ciò alla luce del fatto che nel caso di che trattasi non sussistevano pregressi affidamenti qualificati in favore dell’appellante.
Sotto tale profilo, va infatti evidenziato che la giurisprudenza del Consiglio di Stato, con orientamento del tutto consolidato, afferma il principio di diritto per cui un particolare sforzo motivazionale a sostegno di nuove previsioni pianificatorie è imposto solo nel caso di pregressi affidamenti qualificati del privato, rinvenibili, in particolari, in circoscritte situazioni, quali l’esistenza di una preesistente convenzione di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, ovvero in presenza di aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione (ex multis, Cons. Stato, sez. IV,14 maggio2015, n. 2453; id. sez. IV, 12 maggio 2016, n. 1907).
Le riflessioni di autorevole dottrina sulle tutele differenziate hanno avuto certamente il merito di evidenziare che la gestione globale del territorio, tramite il potere di piano, può essere messa in crisi dalle pianificazioni (piani dei parchi, piani di bacino ecc.), differenziate (c.d. invarianti urbanistiche) volte a disciplinare specifici interessi insistenti nel territorio.
Oggi, alla stregua della moderna concezione della funzione urbanistica in precedenza tratteggiata, può, nondimeno, fondatamente affermarsi che anche i titolari del potere urbanistico possono oramai concorrere alla tutela (aggiuntiva) di tali ulteriori interessi.
Tale cambio di paradigma è peraltro rispettoso del principio di legalità, trovando fondamento nell’art. 7, comma 2, n. 5 della legge urbanistica n. 1150 del 1942, a mente del quale il piano regolatore deve indicare i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesaggistico.
Dall’accoglimento delle sopra enunciate premesse, in punto di nuova concezione della funzione urbanistica, consegue, pertanto, che la tutela di questi ulteriori interessi, oggi, non deve più necessariamente essere imposta alla pianificazione urbanistica da vincoli eteronomi, potendo essere, come avvenuto nel caso in esame, espressione della discrezionalità pianificatoria del comune.
Il Consiglio ricorda altresì che, secondo un costante indirizzo interpretativo (cfr. Cons.St., sez. IV, 2839 del 21 marzo 2023; sez. II, 6 aprile 2021, n. 2777; sez. IV, 13aprile 2016, n. 1434; cfr. sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4200), pure in presenza di una zona (in tesi) già urbanizzata, la necessità dello strumento attuativo è esclusa solo nei casi nei quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo (ad es. il lotto residuale ed intercluso in area completamente urbanizzata), ma non anche nell’ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all’abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di completamento della zona (ad esempio, completando il sistema della viabilità secondaria nella zona o integrando l’urbanizzazione esistente per garantire il rispetto degli standard minimi per spazi e servizi pubblici e le condizioni per l’armonico collegamento con le zone contigue, già asservite all’edificazione).
L’esigenza di un piano di ricucitura del tessuto urbano, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate. Per escludere la necessità della pianificazione attuativa è necessario, pertanto, valutare la sufficienza dell’urbanizzazione esistente, considerando a tal fine un rapporto di proporzionalità fra i bisogni degli abitanti insediati con quelli ancora da insediare nella zona con la previsione e la quantità e qualità degli impianti urbanizzati già disponibili destinati a soddisfarli.
Applicando tali coordinate al caso di specie, il Consiglio evidenzia che, a supporto del mutamento urbanistico contestato, l’amministrazione ha rilevato la necessità di rivedere la situazione dei servizi a standard realizzati anni prima.
Da ciò si desume che, contrariamente a quanto ritenuto nell’atto di appello, nel caso di specie l’amministrazione ha dubitato della residua capacità dei servizi a standard di far fronte alle esigenze derivanti dal potenziale implementato del carico urbanistico.
Infine, il Consiglio evidenzia che è oramai superata la tradizionale visione gerarchica dei piani, essendosi oramai largamente affermato, in sua vece, il criterio della competenza.
L’ordinamento urbanistico ligure prevede, infatti, un sistema di pianificazione a due stadi, imperniato sul binomio piano strutturale-piano operativo. Questa articolazione del piano comunale consente di non adottare decisioni puntuali immediate e di modulare progressivamente la prescrittività delle scelte urbanistiche a mano a mano che maturano le condizioni propizie alla relativa (concreta) realizzazione. Il piano operativo prende il posto del precedente piano attuativo e contiene, come avvenuto nella specie, prescrizioni conformative della proprietà.
Dal che discende la legittimità della scelta di procedere, nel caso di specie, con uno strumento attuativo unitario.
In conclusione, per le suesposte ragioni, il Consiglio ha respinto l’appello.