Con sentenza 6 maggio 2024, n. 145, il TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, ha ribadito che non la semplice volontà di riqualificare un edificio a destinazione non residenziale dismesso o in via di dismissione può sorreggere un intervento incrementativo edilizio da realizzare con ampliamento di volumetria e superficie utile, essendo imprescindibile, al fine di conseguire la premialità richiesta, il perseguimento del duplice fine alternativamente richiesto, ossia la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o la riqualificazione di un’area urbana degradata. E tanto in ragione del carattere eccezionale e derogatorio dell’art. 5 comma 9 d.l. 70/2011, il quale, integrando una norma di favore, va definito come norma ‘eccezionale’, in quanto diretto a regolare in termini diversi un minor numero di ipotesi rispetto a quelle ‘ordinarie’, di talché il medesimo non è suscettibile di interpretazione in senso estensivo.
I ricorrenti hanno impugnato il permesso di costruire con il quale il Comune di Pescara ha autorizzato la società alla realizzazione di un intervento di ristrutturazione, previa demolizione e ricostruzione con ampliamento, di un fabbricato di un solo piano.
Sussiste la loro legittimazione a ricorrere secondo il criterio della vicinitas, facendo i medesimi valere tra l’altro la violazione della normativa sulle distanze e sul carico urbanistico (Tar Genova, sentenza 1406 del 2013).
In ogni caso, contrariamente a quanto sostenuto dalle controparti, l’interesse legittimo, per ottenere tutela deve essere differenziato, ma non è una mera posizione processuale a tutela di altra posizione giuridica sostanziale di diritto soggettivo che deve necessariamente preesistere (le controparti ritengono in proposito che non esista alcun diritto di veduta pur non contestando in modo specifico che non esista il pregiudizio allegato dai ricorrenti); difatti lo stesso interesse legittimo è una posizione sostanziale, che si compone strutturalmente della violazione di una norma di azione della pubblica amministrazione e della correlata lesione a un bene-interesse differenziato di un soggetto; ne consegue che, nel caso di violazioni edilizie, sono legittimati i vicini che hanno un oggettivo interesse a mantenere il precedente assetto urbanistico ed edilizio di cui godevano anche in via di mero fatto e non necessariamente sulla base di un diritto reale o personale (come a esempio nel caso di migliore veduta, o maggiore luminosità, cfr. Consiglio di Stato sentenza 3744 del 2010; Tar Catania sentenza 482 del 2012).
Peraltro, secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa, il rapporto di vicinitas, ossia di stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento contestato, è idoneo e sufficiente a fondare sia la legittimazione (ossia la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata) quanto l’interesse a ricorrere (ossia la sussistenza di una lesione concreta e attuale alla detta situazione giuridica per effetto del provvedimento amministrativo impugnato) (cfr. Consiglio di Stato sentenza 6761 del 2021); opera dunque senz’altro quantomeno come presunzione.
Secondo la giurisprudenza che il Collegio condivide, il termine per impugnare il permesso di costruire decorre dall’effettiva conoscenza dell’atto, senza che rilevino forme di pubblicità quale l’apposizione nel cantiere di un cartello indicante gli estremi del titolo o l’affissione dell’atto all’albo pretorio (così, tra le tante, T.A.R. Campania Napoli Sez. VIII, 24/11/2016, n. 5466); dunque chi intende eccepire la tardività del ricorso ha l’onere di provare che la parte ricorrente aveva già una piena ed effettiva conoscenza dell’atto impugnato (così Cons. Stato Sez. V, 16-04-2013, n. 2107); conoscenza che, per il terzo controinteressato, di regola coincide col momento in cui le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l’entità delle violazioni urbanistiche (così, tra le tante, T.A.R. Campania Napoli Sez. VIII, 23-08-2016, n. 4049); alla luce di tali principi ermeneutici l’odierno ricorso non può ritenersi tardivo facendo decorrere il dies a quo dal giorno di mera affissione del cartello di cantiere (Tar Napoli sentenza 2965 del 2018); nel caso in esame, peraltro, il cd. rendering, cioè la generazione grafica della immagine dell’opera finita, apposto sul cantiere, non appare univocamente idoneo a manifestare con piena evidenza la portata lesiva del titolo edilizio impugnato, atteso che esso ha carattere bidimensionale, mostrando solo la facciata dello stabile (come si nota nell’allegato prodotto dalla controinteressata), sicché non è percepibile quantomeno la restante volumetria posteriore del fabbricato e dunque il suo impatto reale; fermo restando che anche gli edifici laterali non appaiono realizzati in modo realistico al punto di creare affidamento su una corrispondenza in scala delle distanze e dell’effettivo inserimento rispetto all’esistente (Tar Lecce, sentenza 1929 del 2013).
Nel permesso di costruire impugnato sono richiamate la Legge Regionale n. 49/2012 e successive modifiche ed integrazioni e la delibera di Consiglio Comunale n. 163 del 31 ottobre 2017 di recepimento della medesima.
Tutto ciò premesso, e introducendo l’esame del merito, il Collegio rileva che la censura – che postula che l’intervento di ristrutturazione, in deroga ai sensi dell’articolo 2 bis comma 1 ter del dpr 380 del 2001, richieda comunque la previsione di incentivi da parte di altre disposizioni normative esterne a essa – appare fondata, ma, ai fini della sussistenza dell’interesse a ricorrere, deve essere esaminata congiuntamente con la domanda subordinata, con la quale si impugna anche la delibera 20 del 2023; ciò perché, come pure sarà meglio analizzato nel prosieguo, nel caso di specie l’intervento rientra tra quelli ammessi a premio di volumetria sulla base della delibera comunale di attuazione della legge regionale 49/12, e dunque sussiste la normativa esterna, attuata da ultimo proprio con la delibera del 2023, quale presupposto per l’applicazione dell’articolo 2bis comma 1 ter cit.
Appaiono infine fondati i motivi di censura proposti in via subordinata avverso tale delibera comunale del 2023 di recepimento dei benefici del cd. decreto sviluppo.
Ai sensi dell’articolo 5 comma 9 del dl 70 del 2011, alle Regioni viene demandata la disciplina di misure incentivanti in materia edilizia “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili”, e il comma 14 prevede un potere sostitutivo preventivo in caso di inerzia delle Regioni stesse (atteso che il governo del territorio è oggetto di competenza concorrente ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione), rinviando, per la procedura di accesso ai benefici, nelle more dell’attuazione regionale, all’articolo 14 del dpr 380 del 2001, così disvelando pure che si tratta di misure tese sostanzialmente a realizzare, anche poi a regime su base normativa regionale e previa attuazione da parte dei Comuni, una ipotesi generale del permesso di costruire in deroga (siamo cioè pur sempre nell’ambito delle deroghe generali/speciali al principio della pianificazione del territorio, disposte per ragioni di interesse pubblico).
Già dalla disposizione dell’articolo 5 comma 9 del d.l. 70 del 2011, appena richiamata, e da quanto sinora esposto, emerge che i singoli Comuni, anche se con legge regionale gli viene conferita la possibilità di determinarsi in modo unitario con riferimento a tutto il territorio di competenza (e cosi in Abruzzo, “su tutto il territorio o parti di esso”, e tra l’altro i Comuni “possono” non devono, cfr. art. 1 comma 2 LR 49 del 2012), sono comunque obbligati a conservare il carattere speciale ed eccezionale delle deroghe e dunque, tra l’altro, specificare in modo puntuale quali solo le aree o i singoli edifici che, per attuare gli interessi previsti dalla legislazione statale e regionale, possono accedere a tali benefici perché si trovano nelle previste condizioni (e ciò trova conforto anche nella legislazione abruzzese, che dunque, cosi interpretata, non presenta inconciliabili profili di contrasto con i principi fondamentali dettati dalla normativa statale concorrente: “sulla base di specifiche valutazioni o ragioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico, ambientale, in relazione alle caratteristiche proprie delle singole zone ed al loro diverso grado di saturazione edilizia”, art. 2 comma 2 L.R. 49 del 2012): la natura derogatoria è analoga a quella speciale di cui all’articolo 14 del dpr 380 del 2001, benché su scala comunale e dunque complessivamente valutata (e per quello nella medesima legge regionale viene opportunamente specificato che non si tratta di norme di pianificazione, dovendo conservare il carattere derogatorio e dunque eccezionale).
In altri termini, invece di richiedere volta per volta la delibera autorizzatoria in deroga da parte del Consiglio comunale (come invece accadeva nella fase transitoria prevista dal d.l. 70 del 2011 prima dell’intervento della disciplina normativa regionale, cfr. Tar Pescara sentenza 351 del 2017; Consiglio di Stato sentenza 1828 del 2017), a regime è stata prevista la possibilità dei Comuni di determinarsi in modo complessivo con una delibera di carattere generale, che riconosca nelle singole aree o per i singoli edifici la sussistenza delle condizioni per applicare la disciplina premiante in deroga alla disciplina urbanistica ordinaria (volumetria aggiuntiva, possibilità di delocalizzare la volumetria in area diversa, cambio di destinazione d’uso, modifiche alla sagome degli edifici) (cfr. Tar Torino, sentenza 91 del 2016: “al pari del permesso di costruire in deroga disciplinato dall’art. 14 del d.p.r. n. 380/2001, il permesso di costruire rilasciato ai sensi dell’art. 5, comma 9 e seguenti, del D.L. n. 70 del 2011 determina una deroga alla disciplina ordinaria e alle previsioni degli strumenti urbanistici ed è pertanto un istituto di carattere eccezionale giustificato dalla necessità di soddisfare esigenze straordinarie rispetto agli interessi primari garantiti dalla disciplina urbanistica generale; in quanto tale, esso è applicabile esclusivamente entro i confini tassativamente previsti dal legislatore statale”).
Siccome la individuazione dei casi di deroga deve essere necessariamente rimessa al Consiglio comunale (come riconosciuto dalla giurisprudenza anche prima degli interventi attuativi regionali nel succitato periodo transitorio), nelle relative delibere tali deroghe devono essere ben puntualizzate, motivate e specificate, da un lato perché non residua alcun potere valutativo e ricognitivo in capo ai dirigenti, dall’altro perché individuare genericamente tutto il territorio comunale corrisponderebbe di fatto a omettere qualsivoglia effettiva valutazione in ordine alla sussistenza dei succitati eccezionali presupposti di legge.
I benefici previsti dall’art. 5 hanno carattere eccezionale e sono ammessi solo se rivolti alla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o a promuovere o agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate e tali condizioni devono sussistere per tutti gli interventi edilizi, di natura sia residenziale sia non residenziale; il legislatore, infatti, sia pure in vista di un rilancio delle attività economiche inerenti all’edilizia, non ha affatto inteso liberalizzare e generalizzare ogni intervento edilizio incrementativo degli edifici esistenti, ma ha collegato l’obiettivo di rilancio dell’attività edilizia a specifiche e ineludibili finalità relative all’interesse ad un miglioramento del tessuto urbanistico, cui sono chiaramente correlate le due alternative finalità/condizioni di ammissibilità dell’intervento: “razionalizzazione del patrimonio edilizio” e “riqualificazione dell’area urbana degradata” (Consiglio di Stato sentenza 6761 del 2021; Cass. pen. Sez. III, 23 gennaio 2020, n. 2695).
In altre parole, “non la semplice volontà di riqualificare un edificio a destinazione non residenziale dismesso o in via di dismissione può sorreggere un intervento incrementativo edilizio da realizzare con ampliamento di volumetria e superficie utile, essendo imprescindibile, al fine di conseguire la premialità richiesta, il perseguimento del duplice fine alternativamente richiesto dalla norma, ossia la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente o la riqualificazione di un’area urbana degradata. E tanto in ragione del carattere eccezionale e derogatorio della disposizione in parola la quale, integrando una norma di favore, va definita come norma ‘eccezionale’, in quanto diretta a regolare in termini diversi un minor numero di ipotesi rispetto a quelle ‘ordinarie’, di talché la medesima non è suscettibile di interpretazione in senso estensivo” (Tar Lazio sentenza 17543 del 2022).
“Solo nell’ambito di tale cornice, e in presenza di tali presupposti, può assumere rilievo … la circostanza che il progettato intervento edilizio consegua anche ulteriori apprezzabili risultati sul piano della razionalizzazione dei consumi energetici, posto che, inequivocamente, essa configura un’eventualità apprezzabile dalla legislazione regionale attuativa (“…tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili…”)” (Consiglio di Stato sentenza 4088 del 2015).
Occorre ribadire che, nella interpretazione della normativa regionale, devono esportarsi le conclusioni riguardanti i principi fondamentali dettati dalla normativa nazionale, tenendo conto che di quest’ultima quella regionale costituisce attuazione (Tar Lazio sentenza 17543 del 2022).
Trattandosi di legislazione concorrente, i principi enuncleabili dal d.l. 70 del 2012, come interpretati dalla giurisprudenza, hanno senz’altro carattere di principi fondamentali (Tar Bari sentenza 1396 del 2022), e dunque vincolano anche la interpretazione della normativa regionale, che deve essere costituzionalmente orientata.
Pertanto, innanzitutto, sono due le ipotesi che devono ricorrere e conservare il carattere di eccezionalità: “a) va esclusa ogni interpretazione estensiva della stessa che renda ammissibili interventi edilizi del tipo di quelli consentiti dalla legge rivolti ad edifici privi di quei caratteri di degrado, abbandono, dismissione, inutilizzo o in via di dismissione o rilocalizzazione che la norma pretende per legittimare il compimento di siffatti interventi incentivanti; b) gli interventi in questione, intanto possono beneficiare di detta legislazione di favore in quanto, comunque, abbiano ad oggetto edifici insistenti in aree urbane degradate e, in assenza di detto presupposto, l’intervento non può essere consentito” (Tar Lazio sentenza 17543 del 2022);
Seppure non si voglia ritenere che i due concetti di razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e di riqualificazione di aree degradate siano coincidenti o subordinati (nel senso che, come ritenuto da parte della giurisprudenza, il beneficio possa essere concesso anche in aree non degradate, Tar Milano sentenza 194 del 2013), ciò nondimeno appare evidente che il concetto di razionalizzazione del “patrimonio” edilizio mira al risparmio del suolo, secondo il concetto di stampo eurounitario di economica circolare, e dunque a favorire il riuso di immobili dismessi, ma anche ad evitare eccessive concentrazioni e saturazioni abitative solo in determinate aree, in ipotesi maggiormente richieste; altrimenti sarebbe evidente, tra l’altro, il contrasto con l’altro fine, che è quello della riqualificazione urbanistica, che mira alla valorizzazione e al recupero di aree degradate e generalmente periferiche; dunque appare chiaro che le due finalità sono comunque interconnesse tra loro, come si desume dalle numerose pronunce citate (cfr. anche la rubrica dell’articolo 2 della legge regionale 49 del 2012: “Disposizioni comuni agli interventi di riqualificazione urbana realizzati attraverso la ristrutturazione, l’ampliamento e la demolizione e ricostruzione”).
In altri termini, anche se le finalità possono essere concorrenti, di certo non possono essere perseguite in modo conflittuale tra loro, ed ecco che la valutazione deve essere sempre complessiva e tenere conto della realizzazione di entrambi gli interessi perseguiti (pure la recente L.R. 58 del 2023, richiamata dalla difesa comunale, all’articolo 1 prevede lo scopo del risparmio del suolo, ma anche il miglioramento della qualità urbana, quindi nell’attuare l’uno deve tenersi conto anche dell’altro).
L’articolo 2 della LR 49/12, coerentemente con quanto sinora illustrato, così si esprime “…in relazione alle caratteristiche proprie delle singole zone ed al loro diverso grado di saturazione edilizia e della previsione negli strumenti urbanistici dei piani attuativi, di avvalersi, su tutto il territorio comunale o parti di esso, delle misure incentivanti previste dall’articolo 3, commi 2 e 4 e dall’articolo 4, commi 2, 4 e 5 della presente legge. Il provvedimento comunale, di cui al presente comma, non riveste carattere di pianificazione o programmazione urbanistica comunque denominata”.
Già da tali espressioni si desume che la razionalizzazione del patrimonio edilizio deve tenere conto del grado di saturazione delle singole zone, sempre nella ricordata finalità di perseguire razionalizzazione e riqualificazione, e non speculazione e sovraffollamento delle zone più di pregio, peraltro in deroga anche agli standard urbanistici, resi monetizzabili; il risparmio del suolo non può essere strumentalmente decontestualizzato, come se fosse un obiettivo avulso dagli altri, al solo fine di generalizzare premi di volumetria in deroga e a pioggia.
Si consideri a tal proposito che, essendo gli interventi pur sempre rimessi a esclusiva iniziativa di privati (specie ove direttamente ammessi senza la mediazione di un piano), appare evidente che, se generalizzati, possono tendere a concentrarsi naturalmente in zone più redditizie proprio a scapito di quelle da riqualificare, contraddicendo lo scopo della legge.
In tale ottica, e alla luce dei principi desumibili dalla normativa statale di cui quella regionale costituisce attuazione, devono essere interpretate le finalità enucleate all’articolo 2 comma 1 della medesima legge regionale (“per favorire azioni di riqualificazione urbana o al fine di migliorare la qualità del patrimonio edilizio esistente, sono ammessi interventi di ristrutturazione, ampliamento e di demolizione e/o ricostruzione con realizzazione, quale misura premiale, di un aumento di volumetria rispetto a quella legittimamente esistente”): miglioramento della qualità del patrimonio edilizio esistente non vuol dire che ogni intervento di ristrutturazione edilizia può beneficiare di un premio di cubatura, altrimenti si cadrebbe nella interpretazione, che la giurisprudenza amministrativa, come sopra esposto, non condivide affatto: vi si darebbe una interpretazione estensiva che prescinde dalla finalità pubblicistica di razionalizzazione (non del singolo edificio ma del patrimonio edilizio) e riqualificazione urbana (“il legislatore, infatti, sia pure in vista di un rilancio delle attività economiche inerenti all’edilizia, non ha in sostanza inteso liberalizzare e generalizzare ogni intervento edilizio incrementativo degli edifici esistenti, collegando l’obiettivo di rilancio dell’attività edilizia a specifiche e ineludibili finalità relative all’interesse… ad un miglioramento del tessuto urbanistico, cui sono chiaramente correlate le due alternative finalità/condizioni di ammissibilità dell’intervento, “razionalizzazione del patrimonio edilizio”, “riqualificazione dell’area urbana degradata“, cfr. Consiglio di Stato sentenza 6761 del 2021; Cass. pen. Sez. III, 23 gennaio 2020, n. 2695).
Il Comune sostiene che non avrebbe operato alcuna “inammissibile generalizzazione” della deroga alla pianificazione consentita dal decreto sviluppo, e a tal fine rinvia alle campiture gialle (che indicano le aree dove è consentita la deroga) allegate alle delibere del 2017 e del 2023, nulla specificando invece in ordine a concrete motivazioni sui fini imposti dal legislatore nazionale e regionale di cui si è detto, con riferimento alle singole aree o edifici.
Da tali planimetrie segnate in giallo si desume viceversa che l’Ente locale ha esteso il beneficio praticamente quasi a tutto il suo territorio, escludendo pressoché solo i casi espressamente contemplati dalla legge regionale al comma 8 dell’articolo 2; e ciò soprattutto con la delibera del 2023 che appare aver ulteriormente ampliato tale inclusione, tranne limitate eccezioni, fino a ricomprendervi anche la parte dell’edificato costiero.
Una tale decisione si manifesta del tutto incoerente con quanto sinora illustrato, postulando o che il fine della legge sia invece solo quello di aumentare le volumetrie degli edifici esistenti, demolendoli per realizzarne di più alti (peraltro monetizzando gli standard e dunque peggiorando la qualità urbana) o che tutto il patrimonio edilizio del Comune sia indiscriminatamente irrazionale e da riqualificare in deroga alla pianificazione urbanistica.
I rilievi sin qui esposti appaiono deporre in modo univoco nel senso che il Comune, contrariamente a quanto sostenuto dalla sua difesa, non ha affatto proceduto “sulla base di specifiche valutazioni o ragioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico, ambientale, in relazione alle caratteristiche proprie delle singole zone ed al loro diverso grado di saturazione edilizia e della previsione negli strumenti urbanistici dei piani attuativi”, come invece impone l’articolo 1 comma 2 della legge regionale 49 del 2012.
Tali valutazioni, si ripete, ovviamente non possono condurre al risultato di estendere il beneficio a tutto il territorio, o alla quasi totalità dello stesso, facendogli perdere il necessario requisito della eccezionalità (che ovviamente si perde ove le ipotesi di deroga, che in quanto tali devono restare circoscritte, superano quelle ordinarie, cfr. Tar Lazio sentenza 17543 del 2022: “E tanto in ragione del carattere eccezionale e derogatorio della disposizione in parola la quale, integrando una norma di favore, va definita come norma ‘eccezionale’, in quanto diretta a regolare in termini diversi un minor numero di ipotesi rispetto a quelle ‘ordinarie’, di talché la medesima non è suscettibile di interpretazione in senso estensivo”).
Ciò vale tanto più se, come ben evidenziato dalla difesa di parte ricorrente, tale estensione della deroga avviene senza alcuna adeguata valutazione, non solo degli illustrati interessi tipici da perseguire e del loro necessario coordinamento, ma anche in ordine alla compatibilità di tali benefici con le caratteristiche delle singole zone e il loro grado di saturazione (circostanza che appare ancor più rilevante se si tiene conto del fatto che con la delibera del 2023 si è ampliata anche la possibilità di monetizzare gli standards, ex articolo 2 comma 7 della legge regionale 49 del 2012).
Giova ulteriormente sottolineare, sotto altro profilo, che il comma 2 dell’articolo 1, della legge regionale 49 del 2012, deve essere interpretato nel senso che è la delibera comunale che può essere adottata con riferimento o meno a tutto il territorio, ma le misure vanno adattate alle singole zone e alle singole loro esigenze (“caratteristiche proprie delle singole zone”), in relazione ai fini individuati dal legislatore nazionale e ripresi da quello regionale.
Una diversa interpretazione, infatti, porrebbe la legge regionale in irrimediabile contrasto non solo con i principi fondamentali tracciati dal d.l. 70 del 2012 e dunque con l’articolo 117 della Costituzione sotto tale profilo; ma anche con i principi fondamentali della materia del governo del territorio stabiliti dall’articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, in base al quale le deroghe generali alla pianificazione del territorio sono ammissibili solo in quanto conservino quantomeno il carattere della eccezionalità e della funzionalizzazione a specifici obiettivi, senza che possano comportare una stabile deroga indiscriminata alla pianificazione (Corte Costituzionale, sentenza 17 del 2023).
Derogando alla regola generale della pianificazione si deroga anche alla possibilità dei cittadini di parteciparvi con proprie osservazioni; dunque, la eccezionalità rileva anche sul piano procedimentale, nel senso che, proprio perché le delibere attuative delle premialità statali e regionali non seguono le regole della pianificazione, devono essere a maggior ragione di carattere eccezionale e di circoscritta applicazione.
Seguendo la diversa interpretazione, pure prospettata dal Comune, viceversa, come illustrato, tenuto conto del disposto di cui all’articolo 2 bis comma 1ter del dpr 380 del 2001, nella gran parte del territorio comunale a ogni demo-ricostruzione potrebbe potenzialmente accedere il beneficio in deroga (con stravolgimento generalizzato della pianificazione); viceversa proprio il rinvio esterno operato dagli articoli 3 lett. d) e 2bis comma 1 ter a diverse norme incentivanti, postula che il fine del legislatore non sia stato solo quello di ottenere una mera ristrutturazione e un mero ammodernamento degli immobili esistenti.
Qui sovviene l’ulteriore aspetto, già accennato: il comma 1 ter dell’articolo 2bis del dpr 380 del 2001 (“Gli incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti”) prevede le deroghe sul presupposto che ci siano degli incentivi, e questi nel caso di specie sono previsti dalla legge regionale e attuati dal Comune sul territorio (cfr. l’art. 3 lett. d) del medesimo dpr: “L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”).
Dunque, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del Comune per contestare l’interesse alla relativa impugnazione, le delibere comunali incidono senz’altro sulla possibilità o meno di realizzare gli interventi, quali quello in esame, ai sensi del comma 1 dell’articolo 2 bis del dpr 380 del 2001.
Quanto alla questione circa la presunta tardività della impugnazione o la carenza di interesse sotto altro profilo, il Collegio osserva che la delibera del 2023, nel rivedere e confermare quella del 2017 nei modi e termini illustrati, si manifesta come atto confermativo e non meramente confermativo e pertanto è idonea a far ridecorrere i termini per la impugnazione, contenendo una nuova istruttoria, sia pure insufficiente, e una nuova valutazione degli interessi in gioco (Consiglio di Stato sentenza 3301 del 2020).
Nel caso di specie, tutti questi rilievi assumono carattere assorbente, poiché dalla delibera di C.C. del 2023, che assorbe quella del 2017, non è dato desumere legittime ragioni, tra quelle tipizzate, per cui l’edificio in esame sia stato posto nelle condizioni per poter beneficiare degli incentivi in questione, la cui attuazione lede l’interesse di parte ricorrente.
Poiché il permesso di costruire, per le ragioni illustrate, attua la deroga generalizzata, come ampliata e confermata con la delibera del 2023, la caducazione di quest’ultima vizia il primo per collegamento funzionale e ne impone dunque l’annullamento; e ciò è determinate per l’interesse di parte ricorrente, atteso che dalle risultanze esposte appare che, in difetto del premio volumetrico, la sopraelevazione in questione non sarebbe consentita o comunque non con le dimensioni attuali che i medesimi ritengono pregiudizievoli rispetto alla preesistenza.