La Corte costituzionale cassa la misura lombarda della sanzione a tutela del paesaggio, di Paolo Urbani

La Corte costituzionale, 19 febbraio 2024, n. 19 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».

Il TAR Lombardia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 146 e 167, comma 5, cod. beni culturali.

La disposizione censurata stabilisce che «[l]’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. n. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».

La questione di legittimità costituzionale investe la parte della disposizione regionale che stabilisce la misura della sanzione, secondo le modalità indicate dalla stessa disposizione, con previsione di un minimo inderogabile di cinquecento euro.

Prima di esaminare il merito, va ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.

L’art. 167 cod. beni culturali, sotto la rubrica «Ordine di rimessione in pristino o di versamento di indennità pecuniaria», al comma 1 prevede che, «[i]n caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è sempre tenuto alla rimessione in pristino a proprie spese, fatto salvo quanto previsto al comma 4».

Per regola generale, dunque, le opere realizzate senza autorizzazione paesaggistica, in violazione dell’art. 146 cod. beni culturali (disposizione contenuta nel Titolo I della Parte terza del codice), non sono suscettibili di “sanatoria”, tramite il pagamento di una somma di denaro, ma comportano l’applicazione della sanzione di carattere reale della riduzione in pristino.

Le uniche deroghe alla sanzione ripristinatoria reale sono contemplate al comma 4 dello stesso art. 167, secondo cui l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica dopo la realizzazione delle opere (onde tale accertamento viene comunemente definito “postumo”) nei seguenti casi tassativi:

a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;

b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;

c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 t.u. edilizia.

In queste ipotesi, il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area è ammesso a presentare domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi (comma 5, primo periodo).

L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni (comma 5, secondo periodo).

Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione (comma 5, terzo periodo).

L’importo della «sanzione pecuniaria» è determinato previa perizia di stima (comma 5, quarto periodo).

In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1 (comma 5, quinto periodo).

A tale disciplina si raccorda l’art. 146 cod. beni culturali, alla cui stregua, «[f]uori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi» (comma 4, secondo periodo).

Questo assetto normativo è il risultato della modifica introdotta dall’art. 27, comma 1, del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), che ha integralmente sostituito l’art. 167 cod. beni culturali.

Il previgente comma 1 di tale ultima disposizione prevedeva, infatti, che «[i]n caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti dal Titolo I della Parte terza, il trasgressore è tenuto, secondo che l’autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica ritenga più opportuno nell’interesse della protezione dei beni indicati nell’articolo 134, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima».

Il trattamento delle violazioni degli obblighi e degli ordini a tutela del paesaggio era dunque caratterizzato, prima della novella del 2006, dalla titolarità in capo all’amministrazione del potere di scegliere in ogni caso fra ripristino dello status quo ante e pagamento di una somma di denaro. Ciò, in linea con quanto precedentemente disposto, in termini sostanzialmente identici, prima dall’art. 15 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), poi dall’art. 164 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352).

La modifica del 2006 ha dunque significativamente innovato rispetto al nucleo essenziale di una disciplina risalente nel tempo, prevedendo che l’amministrazione non abbia più la descritta possibilità di scegliere fra riduzione in pristino e misura pecuniaria, nonché relegando quest’ultima ad alcune fattispecie abusive minori, previo accertamento della loro compatibilità paesaggistica.

Ciò premesso, a venire qui in rilievo sono, nel caso in cui sopravvenga l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica, i criteri di calcolo della somma dovuta dal trasgressore, che il legislatore statale ha individuato nel «maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione».

La rubrica dell’art. 167 cod. beni culturali parla di «indennità pecuniaria» in relazione all’importo che il trasgressore è tenuto a pagare, una volta accertata la compatibilità paesaggistica degli interventi.

Il medesimo art. 167 è peraltro inserito nel Capo II del Titolo I della Parte quarta del codice dei beni culturali e del paesaggio, dedicato alle «Sanzioni relative alla Parte terza» dello stesso codice.

Inoltre, il comma 5 dell’art. 167 prevede, come già detto, che l’importo della «sanzione pecuniaria» sia determinato previa perizia di stima.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, non si tratta di una forma di risarcimento del danno, ma di una sanzione amministrativa applicabile a prescindere dalla concreta produzione di un danno ambientale. Nella previsione normativa, il danno viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione – in alternativa al profitto conseguito – e non come parametro che ne condiziona l’an. L’assenza di un danno ambientale non ostacola, dunque, il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della quantificazione dell’importo dovuto, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito (tra le molte, Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678, sentenza 25 luglio 2020, n. 4755, sentenza 4 maggio 2020, n. 2840; sezione sesta, sentenza 8 gennaio 2020, n. 130).

Lo stesso costante orientamento giurisprudenziale qualifica la misura in esame come sanzione riparatoria alternativa al ripristino dello status quo ante. A tal riguardo, il Consiglio di Stato osserva che, «proprio in funzione della sua natura di carattere ripristinatori[o] alternativa alla demolizione», la sanzione «viene ragguagliata “al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione” e, in base all’art. 167 del d.lgs. 42 del 2004, le somme “sono utilizzate per finalità di salvaguardia, interventi di recupero dei valori ambientali e di riqualificazione delle aree degradate”» (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 30 giugno 2023, n. 6380 e n. 6381; nello stesso senso, tra le molte, Consiglio Stato, sezione prima, parere definitivo 18 maggio 2022, n. 877; sezione seconda, sentenza 30 ottobre 2020, n. 6678).

Come si è visto, l’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 è censurato dal giudice a quo nel testo, attualmente in vigore, introdotto dall’art. 27, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018.

Il testo anteriore alla modifica era il seguente: «1. L’applicazione della sanzione pecuniaria, prevista dall’articolo 167 del D.Lgs. 42/2004, in alternativa alla rimessione in pristino, è obbligatoria anche nell’ipotesi di assenza di danno ambientale e, in tal caso, deve essere quantificata in relazione al profitto conseguito e, comunque, in misura non inferiore a cinquecento euro».

Nella versione originaria, l’art. 83 si limitava dunque a prevedere, nella sostanza, che la sanzione si dovesse applicare anche in assenza di danno e fosse in tal caso determinata esclusivamente sulla base del profitto conseguito dal trasgressore. Previsione che era già desumibile dall’art. 167 cod. beni culturali nell’interpretazione accolta dalla richiamata giurisprudenza amministrativa, secondo cui l’assenza di un danno ambientale non ostacola il potere sanzionatorio, ma assume rilievo sotto il profilo della commisurazione della sanzione, che sarà ragguagliata al solo profitto conseguito. Si aggiungeva, peraltro, una misura minima non inferiore «comunque» a cinquecento euro.

Con la modifica introdotta dal citato art. 27, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 17 del 2018 è stato mantenuto il minimo inderogabile di cinquecento euro, ma, per determinare la sanzione pecuniaria in caso di assenza di danno ambientale, si è aggiunto l’ulteriore criterio parametrato al costo teorico di realizzazione degli interventi abusivi, da desumere nei modi indicati dalla medesima disposizione. In quest’ultima versione, l’art. 83 è interpretabile nel senso che la nuova misura percentuale pari all’ottanta per cento di detto costo (che non può «in ogni caso» scendere al di sotto di cinquecento euro, in forza della previsione di chiusura) si applicherà sia nel caso in cui il «profitto conseguito» dal trasgressore risulti inferiore ad essa o di incerta quantificazione, sia nel caso in cui anche il profitto, come il danno ambientale, non sussista.

Ciò premesso, la questione è fondata.

Da un lato, la misura prevista dall’art. 167, comma 5, cod. beni culturali costituisce, come si è detto, una sanzione amministrativa pecuniaria di natura riparatoria.

D’altro lato, non è dubitabile che la norma regionale censurata incida sulla determinazione del quantum di tale sanzione.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, «la competenza a prevedere sanzioni amministrative non costituisce materia a sé stante, ma “accede alle materie sostanziali” […] alle quali le sanzioni si riferiscono, spettando dunque la loro previsione all’ente “nella cui sfera di competenza rientra la disciplina la cui inosservanza costituisce l’atto sanzionabile […]» (sentenza n. 121 del 2023; nello stesso senso, sentenze n. 201 del 2021, n. 84 del 2019, n. 148 e n. 121 del 2018, n. 90 del 2013 e n. 271 del 2012).

Si tratta quindi di verificare quale sia la materia a cui si riferisce la sanzione e se in tale materia la competenza legislativa spetti allo Stato o alle regioni.

Sulla base del quadro normativo ricostruito in precedenza, la sanzione consegue alla realizzazione di lavori rientranti nei casi tassativi indicati al comma 4 dell’art. 167 cod. beni culturali, per i quali sia intervenuto l’accertamento “postumo” di compatibilità paesaggistica di cui al successivo comma 5.

L’atto sanzionabile è costituito, dunque, dall’inosservanza della disciplina relativa alla tutela del vincolo paesaggistico-ambientale, e segnatamente dall’inosservanza delle norme che regolano l’autorizzazione paesaggistica, la quale, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, deve essere annoverata tra gli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale (tra le molte, sentenze n. 201 del 2021, n. 246 del 2017, n. 238 del 2013 e n. 101 del 2010).

In ragione di ciò, la disciplina sostanziale cui si riferisce la sanzione pecuniaria in esame deve necessariamente ascriversi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., stante l’esistenza di un evidente interesse unitario alla tutela del paesaggio e a un eguale trattamento in tutto il territorio nazionale della tipologia di abusi paesaggistici suscettibili di accertamento di compatibilità.

Si è già chiarito che la quantificazione della sanzione, in caso di assenza di danno ambientale, nella misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione «delle opere e/o lavori abusivi», con il minimo inderogabile di cinquecento euro, non è prevista dalla disciplina adottata dallo Stato nell’esercizio della sua competenza legislativa esclusiva; in particolare, non è prevista dall’art. 167 cod. beni culturali.

Le ineludibili esigenze di uniformità di trattamento appena evidenziate impediscono al legislatore regionale di intervenire con norme difformi dalle previsioni statali di tutela paesaggistica in senso stretto (sentenza n. 201 del 2021), come quelle che disciplinano l’inosservanza del regime autorizzatorio.

Accertata la violazione del riparto di competenze tra Stato e regioni, si osserva che il rimettente non circoscrive il petitum alle parti dell’art. 83 aggiunte dalla legge reg. Lombardia n. 17 del 2018. Le sue censure si appuntano sull’introduzione della misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di costruzione e, implicitamente, anche sulla previsione della sanzione minima inderogabile di cinquecento euro (presente sia nel testo originario della norma che in quello novellato, con alcune variazioni lessicali), anch’essa difforme rispetto alla disciplina di cui all’art. 167, comma 5, cod. beni culturali.

Va dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, limitatamente alle parole «e, comunque, in misura non inferiore all’ottanta per cento del costo teorico di realizzazione delle opere e/o lavori abusivi desumibile dal relativo computo metrico estimativo e dai prezzi unitari risultanti dai listini della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura della provincia, in ogni caso, con la sanzione minima di cinquecento euro».