La costruzione del piano paesaggistico

di 21 Novembre 2005 Incontri


Relazione del Prof. Paolo Urbani al VII Convegno Nazionale AIDU – "Urbanistica e Paesaggio"

Parma – 18 Novembre 2005

1. Paesaggio e urbanistica: le prospettive di un nuovo dialogo tra fonti normative


    La disciplina introdotta dal D.legls. 42/2004 in materia di paesaggio costituisce un punto di arrivo assai importante nel dibattito che dura ormai da anni circa il rapporto esistente tra l’urbanistica (disciplina delle trasformazioni) e le tutele differenziate finalizzate alla tutela di particolari interessi pubblici o altresì dette parallele perché le si è sempre considerate “affiancate” alla disciplina d’uso dei suoli.

    Direi anzi che finalmente il legislatore delegato almeno nel rapporto tra urbanistica e paesaggio ha attuato quell’auspicio sollecitato più volte da Giannini negli anni ’80 di una compenetrazione sempre più stretta tra le due discipline senza peraltro ricorrere alla fagocitazione di una delle due discipline nell’altra.

    Senza contraddire l’orientamento consolidato della Corte costituzionale che più volte nell’arco degli ultimi vent’anni del secolo scorso (239/82, 359/85, 151/86) ha teso a ribadire la differenziazione delle discipline in rapporto ai diversi interessi tutelati – generali l’urbanistica specifici il paesaggio – vista peraltro più in funzione di garanzia di tali interessi che in funzione del risultato – non possiamo non rilevare che con le norme del codice Urbani – segnatamente gli artt.143,145, e 156 – si è oramai avviata quella necessaria osmosi tra gli atti pianificatori che l’art.57 del d.legsl. 112/98 aveva solo suggerito.

    Si potrebbe peraltro affermare, ad una prima impressione, che nella “lotta” intestina per la supremazia della titolarità nella conformazione dei beni sul territorio l’abbia “spuntata” la normazione sul paesaggio a danno della panurbanistica. In altre parole si potrebbe attribuire al paesaggio la posizione superior stabat lupus conferenndo così al primo una collocazione sovraordinata rispetto alle discipline d’uso del territorio, ragionando ancora in termini di vincoli alla proprietà e di mero adeguamento degli strumenti urbanistici alle scelte di conservazione per determinate categorie di beni detti “paesaggistici”. In realtà, pur se le tecniche di regolazione fanno ancora ricorso a tali istituti, un’impostazione di questo tipo non farebbe giustizia della rivoluzione copernicana[1] apportata dalla nuova disciplina nella determinazione degli assetti del territorio.

    Un’indagine più approfondita sui contenuti dell’art.143 ci porta a dire che la disciplina del paesaggio s’inserisce oramai a pieno titolo nel concetto di origine comunitaria – e la convenzione europea sul paesaggio lo conferma[2] – di sostenibilità territoriale che viene declinato sotto svariati profili in termini di riproducibilità delle risorse – idriche, del suolo, dell’aria – o di verifica preventiva della compatibilità degli usi dei suoli con la tutela della salute e la qualità della vita delle popolazioni insediate. La disciplina del paesaggio entra così a pieno titolo nel concetto particolare di sostenibilità “culturale” per riprendere quella definizione categoriale di gianniana memoria e della commissione Franceschini che ricomprendeva il paesaggio nell’ambito dei beni culturali. In breve, al termine della parabola normativa siamo tornati a distanza di più di trent’anni alla completa rivalutazione della grande intuizione di un maestro come Alberto Predieri che nella voce “paesaggio” dell’Enciclopedia del Diritto parlò per la prima volta, inascoltato allora, di paesaggio come “forma del territorio” superando così la questione ancor oggi assai riduttiva dei vincoli specifici solo su particolari beni riconosciuti per il loro valore intrinseco come “beni paesaggistici” oggetto di specifica ed isolata tutela, per estendere la “questione paesaggistica” a tutto il territorio.

    La disciplina del paesaggio, in altre parole, s’inserisce in quella tendenza dell’ordinamento specie regionale – cito per tutti la l.r. Toscana n.1/2005 – che attribuisce ai profili conoscitivi dello “stato” dei luoghi e della riconoscibilità delle risorse pubbliche sul territorio il prodromo di qualunque azione di pianificazione tesa a dare adeguato assetto alle proprietà. La conoscenza è presupposto per la definizione dello “statuto” dei luoghi che costituisce l’invariante complessiva di qualunque trasformazione sostenibile del territorio. Definito tale statuto l’urbanistica si riduce ad una mera tecnica di regolazione degli usi dei suoli, in rapporto alle invarianti fissate a monte.

    Il paesaggio allora – come peraltro tutte le discipline differenziate – non esprime una sovraordinazione degli interessi cui si riconnette la tutela imponendosi sull’assetto del territorio già pianificato – anche se questo in fase transitoria è l’effetto di risultato – ma esprime appunto la “forma” del territorio” che costituisce quindi un prius rispetto ad un posterius ovvero la trasformabilità delle aree.

    Peraltro la Costituzione non contempla una gerarchia degli interessi pubblici: è la legislazione ordinaria che ha previsto ad es. per le discipline del territorio il prevalere di determinati interessi pubblici perciò sovraordinati ad altri soccombenti. Secondo Guido Corso la Costituzione è frutto di un compromesso istituzionale tra le diverse forze politiche che hanno concorso alla sua formulazione: se si ritenesse esistere una gerarchia tra i vari interessi pubblici di rango costituzionale è come se si rompesse il patto costituzionale.

    2. La costruzione del piano paesaggistico ed i suoi effetti sul territorio.

      Ho parlato di “rivoluzione copernicana” il che m’impone di motivare adeguatamente tale affermazione. Proverò dunque ad individuarne i tratti salienti analizzando la costruzione del piano paesaggistico nonché i suoi effetti sulle proprietà, sui piani urbanistici, sull’azione delle amministrazioni locali nel loro ruolo di governo del territorio.

      a) lo strumento del piano paesistico ed i suoi contenuti

      Tra i primi vi è quello della previsione del piano paesaggistico come modalità ordinaria e necessaria per la salvaguardia dei valori paesaggistici che si estende a tutto il territorio regionale, senza alcuna deroga o facoltatività rispetto ai beni presenti sul territorio: l’art. 143 1 co. parla infatti di “analisi delle caratteristiche naturali e storiche”, il 3 co. di ricognizione dell’intero territorio, attraverso “l’analisi delle sue caratteristiche storiche, naturali ed estetiche e delle loro interrelazioni” a dimostrazione che tutte le preesistenze e le presenze territoriali naturali o artificiali, frutto dell’opera dell’uomo anche sotto il profilo delle tipologie architettoniche, nonché delle tecniche e dei materiali costruttivi, (2 co. lett.a) sono oggetto di indagine conoscitiva e di attività di rilevazione cartografica e della loro valutazione in termini di individuazione dei valori paesaggistici da tutelare, recuperare, riqualificare e valorizzare.

      Proposizioni normative di questo tenore non possono trovare spazio altro che in atto di pianificazione ovvero per riprendere Giannini nella sua voce “Pianificazione” dell’ Enciclopedia del diritto in “una ordinata spaziale e temporale a fini di risultato”, ove questa espressione di sintesi non potrebbe meglio definire la finalità di qualunque piano con effetti conformativi del territorio e delle proprietà, quella cioè di essere attività ordinata cioè razionale e duratura nel tempo su un ambito territoriale ben delimitato – il territorio regionale – strumentale e non finalistica ovvero destinata a precostituire le condizioni della trasformabilità o meno del territorio considerato.

      D’altronde è un fatto consolidato che tutte le discipline differenziate si ordinano per piani i cui contenuti possono essere diversi e lo spettro degli interessi da salvaguardare o cui dare adeguata soddisfazione possono essere distinti o eterogenei ma tutti con il medesimo fine ultimo: quello della conformazione dei suoli diretta o indiretta. Giannini stesso nella sua “Introduzione sulla potestà conformativa del territorio” nel 1988 afferma che questo è il fine ultimo della pianificazione con effetti sul territorio.

      E’ questa una tendenza che porta a dire che è nei piani di settore o specializzati – siano essi di bacino, dei parchi, paesaggistico – che dobbiamo ricercare la disciplina di tutela risultando residuale (ma non eliminabile) il ricorso alla disciplina puntuale come ad es. quella dei cosiddetti vincoli idrogeologici o quella delle dichiarazioni di notevole interesse pubblico oggetto di singoli provvedimenti amministrativi al di fuori degli atti di pianificazione.

      Peraltro, come tutti i piani – in primis quelli urbanistici da cui origina – anche in quello paesaggistico è accolto il principio della zonizzazione propria della concezione razionalistica del piano urbanistico, che sembra essere l’unica tecnica “vincente” per dare ospitalità ad una disciplina “ordinata”. Il concetto di ambito territoriale omogeneo riecheggia la zona omogenea del PRG, come le zone ad alto, medio o basso rischio idrogeologico o franoso dei piani di bacino o gli ambiti di tutela integrale o relativa dei parchi naturali.

      L’individuazione degli ambiti – che qui potremmo chiamare di paesaggio – è il risultato di un processo cognitivo assai intenso che, combinando sul territorio la lettura degli assetti ambientali, storico-culturali ed insediativi, determina per ciascuno di essi l’elemento di predominanza del valore paesaggistico riconosciuto – i cosiddetti livelli di valore paesaggistico di cui al comma 2 dell’art.143 – attribuendo in conseguenza, al territorio considerato, specifici obiettivi di qualità paesaggistica. Obiettivi che con definizione di sintesi possiamo riassumere nei concetti di tutela, recupero, riqualificazione, valorizzazione. Non quindi un piano che pone al centro solo la categoria del vincolo (che costituisce spesso il contenuto minimo della disposizione dell’atto pianificatorio) ma di un piano che preso atto delle invarianti paesaggistiche da tutelare determina direttamente obiettivi e mira a risultati qualitativi. Ecco il perché del 3 co che afferma che il piano ha contenuto descrittivo, prescrittivo e propositivo: queste tre fasi in primis istruttorie poi convergenti nelle disposizioni del piano, sono comunque tutte finalizzate ad un obiettivo dinamico o meglio ad un facere sia da parte delle amministrazioni competenti per territorio (in specie province, comuni ma anche altri soggetti pubblici tra cui le autorità delle aree protette) sia da parte dei privati.

      Si potrebbe osservare che ogni piano ha contenuti conoscitivi e prescrittivi. Qui però l’elemento descrittivo diviene centrale poiché da questo non deriva solo l’aspetto prescrittivo ma soprattutto quello propositivo, che comporta azioni, iniziative, in breve politiche del paesaggio (conservative, di recupero e valorizzazione).

      Ma l’analisi conoscitiva, da cui scaturisce poi la disciplina, riguarda a 360 gradi le aree o gli immobili aventi valore ambientale e naturalistico o storico-culturale il che comporta necessariamente una classificazione delle presenze e delle preesistenze naturali e artificiali come abbiamo detto, pena l’impossibilità di dettare norme che abbiamo contenuto certo ai fini della loro applicazione sul territorio sia da parte dei soggetti pubblici sia da parte dei soggetti privati destinatari delle disposizioni di piano.

      Qui a mio giudizio sta l’enorme lavoro di lettura del territorio regionale nelle sue variegate e differenziate componenti paesaggistiche. Indagine che comporta uno studio assai dettagliato ed analitico di quelle che possono essere considerate le cosiddette “tipologie di paesaggio” articolate sul territorio, che costituiscono la trama ed il tessuto connettivo dei diversi ambiti di paesaggio. Esemplificativamente sotto il profilo naturalistico i boschi, le falesie, le grotte, gli alberi monumentali, le aree di specifico interesse naturalistico, le aree protette, quelle d’importanza comunitaria (SIC e ZTL), i territori costieri, le dune, le zone umide, i territori con specifica vocazione agricola, oppure sotto il profilo storico culturale le aree, i manufatti e gli edifici d’interesse storico-culturale (opifici, tonnare, le zone minerarie e i villaggi minerari, gli edifici di archeologia industriale, gli insediamenti rurali e i centri rurali, le architetture religiose, l’architettura storica, i nuraghi, gli orti botanici, i monumenti commemorativi di eventi storici, le ville, i giardini, le trame e i manufatti del paesaggio silvo-pastorale, i centri storici etc.), sotto il profilo insediativo l’edificato urbano e quello di frangia, quello in zona agricola, gli insediamenti produttivi o turistici, i centri di antica formazione o quelli degli anni cinquanta come quelli di più recente formazione, gli insediamenti complessi etc.

      Tutti queste tipologie di paesaggio in base alle loro caratteristiche e al valore paesaggistico riconosciutogli concorrono, come abbiamo detto, a comporre gli elementi pregnanti degli ambiti di paesaggio ai quali si applica la conseguente disciplina generale e specifica per ogni categoria di paesaggio in essi ricompresa.

      L’individuazione delle categorie di paesaggio può essere cartograficamente rilevata – e questo rinvia alla scala di piano utilizzata, con effetti immediati o mediati sul territorio quanto più si scenda di scala – o astratta stabilendo le caratteristiche qualificanti della categoria ai fini della loro riconoscibilità e rinviando poi alle amministrazioni territoriali il compito della loro individuazione analitica sul territorio. Ad es. gli alberi secolari, gli edifici di archeologia industriale, o l’edificato degli anni ’50.

      In entrambi i casi comunque il Codice prevede che si detti una disciplina d’uso che può variare dalla conservazione, alla trasformazione in base alla compatibilità con il valore paesaggistico tutelato, al recupero, alla valorizzazione. Di fronte ad un così variegato complesso di oggetti paesaggistici la norma del piano non può esprimersi sempre in un comando o in un vincolo assoluto, potendosi immaginare un menù di soluzioni giuridiche possibili che vanno dall’apposizione di prescrizioni conformative del territorio o della proprietà, alle direttive alle amministrazioni di riferimento, agli indirizzi diretti sia ai poteri pubblici che ai privati, all’individuazione di criteri di gestione o delle misure da adottare.

      Nell’individuazione di questi precetti più o meno cogenti, non si esaurisce però la disciplina del piano poiché, come abbiamo visto, gli obiettivi di qualità paesaggistica comprendono anche quelle che abbiamo già chiamato le “politiche” del paesaggio che non sono altro che le azioni dei pubblici poteri finalizzate al conseguimento dei fini prefissati e che possono esprimersi in programmi, piani di dettaglio di carattere attuativo dei precetti o degli indirizzi, in interventi mirati di ripristino o di riqualificazione. Politiche che coinvolgono o possono coinvolgere a vario titolo la stessa regione, gli enti locali, le associazioni ambientalistiche, i privati proprietari come i produttori, tutti coinvolti nella salvaguardia e tutela dei valori paesaggistici naturali o artificiali al fine di tramandare i valori di civiltà alle generazioni future.

      Come si vede da queste pur scarne enunciazioni ci dobbiamo rendere conto che la formazione del piano ma soprattutto la sua attuazione diviene un grande evento culturale che certamente ha l‘effetto di conformare il territorio ma il cui obiettivo è la riappropriazione di valori perduti od obliterati.

      b) dai beni paesaggistici agli altri oggetti disciplinati dal piano. Il regime della tutela

      Finora non ho parlato di beni paesaggistici in senso stretto – di quelle categorie di beni cioè – che fin dalla legge del ’39 hanno costituito e costituiscono oggetto di disciplina particolare e che sostanzialmente fino ad ora hanno costituito gli unici oggetti di tutela e conservazione su cui la legislazione paesaggistica ha concentrato la propria attenzione: la legge 1497/39 attraverso i provvedimenti amministrativi relativi alla dichiarazione di notevole interesse pubblico delle bellezze naturali individue o d’insieme, la legge 431/85 con i beni ex lege, cui oggi si aggiungono a norma dell’art.143 3 co lett.h) altre categorie d’immobili o di aree da sottoporre a specifiche misure di salvaguardia ed utilizzazione, sulla base delle scelte discrezionalmente motivate regionali. Per essi sappiamo che il regime comporta oltre ad una specifica disciplina di tutela, anche la subordinazione di ogni modificazione all’autorizzazione paesaggistica. Anche questi beni particolari sono ricompresi negli ambiti territoriali del piano paesaggistico mediante azione di recepimento (specie per le notevoli dichiarazioni d’interesse pubblico) o attraverso autonomo riconoscimento da parte regionale come beni di particolare pregio territoriale naturale o artificiale, o di specifica disciplina come per i beni ex lege. I beni paesaggistici costituiscono, dunque, uno degli oggetti di tutela particolare ma non esauriscono il catalogo dei beni che pur non ottenendo il riconoscimento della qualità di bene paesaggistico in senso stretto concorrono comunque a comporre il mosaico delle tutele. In altre parole, anche la lunga serie di oggetti che prima ho elencato, e la loro conseguente riconoscibilità sul territorio, riceve dal piano una disciplina che non è molto diversa da quella dei beni paesaggistici in senso stretto. Alcune di quelle tipologie di paesaggio, a garanzia di una maggiore ed immediata tutela, possono rientrare nella categoria beni paesaggistici che qui oggi si potrebbero chiamare individui o d’insieme mutuando il termine dalla legge del ’39: ad es. la categoria dei territori costieri, come quella delle zone umide, o i boschi e le foreste. In entrambi i casi, comunque, il piano conforma tali beni e ne prevede una disciplina d’uso. La disciplina prevista dall’art.143 in sostanza attribuisce al piano la potestà di individuare tutti i possibili oggetti di tutela paesaggistica sotto il profilo storico-culturale e naturalistico graduandone come abbiamo visto la conformazione non sempre attraverso il vincolo assoluto ma ricorrendo anche ad indirizzi e direttive. Tuttavia come si evince dalla lettura combinata dell’art.143 con l’art.145 tutte le disposizioni del piano prevalgono direttamente o indirettamente[3] sulla pianificazione sottordinata ed “i limiti alla proprietà derivanti da tali previsioni non sono oggetto d’indennizzo”.

      In che cosa si differenzia allora la disciplina dei beni paesaggistici “doc” da quella degli altri oggetti di tutela del piano? Alcuni sostengono che la differenza sta nel regime autorizzatorio obbligatorio per i primi non previsto per i secondi. Ad una attenta lettura delle norme non credo che nemmeno questa sia una interpretazione possibile poiché lo stesso art.146 afferma che i proprietari, detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree oggetto degli atti e provvedimenti di cui al 157,138,141 ovvero dei provvedimenti amministrativi di tutela, o tutelati ai sensi del 142, ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico hanno l’obbligo di richiedere la preventiva autorizzazione i progetti di opere che intendano eseguire.

      La conferma indiretta di quanto ho testè affermato sta nel regime derogatorio del comma 5 dell’art.143 che prevede alla lett.b) la possibilità per le aree che non sono oggetto di provvedimenti amministrativi puntuali o della disciplina dell’art.142 – per le quali resta ferma il regime autorizzatorio – che l’autorizzazione paesaggistica sia assorbita nel procedimento inerente il rilascio del titolo edilizio confermando quindi che anche “altri” oggetti del piano che non rientrino nella categoria tradizionale dei beni paesaggistici possono richiedere per la loro trasformabilità, in base alle scelte effettuate dal piano, il rinvio al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. Si tratta di una disposizione circondata, come sappiamo, di cautele e dall’esperimento di un procedimento complesso stato-regione che si fa carico proprio di prevedere un’uscita di sicurezza da un contesto troppo pervasivo che il piano dovesse prevedere circa i beni da sottoporre ad autorizzazione paesaggistica. Ma – come dire – l’eccezione conferma la regola.

      Da queste riflessioni traggo una considerazione: che ragionare ancora con le categorie dei beni paesaggistici può essere fuorviante quando ci imbattiamo nel contenuto del piano paesaggistico; certamente il piano incontra i limiti oggettivi dei vincoli apposti da pregressi provvedimenti amministrativi puntuali e dal rispetto delle categorie dell’142: questi in sostanza costituiscono lo zoccolo duro del piano o altrimenti detto il requisito minimo della tutela paesaggistica, ma nulla esclude che l’amministrazione regionale sulla base delle ricognizioni e dell’attività di conoscenza non possa allargare lo “sguardo” ad altri oggetti di tutela, prevedendo anche per questi – ai fini di una maggiore salvaguardia – una disciplina che incida direttamente sulla proprietà, soggetta a controllo preventivo paesaggistico.

      Si tratterà a questo punto di rivedere, se il ricorso al controllo preventivo paesaggistico amplia il suo raggio di applicazione sul territorio – a parte l’entrata in vigore del nuovo procedimento previsto dall’art. 146 – tutto il sistema organizzatorio previsto nelle leggi regionali per il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche sia a livello regionale sia quello dell’insoddisfacente delega agli enti locali, oggi rivisto attraverso l’istituzione della autonoma Commissione per il paesaggio a livello comunale, per adeguarla al nuovo sistema di tutela.

      c) il rapporto tra piano paesistico e piani urbanistici

      E vengo all’ultimo tratto saliente della nuova disciplina del paesaggio che trova ormai il suo centro nel piano paesaggistico e che costituisce anche qui un elemento di forte innovazione rispetto al passato. Quello cioè del recepimento della disciplina paesaggistica nei piani urbanistici dei comuni ma anche delle province.

      Per fermarci ai comuni, la disciplina vigente ha sempre inteso considerare compito principale dei comuni quello di adeguarsi in toto alle disposizioni prevalenti del piano paesaggistico. Si tratta di mero recepimento direi di tipo “passivo” costituendosi oltre che un vincolo alle proprietà anche un limite esterno alla pianificazione urbanistica: il codice all’art.145 co. 2,3,4 conferma la disciplina e ne da anche adeguata sistemazione. Tuttavia, da quanto abbiamo detto, si possono fare due considerazioni che mostrano un diverso atteggiarsi del rapporto tra piano paesistico e strumenti urbanistici e che comportano un facere sia delle amministrazioni locali sia dei privati.

      La prima, che le previsioni del piano paesisitico non si limitano ad apporre prescrizioni da recepire direttamente nello strumento urbanistico, ma possono prevedere anche modalità di esercizio della tutela che si esprimono in indirizzi o direttive ai comuni nella redazione dei piani regolatori rispetto all’ampio spettro delle categorie dei beni oggetto di tutela e conservazione: il paesaggio quindi “permea di valori e contenuti” il territorio oggetto della pianificazione urbanistica, che non può quindi limitarsi alla determinazione delle destinazioni d’uso dei suoli ma deve determinare una qualità urbanistica o una compatibilità delle trasformazioni ammesse: si pensi al caso in cui il piano – in base a una direttiva –preveda che i comuni nella formazione dei piani, gli conferiscano contenuti paesaggistici sulla base di queste indicazioni che traggo dalle NTA del piano paesistico della Sardegna in fase di preparazione in base al Codice Urbani: regolare e ottimizzare la pressione del sistema insediativo sull’ambiente naturale migliorando la salubrità dell’ambiente urbano ed i valori paesaggistici del territorio attraverso una disciplina degli usi e delle trasformazioni orientata a limitare il consumo delle risorse non rinnovabili ed alla prevenzione integrata degli inquinamenti, oppure prevedere una disciplina edilizia orientata al mantenimento delle morfologie e degli elementi costitutivi tipici correlata alle tipologie architettoniche connotative dei diversi luoghi nonché delle tecniche e dei materiali costruttivi utilizzabili, fino all’individuazione della gamma dei colori ammissibili nelle facciate degli edifici, oppure ancora individuare i fattori di rischio e gli elementi di vulnerabilità del paesaggio nel proprio ambito di competenza.

      La seconda che attiene agli aspetti “propositivi” del piano paesaggistico lì dove appunto le disposizioni prevedano non solo misure di conservazione e fruizione ma anche interventi di recupero, riqualificazione per le aree paesaggisticamente compromesse. In questo caso si richiede un’intervento attivo dei comuni – anche in collaborazione, se necessario, con la regione o la provincia interessata o con altri comuni viciniori, nonché con i soggetti privati – per l’elaborazione di piani attuativi di recupero o programmi di tutela e conservazione degli immobili e delle aree tutelate, la cui attuazione e gestione può essere attribuita direttamente agli enti territoriali di riferimento.

      Dall’elencazione di questi tratti salienti si può concludere quindi che il piano paesaggistico non esaurisce la sua funzione conformatrice nei contenuti e nelle previsioni ma si presenta come uno strumento di pianificazione a formazione progressiva poiché estende i suoi effetti e la sua efficacia alle successive azioni ed atti delle amministrazioni nonchè dei privati coinvolti, costituendo così il primo esempio di piano specializzato con contenuti di amministrazione attiva che non si limita cioè semplicemente a prescrivere ma mira – per riprendere l’espressione di Giannini – al “risultato”.


      [1] Le innovazioni della disciplina erano state già in parte introdotte da precedenti atti normativi: si veda ad es. l’art.1 bis della legge 431/85 ove si parla di “piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” o al contenuto dell’accordo Stato regioni stilato nel 2001 ove già s’introducono i concetti di livello di valore paesaggistico e di obiettivi di qualità paesaggistica. Con il codice Urbani, tuttavia, si porta a regime una rivisitazione sistematica del contenuto “necessario” del piano paesistico che nemmeno il precedente D.Legsl. 490/99 prevedeva. Gli stessi piani del paesaggio redatti dalle regioni a seguito delle innovazioni citate non sembra abbiano colto la portata innovativa della disciplina paesaggistica estesa a tutto il territorio regionale.

      [2] La convenzione europea del paesaggio definisce quest’ultimo come ogni luogo percepito dalla popolazione come contenente i tratti identitari della storia e della cultura di quella popolazione. L’art.131 del codice intende per paesaggio una parte omogenea del territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle loro reciproche interrelazioni. Definizioni e terminologie di questo genere confermano l’ampliamento del concetto di paesaggio nel quale si riflettono come un prisma le opere della natura e quelle dell’uomo.

      [3] Le disposizioni ( art.145) parlano di cogenza delle previsioni dei piani paesistici e d’immediata prevalenza sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici.