PREFAZIONE ALLA SETTIMA EDIZIONE
La funzione principale di un Manuale è certamente quella di fornire al lettore – non solo studenti universitari ma anche operatori, giuristi, urbanisti, ingegneri, amministratori pubblici e privati – gli strumenti per comprendere la disciplina positiva della materia e potersene avvalere nell’affrontare tutte le dinamiche dei processi di trasformazione del territorio.
Dal 1994 – con il benevolo avallo di un maestro come Massimo Severo Giannini che volle recensirne la prima edizione (Rivista trimestrale di diritto pubblico ora in scritti Giannini 1996-1999 vol. IX 2006, 386) sono passati ben 26 anni e questa settima edizione non si discosta dall’impianto originario che accomuna nel testo tutte le discipline attinenti al governo del territorio nel senso più ampio possibile dell’espressione, dalla sua conservazione alle varie modalità di trasformazione.
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Il bilancio che se ne può trarre – al di là della normativa statale esistente – mette in evidenza il permanere di una serie di discrasie, rispetto all’ordinamento di altri paesi europei, cui si accompagnano linee di sviluppo che assumono spesso contorni contraddittori e incerti.
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In primo luogo, continua a mancare una legge cornice che individui i principi fondamentali della materia “governo del territorio”. Non può considerarsi tale il TU 380/2001 che riguarda specificatamente l’edilizia, pur contenendo delle disposizioni di principio relative alla materia nel suo complesso.
L’attribuzione della competenza legislativa concorrente alle Regioni ordinarie, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario dell’istituzione, ha spinto Filippo Salvia nella prefazione del suo Manuale di diritto urbanistico del 2017 ad affermare che dopo l’avvento del regionalismo non esiste più un’unica disciplina urbanistica valida per l’intero territorio nazionale ma tanti diritti urbanistici quante sono le Regioni. L’iperbole è efficace e anche noi osserviamo, similmente, che «non è più possibile oggi parlare di un “modello” del piano regolatore generale su scala nazionale, ma deve piuttosto farsi riferimento a principi entro cui le Regioni modellano autonomamente la figura» (pag. 134). L’assenza di principi codificati a livello nazionale favorisce, tuttavia, una sorta di conflitto endemico tra Stato e Regioni sui rispettivi confini delle competenze legislative, consegnando alla Corte costituzionale – che negli anni da Corte dei diritti si è trasformata in Corte dei conflitti[1] – il compito di “scrivere” di volta in volta i principi della materia. Ne è recente, emblematico, esempio la sentenza n. 70 del 2020.
Allo stesso modo, la magistratura amministrativa è sempre più spesso chiamata a svolgere un ruolo “creativo” nella identificazione del regime di fattispecie innovative su cui la legislazione regionale si spinge al limite estremo della propria competenza. Si pensi alle questioni della perequazione urbanistica o del ricorso a strumenti di concertazione tra autorità pubbliche e soggetti privati, per non parlare dell’annoso problema del regime della proprietà privata nei confronti della disciplina di conformazione dei suoli.
Fortunatamente, al di fuori degli stretti confini della materia “governo del territorio” (che continua a coincidere con l’urbanistica dal punto di vista del riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni) costituisce ormai un punto fermo che il paesaggio e i beni culturali abbiano una disciplina differenziata e con carattere di preminenza. L’idea, inoltre, che il paesaggio costituisca il tessuto connettivo del territorio nella sua globalità, presente nel Codice dei beni culturali e ambientali, sembra farsi strada più in generale nelle politiche di pianificazione territoriale e urbanistica.
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Il tema si collega alla “fine dei piani di espansione” e all’obiettivo della riduzione del consumo di suolo, cui nel volume è dedicato il paragrafo 31, ma che attraversa orizzontalmente l’esposizione. La riduzione del consumo di suolo, variamente declinata in molte leggi regionali, non ha sinora trovato spazio nella legislazione statale, nonostante a essa si leghi il problema di fondo dell’urbanistica contemporanea, vale a dire la rigenerazione urbana. Per dirla con Renzo Piano, l’esigenza di ricostruire il costruito.
Un profluvio di disposizioni legislative regionali, spesso indotte da episodiche disposizioni statali a partire dal 2011, ha riproposto in chiave problematica il rapporto tra il piano (l’hardware) e gli interventi edilizi (il sofware). In sostanza, la “rigenerazione” sembra interpretata in prevalenza in chiave di agevolazione-semplificazione di interventi edilizi al di fuori della regia e strategia dei piani regolatori. Antesignano di questa tendenza è il cosiddetto Piano Casa del 2009, recepito dalle Regioni, che accorda per legge volumetrie premiali in deroga al PRG, in particolare per gli interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione. La lunga parabola – oggetto di continui interventi legislativi e di una sterminata casistica giudiziaria – della demolizione e ricostruzione come paradigma degli interventi edilizi di recupero, definiti per la prima volta nel lontano 1978, sembra essere giunta a compimento grazie alla legislazione di emergenza Codiv 19. Il c.d. DL semplificazioni[2] stabilisce, infatti, che la ristrutturazione edilizia sotto forma di demolizione e ricostruzione non incontri più limiti sul territorio comunale – eccezion fatta per le zone A – per quanto riguarda il rispetto di sagoma, altezza, prospetti, caratteristiche planovolumetriche e tipologiche nonché area di sedime. Al contempo si amplia oltremisura l’ambito di applicazione della SCIA a scapito del permesso di costruire, necessario solo per le ristrutturazioni che comportino aumento di volumetria.
La “filiera” edilizia del rinnovo urbano mal si concilia, però, con la rigenerazione urbana come nuova finalità del piano in luogo del vecchio «incremento edilizio dei centri abitati e [lo] sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno». Anzi, il piano finisce fatalmente per rinunciare a governare il rinnovo urbano per rincorrere le poche occasioni di espansione in aree inedificate.
Il piano regolatore dovrebbe, invece, occuparsi prioritariamente del rinnovo urbano, per esempio disciplinando gli interventi in zone, come certi quartieri novecenteschi, che, pur non essendo incluse nei centri storici, presentano caratteristiche meritevoli di essere preservate. Non sono sufficienti al riguardo quelle disposizioni che limitano l’iniziativa degli operatori attraverso la perimetrazione da parte dei comuni delle aree ove gli interventi in deroga siano vietati.[3]Questo modello finisce comunque per creare una sorta di doppio regime degli immobili da rinnovare all’interno del territorio comunale svincolato da politiche urbanistiche rispondenti a finalità condivise e trasparenti.
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Resta, infine, aperto il dibattito giuridico relativo alla forma e al contenuto del piano regolatore generale che dalla legislazione regionale, a partire dal 1995, ha subito modificazioni rilevanti. Si è passati dallo “sdoppiamento” del piano in strutturale e operativo, alla più recente modalità del territorio suddiviso dal piano in urbanizzato e non urbanizzato, riprendendo il modello tedesco (vedi la lr Emilia-Romagna n. 24 del 2017), per arrivare al piano di governo del territoriodel Comune di Milano al quale si applica per la prima volta la perequazione generalizzata a monte su tutto il territorio comunale da trasformare.
A entrare in crisi, pertanto, è la disciplina unitaria della conformazione dei suoli, che cede il passo alla differenziazione delle situazioni territoriali. Ferme restando le tendenze contraddittorie sopra ricordate, non si tratta più semplicemente di assegnare a un suolo destinazione d’uso e potenzialità edificatoria, ma di prendersi cura di aree già edificate, spesso caratterizzate da situazioni di disordine, degrado, fenomeni di sovraffollamento o abbandono, che richiedono una nuova visione prospettica delle residenze e della convivenza civile. Più in generale, la sfida per le città e le sue classi dirigenti è quella che nell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU indica nell’obiettivo di città e insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili. Tanto più questo obiettivo assume carattere di “urgenza storica” nella fase che viviamo mentre questo volume va alle stampe. La fase che ci condurrà – tra mille incognite ma altrettante opportunità – alle società “post-covid”. Senza un cambio di paradigma – che certo non riguarda il solo diritto urbanistico – che metta al centro la costruzione di città più vivibili e giuste, sarà sempre più difficile riassorbire gli shock creati dall’emergenza climatica e ambientale e le prossime epidemie saranno sempre più letali.
In questo quadro si colloca anche l’altra dimensione che ha attraversato il diritto urbanistico dagli anni Novanta del secolo scorso in poi, quella della concertazione pubblico/privato. È una dimensione che continua a caratterizzare la disciplina e la pratica dell’urbanistica, favorita dalla maggiore flessibilità dei piani regolatori. Nel corso degli anni è divenuto, però, sempre più evidente che occorre assicurate le condizioni perché il rapporto con i privati non si trasformi in una resa alla mera logica del profitto, così abdicando alle ragioni stesse della pianificazione urbanistica che si ritrovano negli articoli 2 e 3 della Costituzione: «L’urbanistica tende alla predisposizione delle condizioni fisiche e ambientali necessarie affinché la personalità individuale possa normalmente e liberamente esplicarsi. In questo fine gli ordinamenti moderni identificano un interesse pubblico meritevole di essere assunto dai pubblici poteri. In questa prospettiva le disposizioni costituzionali cui fare riferimento divengono gli artt. 2 e 3.2, i quali impegnano la Repubblica a promuovere un modello di società basato sui valori della solidarietà e dell’eguaglianza di opportunità» (pag. 40).
Queste condizioni ruotano tutte attorno al ruolo dell’amministrazione pubblica nella società e alla sua capacità di mettersi al servizio della comunità guidata dal faro del principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost. Vero, dunque, che occorre liberare gli apparati amministrativi dalle pastoie delle complicazioni procedurali e dal timore dell’illecito penale[4], ma al passaggio dal piano, come astratta collezione di regole, al progetto urbano, che favorisce occasioni di accordi con proprietà e imprese, deve corrispondere la riaffermazione della centralità della pianificazione della Città pubblica come momento tra i più alti della funzione democratica degli enti locali nel perseguire il benessere e lo sviluppo delle comunità che in essi si rispecchiano.
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Di tutte questi problemi, in continua e faticosa evoluzione abbiamo cercato di tener conto nel volume, consapevoli che un Manuale, se vuole assolvere alla sua funzione di introdurre effettivamente il lettore alla comprensione di un ramo del sapere, deve misurarsi coi “fatti” di Vichiana memoria. Per un manuale giuridico questo significa tentare di spiegare le norme, l’organizzazione e i rapporti in relazione ai fatti della società e dell’economia.
Gli AUTORI
Roma/Spoltore, 4 settembre 2020
[1] L’espressione è di Valerio Onida.
[2] L’art.10 del DL ha interamente sostituito l’art 3 co 1 lett. d) del TU 380/2001.
[3] Come nel caso della “Carta della qualità urbana” nel PRG di Roma approvato nel 2008 ma la cui disciplina è rimasta in gran parte inattuata fino a oggi.
[4]P.Urbani, Urbanistica consensuale, “pregiudizio” del giudice penale e trasparenza dell’azione amministrativa in Riv.Giur.Ed. 2009 n.2,47 ora in Scritti Scelti op.cit.1169.