La cementificazione di Villa Bianca non s’ha da fare, di Fabio Cusano

Con sentenza 15 maggio 2024, n. 9617, il TAR Lazio, Roma, sez. II bis, ha dichiarato che l’intervento di “completamento” non può essere esteso all’ipotesi di materiale inesistenza di un precedente edificio o parte di edificio caratterizzato da una propria volumetria. Inoltre, la nozione di “completamento”, cui fa riferimento l’art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09, presuppone non solo la materiale esistenza almeno di una parte di edificio ma anche una continuità progettuale tra la preesistenza e la parte ancora da realizzare.

Il Comitato Villa Bianca e privati cittadini hanno impugnato il permesso di costruire rilasciato da Roma Capitale e la successiva voltura dell’intestazione.

In via pregiudiziale, il Tribunale ritiene necessario esaminare una serie di eccezioni prospettate dalle parti resistenti.

Innanzitutto, le resistenti deducono l’inammissibilità del gravame proposto dal Comitato Villa Bianca che sarebbe sprovvisto dei requisiti di rappresentatività richiesti, a tal fine, dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 6/2020; in particolare, il Comitato non avrebbe comprovato a) la rappresentatività, b) la riferibilità delle censure proposte alle finalità statutarie di protezione dell’interesse collettivo e c) la stabilità della struttura organizzativa tale da consentire al soggetto di svolgere con continuità la propria attività a protezione dell’interesse collettivo.

L’eccezione è fondata.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire ai comitati spontanei e/o alle associazioni di cittadini nei confronti di provvedimenti amministrativi ritenuti lesivi di interessi di carattere collettivo, debbono concorrere le seguenti condizioni:

a) deve sussistere una previsione statutaria del comitato o dell’associazione che qualifichi questo obiettivo di protezione come compito istituzionale dell’ente;

b) il comitato e l’associazione devono dimostrare di avere consistenza organizzativa, adeguata rappresentatività e collegamento stabile con il territorio ove svolgono l’attività di tutela degli interessi collettivi;

c) i predetti enti hanno l’onere di comprovare di avere svolto la propria attività per le finalità statutarie per un certo arco temporale e non debbono essere stati costituiti al solo scopo di procedere alla impugnazione di singoli atti e provvedimenti (in questo senso Cons. Stato n. 3639/23, n. 1838/18, n. 4928/14, n. 1640/12).

Nella fattispecie il Comitato ricorrente non ha dimostrato di avere svolto attività statutarie per un significativo periodo di tempo.

Risulta sfornita di idonea prova anche l’effettiva rappresentatività del comitato.

Quanto fin qui evidenziato induce il Collegio a ritenere che le domande proposte dal Comitato Villa Bianca siano inammissibili per difetto di posizione legittimante con assorbimento, in tale statuizione, di tutte le altre eccezioni pregiudiziali sollevate dalle parti resistenti in ordine alla posizione processuale dell’ente.

Per quanto concerne, poi, le eccezioni pregiudiziali concernenti la posizione dei ricorrenti il Tribunale rileva quanto segue.

Le resistenti prospettano la tardività del ricorso in quanto il cartello di cantiere sarebbe stato apposto il 03/04/23; in tale data, pertanto, i ricorrenti avrebbero preso conoscenza del permesso di costruire del 2022 come desumibile anche dalle notizie apparse sulla stampa a partire dal 05/04/23 comprovanti che la notizia del rilascio del titolo edilizio fosse di dominio pubblico.

Sempre secondo le resistenti, in data 18/05/23 un membro del Comitato Villa Bianca avrebbe presentato al Comune di Roma una prima istanza di accesso agli atti dell’intervento.

Da tale data, pertanto, decorrerebbe il termine decadenziale d’impugnazione dal momento che nella fattispecie i ricorrenti contesterebbero l’an dell’edificazione mentre la proposizione tardiva della loro istanza di accesso non sarebbe idonea a procrastinare tale termine.

L’eccezione è infondata.

Secondo la giurisprudenza pronunciatasi in riferimento all’impugnazione del titolo edilizio da parte di terzi, l’inizio dei lavori segna il dies a quo della tempestiva proposizione del ricorso nell’ipotesi in cui si contesti l’an dell’edificazione (cioè laddove si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area), mentre, laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), il dies a quo deve ritenersi coincidente con il completamento dei lavori ovvero con il grado di sviluppo degli stessi che renda palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (Cons. Stato n. 3654/23, n. 7741/22, n. 191/2020, n. 8149/2020).

Nel presente giudizio i ricorrenti non contestano l’an dell’edificazione ma solo le modalità della stessa.

Le censure, infatti, non prospettano l’assoluta inedificabilità dell’area (del resto, già precedentemente edificata) né la possibilità di ricostruire la volumetria preesistente ma lamentano l’illegittima utilizzazione dello strumento di cui all’art. 3 ter l.r. n. 21/09 e, in particolare, il cumulo delle premialità previste, da una parte, dall’art. 14 d.p.r n. 380/01 e, dall’altra, dall’art. 3 ter citato contestando, altresì, il procedimento edilizio seguito ai fini dell’adozione dei gravati titoli abilitativi.

Il cartello, che le resistenti prospettano apposto il 03/04/23, si limita ad indicare gli estremi del permesso e la dicitura “realizzazione di lavori di demolizione e ricostruzione per realizzazione di un edificio misto”.

Dal contenuto del cartello, pertanto, non è possibile desumere le ragioni di possibile illegittimità del titolo edilizio, come prospettate nel gravame, specie se si considera che nel cartello non vi è alcun riferimento all’art. 3 ter l.r. n. 21/09 e che le resistenti non hanno in alcun modo dimostrato che, dopo l’apposizione del cartello, i lavori siano effettivamente mai iniziati (anzi, all’attualità non vi è prova di tale edificazione).

Ne deriva che l’apposizione del cartello costituisce circostanza di fatto inidonea a comprovare, in capo alle persone fisiche odierne ricorrenti, la conoscenza dei titoli edilizi alla data del 05/04/23.

Né, a tal fine, assumono significativa rilevanza le notizie di stampa e le altre circostanze poste a fondamento dell’eccezione, tra cui l’istanza di accesso presentata il 18/05/23 da una componente del Comitato Villa Bianca, la conoscenza delle quali, da parte dei ricorrenti, non è in alcun modo comprovata; per altro, dal contenuto della stessa istanza di accesso non è possibile desumere la conoscenza dei titoli edilizi e della possibile illegittimità degli stessi nemmeno da parte della stessa richiedente.

Le resistenti prospettano, altresì, l’inammissibilità del ricorso collettivo in ragione della “chiara disomogeneità tra la posizione del Comitato e la posizione degli associati ricorrenti in proprio che agiscono nella loro qualità di proprietari di immobili adiacenti all’area interessata dall’intervento di cui è questione”.

Anche questa eccezione è infondata.

Come è noto, la proposizione contestuale di un’impugnativa da parte di più soggetti, sia essa rivolta contro uno stesso atto o contro più atti tra loro connessi, è soggetta al rispetto di stringenti requisiti, sia di segno negativo che di segno positivo: i primi sono rappresentati dall’assenza di una situazione di conflittualità di interessi, anche solo potenziale, per effetto della quale l’accoglimento della domanda di alcuni dei ricorrenti sarebbe logicamente incompatibile con l’accoglimento delle istanze degli altri; i secondi consistono, invece, nell’identità delle posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti, essendo necessario che le domande giurisdizionali siano identiche nell’oggetto, che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e che vengano censurati per gli stessi motivi (Adunanza Plenaria n. 5/15; Cons. Stato n. 9029/23, n. 8138/23, n. 8488/21).

Nella fattispecie tra il Comitato Villa Bianca e le persone fisiche ricorrenti non sussiste alcun conflitto di interessi e le relative domande hanno ad oggetto i medesimi provvedimenti e sono fondate sulle identiche censure; ne consegue l’infondatezza dell’eccezione esaminata.

Le parti resistenti, poi, deducono l’inammissibilità del gravame per difetto d’interesse dal momento che i ricorrenti non avrebbero comprovato il pregiudizio specifico loro arrecato dagli atti impugnati.

L’eccezione deve essere disattesa.

Secondo l’Adunanza Plenaria (sentenza n. 22/21):

a) nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione e l’interesse al ricorso quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga da solo ed in automatico a dimostrare la sussistenza dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato;

b) l’interesse al ricorso correlato allo specifico pregiudizio derivante dall’intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio che si assume illegittimo può comunque ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso;

c) l’interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e comprovato dal ricorrente nel corso del processo, laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o la questione rilevata d’ufficio dal giudicante, nel rispetto dell’art. 73, comma 3, c.p.a.”.

Dall’esame della sentenza n. 21/2022 emerge che il Supremo Consesso, pur evidenziando “la necessità di una verifica delle condizioni dell’azione (più) rigorosa”, precisa che tale verifica è “tuttavia da condurre pur sempre sulla base degli elementi desumibili dal ricorso, e al lume delle eventuali eccezioni di controparte o dei rilievi ex officio, prescindendo dall’accertamento effettivo della (sussistenza della situazione giuridica e della) lesione che il ricorrente afferma di aver subito. Nel senso che, come è stato osservato, va verificato che “la situazione giuridica soggettiva affermata possa aver subito una lesione” ma non anche che “abbia subito” una lesione, poiché questo secondo accertamento attiene al merito della lite”; ne consegue che “lo specifico pregiudizio derivante dall’intervento edilizio che si assume illegittimo, e che è necessario sussista, può comunque ricavarsi, in termini di prospettazione, dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso, suscettibili di essere precisate e comprovate laddove il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti o dai rilievi del giudicante”.

Da quanto fin qui evidenziato risulta che, ai fini dell’esistenza dell’interesse all’impugnazione di un titolo edilizio, è sufficiente la prospettazione di un pregiudizio, caratterizzato da una certa specificità, e non anche l’accertamento dello stesso in quanto tale ultimo profilo attiene al merito del gravame.

Tale impostazione è coerente con la natura di condizione dell’azione riconoscibile all’interesse al ricorso; come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza formatasi dopo l’arresto dell’Adunanza Plenaria del 2021, l’interesse va individuato in riferimento alla mera potenzialità lesiva degli atti impugnati “non potendosi sovrapporre evidentemente l’indagine sulle condizioni dell’azione a quella sul merito delle censure sottoposte alla cognizione del giudice” (così Cons. Stato n. 10715/22 il quale ha ritenuto che nella fattispecie “l’interesse ad agire è stato sufficientemente rappresentato dall’originario ricorrente nella possibile lesione delle potenzialità edificatorie del proprio fondo a causa della violazione della disciplina sulle distanze tra gli immobili imputata agli odierni appellati e nel meno agevole utilizzo di una strada di accesso al proprio fondo su cui grava una servitù di passaggio”).

Alla luce di tali coordinate ermeneutiche il Collegio ritiene che nella fattispecie i ricorrenti siano titolari dell’interesse al ricorso richiesto dall’Adunanza Plenaria ai fini dell’impugnazione dei titoli edilizi da parte di terzi.

A fondamento del gravame i ricorrenti persone fisiche hanno comprovato di essere proprietari e di risedere in appartamenti ubicati in edifici prospicienti e con affaccio su Villa Bianca.

Deducono altresì che sul piano del danno patrimoniale che si determina nei riguardi dei ricorrenti è agevole rilevare la perdita di valore di unità immobiliari collocate in città storica ed in prossimità, nell’attualità, di un’area verde, arborata e destinata a parco, con affaccio e veduta sulla stessa, nel momento in cui a detta cornice ambientale viene a sostituirsi un imponente complesso edificato di 53.000 mc., articolato su sette piani, con ampie porzioni destinate ad attività commerciali e terziarie.

Deducono, inoltre, che al danno patrimoniale si aggiunge quello sul piano esistenziale e del diritto alla salute, per l’aggravamento delle condizioni di vivibilità dei luoghi, causate dall’incremento del traffico veicolare per la presenza in zona intensamente edificata di circa cinquecento nuovi residenti, per la perdita di veduta ed areazione a causa dell’altezza delle nuove costruzioni e di salubrità dell’aria dovuta all’eliminazione delle presenze arboree.

Il consistente aumento di volumetria assentito con il gravato permesso di costruire unitamente alle concrete caratteristiche dell’intervento edilizio inducono il Collegio a ritenere esistente almeno alcuni tra i pregiudizi lamentati dai ricorrenti.

È indubitabile che il significativo incremento del carico urbanistico derivante dall’ampliamento di volumetria possa pregiudicare l’interesse dei ricorrenti tenuto conto della particolare posizione delle loro proprietà rispetto all’area oggetto d’intervento; come ha precisato l’Adunanza Plenaria, ai fini del riscontro dell’interesse, viene in rilievo “un’indagine naturalmente strettamente legata… al tipo di provvedimento contestato e all’entità e alla destinazione dell’immobile edificando o edificato” (A.P. n. 22/21).

Nel merito, poi, le domande proposte dai ricorrenti sono fondate e devono essere accolte.

I ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione degli artt. 97 Cost., 15 d.p.r. n. 380/01 e 3 ter l.r. n. 21/09, del d.m. n. 1444/68, delle previsioni di PRG del Comune di Roma e delle Norme Tecniche di Attuazione – N.T.A. approvate con delibera di Consiglio comunale n. 19/08 ed eccesso di potere sotto vari profili in quanto:

– l’intervento di cui al permesso di costruire non potrebbe essere inteso come completamento dei precedenti permessi di costruire; “in termini generali, deve ritenersi che la ripresa dell’attività edilizia debba essere strettamente connessa al progetto non finito, da intendersi come tale quello per cui può ritenere acquisita ad ogni effetto una sua specifica individualità (in altre parole, può essere completato solo un progetto in termini urbanistici ultimato); nel caso di specie, fermo restando tutto il resto, non si ravvisa alcuna pertinenza tra il progetto di ristrutturazione e ampliamento della Clinica, la cui esecuzione si era arrestata alle demolizioni, e quello relativo alla imponente speculazione edilizia (144 appartamenti e 26 negozi) che dovrebbe essere realizzata in virtù del PdC, avvalendosi della sopravvenuta disciplina derogatoria e speciale derivante dal Piano Casa regionale (L.R. Lazio n. 21 del 2009)”;

– l’intervento realizzato, per le sue concrete caratteristiche, non rientrerebbe in nessuna delle categorie ammesse dall’art. 3 ter l.r. n. 21/09 ovvero la ristrutturazione edilizia, la sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione (DR) e il completamento e ciò in quanto il mutamento della sagoma, dei prospetti e dell’area di sedime in zona A configurerebbe una “nuova costruzione”;

– l’edificio principale destinato a clinica privata non esisterebbe più dal 2006, in quanto demolito (salvo residuali 500 mc.) di talché nella fattispecie sarebbero violati gli artt. 2 e 3 ter l.r. n. 21/09 “la cui applicazione richiede quale ineludibile presupposto l’esistenza di strutture edilizie, nella loro consistenza materiale, su cui consentire gli interventi di cambio di destinazione d’uso, ristrutturazione, demolizione e ricostruzione, finalizzati alla realizzazione di alloggi in parte da concedere in locazione a canone calmierato”. Nella fattispecie, invece, verrebbe in rilievo una mera area libera che non potrebbe essere ritenuta edificabile mancando il piano attuativo richiesto, a tal fine, dall’art. 3 ter comma 3 l.r. n. 21/09;

– la Regione Lazio e Roma Capitale avrebbero assunto, quale parametro per il calcolo della premialità, non l’originaria consistenza dell’edificio da ricostruire (pari a circa 17.000 mc.), ma quella derivante dai permessi del 2005, avente ad oggetto l’ampliamento di circa 20.000 mc. della struttura sanitaria in deroga allo strumento urbanistico, e del 2007, relativo ad una variante in corso d’opera, entrambi decaduti per il mancato completamento dei lavori entro il prescritto termine triennale e, per effetto dei quali, la complessiva volumetria da ricostruire sarebbe pari a complessivi mc. 37.494,70 di cui mc. 20.078 per ampliamento in deroga;

– ne deriverebbe che nella fattispecie, in maniera illogica ed irrazionale, si cumulerebbero i benefici derivanti dal permesso in deroga ex art. 14 d.p.r. n. 380/01 e dalla l.r. n. 21/09 il che determinerebbe un abnorme impatto sul territorio in virtù di una non consentita interpretazione estensiva o analogica della l.r. n. 21/09, da ritenersi disciplina eccezionale.

Nel merito, i motivi sono fondati secondo quanto in prosieguo specificato.

Secondo l’art. 3 ter l.r. n. 21/09, introdotto dalla l.r. n. 10/11:

1. In deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali vigenti o adottati sono consentiti cambi di destinazione d’uso a residenziale attraverso interventi di ristrutturazione edilizia, di sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione, e di completamento, con ampliamento entro il limite del 30 per cento della volumetria oppure della superficie utile esistente nei limiti previsti dalla lettera c), previa acquisizione del titolo abilitativo di cui all’articolo 6, degli edifici o di parti degli edifici di cui all’articolo 2 aventi destinazione non residenziale, che siano dismessi o mai utilizzati alla data del 31 dicembre 2013, ovvero che alla stessa data siano in corso di realizzazione e non siano ultimati e/o per i quali sia scaduto il titolo abilitativo edilizio ovvero, limitatamente agli edifici con destinazione d’uso direzionale, che siano anche in via di dismissione”.

La disciplina della l.r. n. 21/09 ha natura eccezionale come emerge dal carattere dichiaratamente straordinario ed urgente della stessa (art. 1), dalla durata temporalmente limitata (art. 6) e dalle misure derogatorie alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente, ivi previste, tra cui l’ampliamento della volumetria esistente (artt. 3 e 4).

L’art. 3 ter l.r. n. 21/09, in particolare, consente il cambio di destinazione d’uso a residenziale attraverso una triplice tipologia di interventi:

a) la “sostituzione edilizia con demolizione e ricostruzione”. L’intervento in esame non è specificamente disciplinato dal d.p.r. n. 380/01 ma deve ritenersi corrispondente alla ristrutturazione edilizia c.d. demoricostruttiva come emerge anche dal raffronto con l’art. 4 l.r. n. 21/09 in cui tale forma di intervento viene compiutamente descritta e disciplinata;

b) la “ristrutturazione edilizia” da intendersi riferita a tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia, diversi da quelli di cui sub a), attraverso i quali è attuata la modifica di destinazione d’uso;

c) il “completamento”.

Con riferimento specifico al “completamento”, il Collegio ritiene che tale intervento debba necessariamente riguardare un edificio o una parte di edificio già esistente nella sua materialità come emerge dal tenore letterale dell’art. 3 ter l.r. n. 21/09 che consente gli interventi di ristrutturazione, sostituzione edilizia e completamento “degli edifici o di parti degli edifici di cui all’articolo 2 aventi destinazione non residenziale” che rientrino in una delle seguenti categorie:

1) “siano dismessi o mai utilizzati alla data del 31 dicembre 2013”;

2) “ovvero che alla stessa data siano in corso di realizzazione e non siano ultimati e/o per i quali sia scaduto il titolo abilitativo edilizio”;

3) “ovvero, limitatamente agli edifici con destinazione d’uso direzionale, che siano anche in via di dismissione”.

Pertanto, tutte le tipologie di intervento sono dalla norma riferite a “edifici” completamente realizzati (si tratta di quelli “dismessi o mai utilizzati”) o a “parti di edifici” “in corso di realizzazione e non… ultimati”.

Proprio l’utilizzazione dei termini “in corso di realizzazione” e “non… ultimati”, specificamente riferiti alle “parti degli edifici”, evidenzia che l’indispensabile presupposto per tutti gli interventi di cui all’art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09 è la preesistenza di un edificio, anche parziale, caratterizzato da una materialità che consenta di identificarlo come tale.

Tale impostazione è supportata dalle seguenti considerazioni:

– a livello teleologico, una delle finalità che l’art. 1 l.r. n. 21/09 dichiara di perseguire è quella di “favorire l’adeguamento del patrimonio edilizio esistente alla normativa antisismica, il miglioramento della qualità architettonica e la sostenibilità energetico-ambientale del patrimonio stesso, secondo le tecniche, le disposizioni ed i principi della bioedilizia”. Significativamente la disposizione fa riferimento al patrimonio edilizio già “esistente” l’unico al quale può essere riferito il concetto di “riqualificazione”;

– a livello logico, il “completamento”, di cui parla l’art. 3 ter l.r. n. 21/09 non può che presupporre l’esistenza di un manufatto caratterizzato da una materialità che consenta di qualificarlo almeno come “parte di edificio”. Il legislatore regionale ha utilizzato il termine “edificio” e non anche quello di “intervento” proprio a significare che il manufatto preesistente deve sviluppare almeno una parziale volumetria;

– nella legge regionale n. 21/09 il termine “edificio” ha un significato specifico da individuarsi alla luce della circolare ministeriale 23 luglio 1960, n. 1820, espressamente richiamata dall’art. 3 commi 1 lettera a) e 8 della medesima legge regionale. Secondo la predetta circolare, per edificio “si intende qualsiasi costruzione coperta, isolata da vie o da spazi vuoti, oppure separata da altre costruzioni mediante muri che si elevano, senza soluzione di continuità, dalle fondamenta al tetto; che disponga di uno o più liberi accessi sulla via, e possa avere una o più scale autonome”. Non è plausibile che la legge regionale n. 21/09 abbia utilizzato il termine “edificio” con accezioni diverse negli artt. 3 e 3 ter del medesimo testo normativo;

– la nozione di “edificio”, come delineata dalla circolare ministeriale, è, del resto, confermata anche dalla circolare regionale approvata con deliberazione n. 184 dell’08/05/12, più volte richiamata dalle parti resistenti, la quale ritiene tale concetto espressamente riferibile all’ambito applicativo dell’art. 3 ter l.r. n.21/09 salvo, poi, immotivatamente prescinderne per la sola ipotesi di “edifici o parti degli edifici…in corso di realizzazione” per cui sarebbe sufficiente “che sia tempestivamente intervenuta comunicazione di inizio lavori ai sensi dell’art. 15, d.P.R. n. 380/2001”. L’impostazione regionale, in tale ultima parte, non può essere condivisa perché finalizzata ad estendere indebitamente l’ambito applicativo della l.r. n. 21/09 la quale, come già detto, ha carattere eccezionale ed espressamente collega i termini “edifici” e “parti di edifici” agli interventi “in corso di realizzazione” proprio a significare che gli eccezionali benefici, ivi previsti, possono essere riconosciuti solo se l’intervento in corso di realizzazione abbia già raggiunto una significativa consistenza;

– l’art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09 parametra l’ampliamento, per tutte le tipologie di intervento (e, quindi, anche con riferimento al “completamento” riferibile ad un titolo scaduto), alla sola volumetria già “esistente” con ciò presupponendo che la “parte di edificio” già realizzata sia in grado di sviluppare una certa volumetria;

– del resto, ove l’intervento avesse ad oggetto un manufatto da costruire ex novo il legislatore avrebbe più propriamente utilizzato il termine “realizzazione” come è, infatti, previsto dall’art. 3 ter comma 3 l.r. n. 21/09 il quale, in riferimento alle aree libere, parla di “realizzazione di immobili ad uso residenziale”. Si tratta, in quest’ultima ipotesi, di una vera e propria “nuova costruzione” ex art. 3 comma 1 lettera e) d.p.r. n. 380/01;

– tale ricostruzione è confermata dalla natura degli altri due interventi che l’art. 3 ter l.r. n. 21/09 richiama, ovvero quelli di ristrutturazione edilizia e di sostituzione edilizia demoricostruttiva i quali presuppongono l’esistenza di una precedente volumetria;

– dal punto di vista letterale, l’art. 3 ter l.r. n. 21/09 al comma 1 parametra espressamente l’ampliamento del 30%, ivi previsto, alla superficie o alla volumetria già “esistente” al pari di quanto stabilito nella lettera c) del medesimo comma allorché individua la percentuale da destinare ad edilizia sociale. Pertanto, l’ampliamento, previsto dall’art. 3 ter l.r. n. 21/09, deve essere parametrato alla superficie o alla volumetria già esistenti, e non anche alla mera potenzialità edificatoria, anche nelle ipotesi di “completamento” conseguenti all’esistenza di un titolo edilizio scaduto.

Per questi motivi l’intervento di “completamento” non può essere esteso all’ipotesi di materiale inesistenza di un precedente edificio o parte di edificio caratterizzato da una propria volumetria.

In proposito, il Collegio ritiene di dovere specificare un ulteriore profilo rilevante ai fini della decisione.

La nozione di “completamento”, cui fa riferimento l’art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09, presuppone non solo la materiale esistenza almeno di una parte di edificio ma anche una continuità progettuale tra la preesistenza e la parte ancora da realizzare.

Se, infatti, è vero che il legislatore ammette per tutte le ipotesi il mutamento di destinazione d’uso a residenziale, è pur vero che tra preesistenza e “completamento” vi deve essere un nesso di continuità che, pur consentendo modifiche coerenti con il mutamento di destinazione d’uso, non comporti uno stravolgimento degli elementi essenziali della preesistenza quale risultante dal progetto e dalla parte già edificata; proprio la mancanza di continuità, negli elementi essenziali, tra edificio preesistente e nuova edificazione induce il Collegio ad ascrivere l’intervento nell’ambito della “nuova costruzione” di cui all’art. 3 comma 1 lettera e) d.p.r. n. 380/01 da ritenersi estranea all’ambito applicativo dell’art. 3 ter l.r. n. 21/09.

Per questi motivi, il Tribunale ritiene che, nell’ambito della locuzione “e/o per i quali sia scaduto il titolo abilitativo edilizio”, presente nell’art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09, l’utilizzo della disgiunzione “o” non valga, anche in ragione delle considerazioni in precedenza esplicitate, non ultima quella relativa all’eccezionalità e al carattere derogatorio di tale disciplina, ad attribuire all’esistenza di un permesso scaduto la qualificazione di presupposto sufficiente, a prescindere dalle ulteriori condizioni richieste, per la realizzazione dell’intervento ivi previsto.

La prospettata esegesi dell’art. 3 ter l.r. n. 21/09 induce il Collegio a ritenere che:

1) tutti gli interventi di cui all’art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09 riguardino edifici o parti di edifici già esistenti e, quindi, caratterizzati da una preesistente materialità che consenta di qualificarli come tali;

2) l’intervento di completamento presupponga una significativa continuità negli elementi essenziali tra edificio cui si riferisce il titolo edilizio scaduto e quello oggetto di tale intervento;

3) in tutti i casi di ristrutturazione edilizia, sostituzione edilizia demoricostruttiva e completamento, l’ampliamento debba essere parametrato alla sola superficie utile o volumetria già esistenti e realizzate. In particolare, nell’ipotesi di completamento tale ampliamento non può essere calcolato in riferimento alla mera potenzialità edificatoria non ancora realizzata ed oggetto del titolo edilizio scaduto.

Ciò posto, dagli atti emerge che:

– con permesso di costruire del 2005 Roma Capitale ha autorizzato l’ampliamento della struttura sanitaria preesistente, ai sensi dell’art. 14 d.p.r. n. 380/01, in deroga agli strumenti urbanistici. Il permesso di costruire in esame aveva ad oggetto un edificio principale (volumetria 34.577,68 mc.), un fabbricato A (volumetria 905,04 mc.), un fabbricato B (volumetria 2.917,02) e un fabbricato C (volumetria 653,52). Il fabbricato principale era destinato a clinica e i tre fabbricati accessori a Morgue e Uffici, Medicina Nucleare e Palestra, Laboratorio Analisi;

– con permesso del 2007 è stata autorizzata una variante per “modalità costruttive differenti – demolizione del fabbricato preesistente”;

– con dia del 2008 è stata richiesta una variante ai predetti permessi per la realizzazione di una nuova centrale elettrica, nuovi parcheggi interrati pertinenziali e modifiche interne al fabbricato A;

– in data 2009 è stata richiesta una proroga dei titoli edilizi citati;

– con nota del 2009 Roma Capitale ha respinto la richiesta di proroga;

– con nota del 2009 l’ente locale ha confermato il rigetto della richiesta di proroga;

– in data 2009 è stata presentata una richiesta di permesso di costruire che non ha avuto seguito;

– con istanza assunta da Roma Capitale del 2016 la GRE, dante causa della GS, attuale intestataria del titolo, ha richiesto un permesso di costruire per un intervento ivi descritto come “finalizzato al reperimento di alloggi a canone calmierato attraverso il cambio di destinazione d’uso da non residenziale a residenziale (art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09” specificando che “l’intervento da realizzare consiste nel recupero di un vuoto urbano … A seguito della decadenza di tali titoli l’intervento di ricostruzione autorizzato è rimasto incompiuto. L’attuale progetto precede quindi il recupero dello spazio urbano, le cui opere di fondazione e palificate risultano già realizzate. L’intervento sarà quindi concentrato su un’area incompiuta e non intaccherà l’apparato vegetazionale presente nell’area”;

– nella medesima istanza l’intervento è stato, ivi, qualificato come “nuova edificazione (NE)”;

– sempre nell’istanza del 2016 “la cubatura presa a base del progetto è quella esclusivamente relativa al fabbricato Principale” ovvero quello avente volumetria pari a 34.577,68 mc.;

– con istanza acquisita da Roma Capitale in 2019 la richiedente ha presentato “nuovi tipi Tavola 1 e relazione tecnica aggiornata” con la quale ha prospettato una significativa modifica progettuale rispetto all’impostazione presente nell’istanza del 2016. In particolare, l’istanza ha previsto di recuperare anche la volumetria del fabbricato B (pari a 2.917,02 mc.), inizialmente esclusa dall’intervento, e di ristrutturare internamente gli originari fabbricati A e C al fine di adibire gli stessi a guardiania, alloggio del portiere e locali tecnici. Oltre a tale volumetria aggiuntiva da recuperare, “i nuovi tipi, portano ad un progetto differente da quello già consegnato in precedenza, nella sintesi le principali modifiche sono individuate con la separazione dell’unico fabbricato in due fabbricati separati al fine di poter meglio organizzare le funzioni dei due fabbricati e di dare autonomia sia alle unità di edilizia Residenziale Sociale che a quelle di edilizia libera…Tale nuova impostazione è stata possibile in quanto [per] il “fabbricato B” precedentemente escluso risultava un vincolo progettuale in funzione del rispetto delle distanze. II nuovo progetto prevede invece, di colmare il vuoto urbano presente e derivante dalle strutture in cemento armato già realizzate in precedenza. La demolizione anche del fabbricato B, che conferisce regolarità all’area di sedime del progetto. La demolizione infatti del corpo di fabbrica B, comporta la necessità di regolarizzare ii lotto di intervento, mediante la demolizione di parte della palificata esistente in corrispondenza del fabbricato B (meglio evidenziata nei nuovi tipi grafici). Inoltre per eseguire la nuova palificata sarà necessario sacrificare alcuni alberi preesistenti, che verranno rimpiazzati da altri alberi previsti dalle vigenti normative in tema. I piani interrati destinati a parcheggio avranno una diversa conformazione per la parte riguardante il nuovo scavo e palificata da eseguire”;

– con permesso di costruire del 2022, poi volturato con permesso del 2023, Roma Capitale ha assentito due edifici con destinazione mista. Il primo composto da 6 piani fuori terra, un seminterrato e due livelli interrati, con un numero complessivo delle residenze pari a 94 unità immobiliari ad uso residenziale e altre 6 ad uso diverso (commerciale). Il secondo, sempre di 6 piani fuori terra, un seminterrato e due livelli interrati, con un numero complessivo delle residenze pari a 48 unità immobiliari destinate all’housing sociale e altre due unità immobiliari ad uso diverso (commerciale);

– dall’esame del progetto e del permesso di costruire del 2022 e degli altri atti del procedimento emerge che la volumetria assentita ha tenuto conto dell’ampliamento parametrato all’originaria volumetria oggetto del permesso di costruire del 2005.

Il quadro fattuale così ricostruito palesa l’esistenza di una pluralità di illegittimità.

Innanzitutto, come già evidenziato, l’art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09 ha ad oggetto i soli interventi su edifici o parti di edifici già materialmente esistenti, requisito nella fattispecie non ravvisabile.

Infatti, nel momento in cui è decaduto il permesso del 2005 non era stato realizzato nessun edificio o parte di edificio; dagli atti di causa risulta che vi era stata la sola demolizione del fabbricato principale preesistente e che nessuna struttura qualificabile come edificio o parte di edificio era mai stata realizzata.

Nella relazione trasmessa a Roma Capitale, la GRE ha evidenziato che “dalla documentazione fotografica che segue, lo stato dei luoghi risulta abbandonato e rappresenta un vuoto urbano del quartiere. Risultano già eseguite le palificate e gli scavi di sbancamento per la quasi totalità dell’area interessata pertanto il progetto si inserirà nell’area già sbancata”; nello stesso senso Roma Capitale ha precisato che “lo stato dei luoghi così come presentato nell’ante operam di progetto risulta costituito da un enorme sbancamento con opere di contrasto realizzate in cemento armato”.

Ciò, del resto, è confermato dall’evoluzione dei progetti presentati con l’istanza di permesso di costruire del 2016 e con i successivi nuovi tipi laddove, inizialmente, si prevedeva il recupero del solo fabbricato principale mediante demolizione e ricostruzione dello stesso, mentre, a seguito delle modifiche del 2019, il progetto ha previsto il recupero della volumetria di un altro dei fabbricati accessori e, soprattutto, la ricostruzione in due palazzine separate in luogo dell’unica palazzina prevista con il progetto originario.

Inoltre, la nozione di “completamento” ex art. 3 ter comma 1 l.r. n. 21/09 presuppone, pur nella consapevolezza di una non necessaria identità, almeno una significativa continuità progettuale e materiale tra edificio oggetto del titolo edilizio scaduto e quello oggetto di tale intervento.

Nella fattispecie, invece, tale continuità deve essere decisamente esclusa.

Come già precisato, il permesso di costruire del 2005, di cui quello del 2022 costituisce, nella prospettazione delle parti resistenti, il mero “completamento”, aveva ad oggetto un edificio principale (volumetria 34.577,68 mc.), un fabbricato A (volumetria 905,04 mc.), un fabbricato B (volumetria 2.917,02) e un fabbricato C (volumetria 653,52); il fabbricato principale era destinato a clinica e i tre fabbricati accessori a Morgue e Uffici, Medicina Nucleare e Palestra, Laboratorio Analisi.

Il progetto assentito con il permesso del 2022, invece, è relativo a due edifici con destinazione mista. Il primo composto da 6 piani fuori terra, un seminterrato e due livelli interrati, con un numero complessivo delle residenze pari a 94 unità immobiliari ad uso residenziale e altre 6 ad uso diverso (commerciale). Il secondo, sempre di 6 piani fuori terra, un seminterrato e due livelli interrati, con un numero complessivo delle residenze pari a 48 unità immobiliari destinate all’housing sociale e altre due unità immobiliari ad uso diverso (commerciale).

Ne deriva un’ontologica diversità, negli elementi essenziali, tra preesistenza, oggetto di recupero, costituita da un solo fabbricato, e il nuovo progetto relativo a due palazzine aventi ad oggetto diverse sagoma, volumetria, destinazione d’uso e consistenza.

Sul punto, non può essere condivisa la prospettazione della GS allorché afferma che, “per effetto della premialità concessa dal Piano Casa, l’esito dell’edificazione non può che portare in ogni caso alla realizzazione di un edificio differente da quello posto alla base del titolo originario, superando quindi ogni vincolo di aderenza del nuovo progetto alla conformazione architettonica inizialmente assentita” e che “l’art. 3 ter della LR n. 21/09, laddove parla di completamento, non può comportare vincoli planivolumetrici ma va inteso come completamento della volumetria posta alla base del titolo originario, alla quale aggiungere la premialità (ed il cambio di destinazione d’uso) da realizzare anche mediante delocalizzazione sulla stessa area o anche in aree diverse, nonché modifiche di sagoma”.

Una simile nozione di “ampliamento”, per effetto della quale sarebbe possibile delocalizzare, addirittura in aree diverse, la volumetria aggiuntiva senza alcun rapporto strutturale e funzionale con l’“edificio” originario, non trova alcun supporto nella lettera dell’art. 3 ter l.r. n. 21/09, che parametrando l’ampliamento alla volumetria esistente, non può che configurare tale ampliamento come parte aggiuntiva dell’originario manufatto.

Del resto, allorché il legislatore regionale ha ritenuto di consentire l’ampliamento attraverso la realizzazione di un corpo separato, lo ha previsto espressamente determinandone le condizioni tassative, a tal fine, necessarie; è il caso dell’art. 3 comma 3 lettera a) l.r. n. 21/09 laddove prevede che “gli ampliamenti di cui al comma 1 sono consentiti anche con aumento del numero delle unità immobiliari: a) in adiacenza, in aderenza rispetto al corpo di fabbrica, anche utilizzando parti esistenti dell’edificio; ove ciò non risulti possibile oppure comprometta l’armonia estetica del fabbricato esistente può essere autorizzata la costruzione di un corpo edilizio separato di carattere accessorio e pertinenziale”, disposizione che significativamente condiziona l’ampliamento separato al carattere accessorio e pertinenziale dello stesso.

Non a caso, l’art. 4 l.r. n. 21/09, il quale disciplina un intervento ontologicamente identico ad una delle tipologie ammesse dall’art. 3 ter l.r. n. 21/09, ovvero la sostituzione edilizia demo-ricostruttiva, nulla prevede in ordine alla possibilità di un ampliamento materialmente separato rispetto all’edificio originario.

Ne consegue che, come del resto evidenziato nell’istanza di permesso di costruire del 2016, l’intervento è qualificabile come “nuova edificazione” o “nuova costruzione” ex art. 3 comma 1 lettera e) d.p.r. n. 380/01 e, come tale, non rientra in nessuna delle tipologie previste dall’art. 3 ter comma 1 l.r. n.21/09 ovvero la ristrutturazione edilizia, la sostituzione edilizia demoricostruttiva e il completamento.

Va, in proposito, richiamato quanto la giurisprudenza ha evidenziato in ordine alla necessaria continuità, negli elementi essenziali, tra la volumetria demolita e quella ricostruita che deve sussistere nella ristrutturazione edilizia c.d. demoricostruttiva, pur dopo le innovazioni introdotte dal d.l. n. 76/2020 (Cons. Stato n. 623/23, n. 1681/23): in quest’ottica si è sostenuto che “la necessità di un’interpretazione della definizione dell’intervento di ristrutturazione edilizia di cui alla lettera d) dell’art. 3, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, che sia aderente alla (e non tradisca la) finalità di conservazione del patrimonio edilizio esistente, finalità che contraddistingue tale intervento rispetto a quelli di “nuova costruzione” comporta che, anche dopo la novella del 2020, “permane il requisito, insuperabile, per cui deve pur sempre trattarsi di interventi di recupero del medesimo immobile ancorché trasformato in organismo edilizio in tutto o in parte diverso. Per cui, in tale quadro va esclusa la moltiplicazione, da un unico edificio, di plurime distinte strutture o, di converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio” (Cass. penale n. 1669/23 in riferimento ad una fattispecie di demolizione di una casa colonica, già esistente e costituita da due unità immobiliari e da alcuni annessi agricoli, con costruzione, in luogo delle predette strutture, di un complesso residenziale costituito da dieci villini in linea e un parcheggio a raso).

Sarebbe, pertanto, illogico ritenere che la ristrutturazione edilizia demoricostruttiva, che costituisce un intervento che presenta un maggiore impatto edilizio rispetto al “completamento” ex art. 3 ter l.r. n. 21/09, sia assoggettata a limiti più stringenti del completamento stesso.

Ulteriore profilo di illegittimità del gravato permesso concerne il calcolo dell’ampliamento autorizzato da Roma Capitale.

In sede di interpretazione dell’art. 3 ter l.r. n. 21/09 si è avuto modo di precisare che in tutti i casi di ristrutturazione edilizia, sostituzione edilizia demoricostruttiva e completamento, l’ampliamento deve essere parametrato sulla sola superficie utile o volumetria già esistenti e realizzate; in particolare, nell’ipotesi di completamento, tale ampliamento non può essere calcolato in riferimento alla mera potenzialità edificatoria oggetto del titolo edilizio scaduto.

Nella fattispecie, invece, il permesso di costruire del 2022 ha autorizzato un ampliamento parametrato alla mera potenzialità edificatoria del permesso del 2005, scaduto e, per altro, autorizzato in deroga ai sensi dell’art. 14 d.p.r. n. 380/01 per l’ampliamento della struttura sanitaria prima esistente.

I tre profili d’illegittimità accertati, relativi a) alla mancanza di un edificio o parte di edificio esistente e alla conseguente non riconducibilità dell’intervento (di nuova costruzione) ad una delle tre tipologie (ristrutturazione edilizia, sostituzione edilizia demoricostruttiva e completamento) ammesse dall’art. 3 ter l.r. n. 21/09, b) all’inesistenza di una significativa continuità, negli elementi essenziali, tra immobile oggetto del permesso scaduto del 2005 ed edifici assentiti con il permesso del 2022 e c) all’erroneo calcolo dell’ampliamento assentito comportano, di per sé soli, l’annullamento dei gravati permessi di costruire.

La fondatezza delle doglianze esaminate comporta l’accoglimento del ricorso e l’annullamento del permesso di costruire del 2022 e degli atti connessi tra cui la relazione istruttoria, il parere espresso dalla Regione Lazio e il verbale di chiusura della conferenza dei servizi di cui alla nota del Dipartimento PAU di Roma Capitale.