La dichiarazione di fine lavori, di Fabio Cusano

Con sentenza 8 agosto 2023, n. 7644, il Consiglio di Stato, sez. VI, ha ribadito che la dichiarazione di ultimazione dei lavori non assume rilevanza probatoria in ordine all’asserita coincidenza del fabbricato realizzato in origine con quello rappresentato nel progetto approvato. Ed infatti grava sull’appellante l’onere della prova dell’originaria consistenza dell’immobile, senza possibilità alcuna di inversione. Inoltre, Ai sensi degli artt. 31 e 32, D.P.R. 380/2001, si verificano difformità totali del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera. Infine, è esclusa l’efficacia probatoria delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o delle semplici dichiarazioni rese da terzi, in quanto non suscettibili di essere verificate. Ed infatti la mera dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà non possiede alcun valore probatorio e può, al più, costituire soltanto un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l’attività istruttoria dell’Amministrazione. Inoltre, in presenza di una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l’ultimazione dell’edificio entro la data fissata dalla legge, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull’epoca dell’abuso.

Come osservato correttamente dal TAR, il provvedimento impugnato ha rilevato molteplici difformità dell’opera realizzata rispetto al permesso di costruire.

Dalla descrizione delle difformità è evidente la riconducibilità degli abusi in considerazione alla categoria delle difformità totali rispetto a quanto autorizzato. La giurisprudenza amministrativa ha infatti chiarito che “ai sensi degli artt. 31 e 32, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, si verificano difformità totali del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera” (Consiglio di Stato, sez. IV, 10/07/2013, n. 3676).

In ordine alla presunta realizzazione delle descritte difformità solo successivamente all’ultimazione dei lavori, l’amministrazione comunale si è limitata a prendere atto della dichiarazione del direttore dei lavori e del committente secondo cui i lavori sarebbero stati ultimati alla data del 14.12.2006, senza con ciò giudicare l’esattezza dell’opera realizzata alla data indicata e la reale consistenza e le caratteristiche della stessa.

In particolare, come correttamente assunto dalla difesa comunale, la dichiarazione di ultimazione dei lavori non assume rilevanza probatoria in ordine all’asserita coincidenza del fabbricato realizzato in origine con quello rappresentato nel progetto approvato. La giurisprudenza ha più volte ribadito che grava sull’appellante l’onere della prova dell’originaria consistenza dell’immobile, senza possibilità alcuna di inversione (Cons. Stato, sez. VI, n. 2363/2014; CGARS, n. 680/2013).

A tal proposito, deve essere esclusa l’efficacia probatoria delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o delle semplici dichiarazioni rese da terzi, in quanto non suscettibili di essere verificate (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 3676/2023). Si è infatti osservato che la mera “dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà non è applicabile nell’ambito del processo amministrativo, in quanto la stessa, sostanziandosi in un mezzo surrettizio per introdurre la prova testimoniale, non possiede alcun valore probatorio e può, al più, costituire soltanto un mero indizio che, in mancanza di altri elementi gravi, precisi e concordanti, non è idoneo a scalfire l’attività istruttoria dell’Amministrazione” (ex multis Cons. Stato, sez. VI, n. 3853/2021). Si è inoltre osservato che “in presenza di una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ove non si riscontrino elementi dai quali risulti univocamente l’ultimazione dell’edificio entro la data fissata dalla legge, non si può ritenere raggiunta la prova circa la data certa di ultimazione dei lavori, atteso che la detta dichiarazione di notorietà non può assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull’epoca dell’abuso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 giugno 2019, n. 3696). Pertanto, in assenza di ogni altro elemento dal quale risulti in modo univoco la data di ultimazione dei lavori entro il 31.12.1993 […] la dichiarazione presentata non ha alcun valore probatorio, neppure indiziario” (Cons. Stato, sez. II, n. 7198/2020).

Nel caso di specie, la prova dell’originaria consistenza dell’immobile e della realizzazione delle difformità solo in un momento successivo alla sua ultimazione non è stata pertanto fornita, sia per l’inidoneità della dichiarazione sostitutiva invocata dall’appellante, sia per l’assenza di qualsiasi altro documento idoneo a fornire un principio di prova al riguardo.

Non può condurre ad una differente soluzione quanto dedotto nella memoria difensiva dell’appellante, secondo cui il decorso del termine di ventisette mesi tra la dichiarazione considerata e le verifiche degli accertatori comunali contrasterebbe con i principi di “certezza del diritto”, di “certezza delle situazioni giuridiche soggettive” e di “certezza dell’attività amministrativa”.

Il Consiglio ha infatti costantemente affermato che l’abuso edilizio ha natura di illecito permanente; pertanto, esso si pone in perdurante contrasto con le norme amministrative sino a quando non viene ripristinato lo stato dei luoghi (Cons. Stato, sez. VI, n. 204/2022), tanto che “la repressione degli illeciti urbanistico edilizi costituisce attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della commissione dell’abuso, in ragione del carattere permanente rinvenibile nell’illecito edilizio e nell’interesse pubblico al ripristino dell’ordine violato, il quale è prevalente sull’aspirazione del privato al mantenimento dell’opera” (Cons. Stato, sez. II, n. 5970/2020).

Quanto all’asserita violazione del principio di proporzionalità e alla possibilità di limitare la sanzione alla conformazione delle opere al titolo edilizio, anziché ordinare la completa demolizione dell’immobile, il T.A.R. ha correttamente affermato che l’impatto urbanistico di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve essere valutato globalmente, dal momento che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l’effettiva portata dell’illegittima alterazione dello stato dei luoghi.

Occorre infatti dare seguito all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la P.A. deve ordinare la demolizione nel caso di interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire se comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, volumetrie o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso (Cons. Stato, sez. VI, n. 4662/2020). Spetta all’amministrazione, in particolare, accertare la totale o parziale difformità delle opere realizzate rispetto a quelle legittimamene assentite, sicché non può affermarsi che la demolizione debba essere sempre ordinata in parte qua, ossia in relazione alle opere eccedenti rispetto a quanto legittimamente assentito, ciò che risulta in contrasto con quanto disposto dagli artt. 31 e 34 del DPR n. 380/2001.

Nella fattispecie in esame è emerso che le opere abusive realizzate tendevano alla realizzazione di un’opera completamente diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione e strutturazione (cfr. ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, n. 104/2020), sicché l’ordine di demolizione risulta stato correttamente adottato (Cons. Stato, sez. VI, n. 1029/2020).

Ancora, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “l’art. 34 del DPR 380/200, che prevede la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria in sostituzione a quella demolitoria, è applicabile solo agli abusi meno gravi riferibili all’ipotesi della parziale difformità dal titolo abilitativo (in ragione del minor pregiudizio causato all’interesse urbanistico) e dell’annullamento del permesso di costruire (in ragione della tutela dell’affidamento che il privato ha posto nel titolo edilizio a suo tempo rilasciato e, poi, fatto oggetto di autotutela e della circostanza che l’opera è stata costruita comunque sulla base di un provvedimento abilitativo). Viceversa, con riferimento alle ipotesi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, la sanzione della demolizione e della riduzione in pristino rimane l’unica applicabile, quale strumento per garantire l’equilibrio urbanistico violato” (Cons. Stato, sez. VI, n. 2773/2022).

Non sussiste dunque la dedotta violazione del principio di proporzionalità, poiché, per quanto detto, gli abusi rilevati configurano difformità totali rispetto a quanto autorizzato e l’appellante non ha dimostrato la natura autonoma di ciascun intervento contestato tale da legittimare la conformazione parziale delle opere e la richiesta di sanatoria di quelle compatibili con l’originaria tipologia.

A questo riguardo, va aggiunto altresì che la P.A. non è obbligata a valutare la sanabilità delle opere abusive prima di adottare l’ordinanza di demolizione (ex multis Cons. Stato, sez. VI, n. 1432/2021). In assenza di previa istanza ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, la pretesa sanabilità degli abusi accertati non avrebbe potuto precludere l’adozione della misura repressivo-ripristinatoria. L’ordinanza di demolizione emessa non necessitava, infatti, di valutazione ex officio in ordine alla conformità o meno delle opere abusive agli strumenti urbanistici, posto che, una volta accertata l’esecuzione di interventi privi di permesso di costruire, ne doveva essere disposta la rimozione, indipendentemente dalla loro eventuale conformità allo strumento urbanistico e dalla loro ipotetica sanabilità.

La non sanabilità delle opere abusive, infatti, a fortiori legittima gli interventi repressivi degli abusi edilizi realizzati e certo non può precludere il ripristino dello stato dei luoghi necessario per assicurare il regolare assetto del territorio.

Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello è stato respinto.