In caso di edilizia residenziale pubblica non si applica l’art. 35 TUED, di Paolo Urbani

Con sentenza 15 novembre 2023, n. 9799, il Consiglio di Stato, sez. II, ha ribadito che Nel caso in cui vi sia una proprietà superficiaria privata al di sopra della nuda proprietà pubblica, come avviene tipicamente per gli interventi di edilizia residenziale pubblica, se, da un lato, si rafforza la necessità che il Comune presidi l’avvio dell’operazione, fino all’assegnazione delle unità immobiliari abitabili ai singoli aventi titolo; dall’altro, una volta effettuate le assegnazioni, si riverberano sui singoli assegnatari tutti gli obblighi propter rem, quale quello demolitorio.

Gli appellanti sono assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica. Unitamente agli altri assegnatari si sono visti recapitare un’ingiunzione a demolire opere interne realizzate in parziale difformità dai richiamati titoli edilizi.

Pur accomunati da identità di situazione fattuale, i vari condòmini hanno avuto sorti diversificate, anche sul piano processuale, avendo tutti gli altri avanzato istanza di fiscalizzazione dell’abuso, quale alternativa all’accertamento di conformità, mentre gli attuali appellanti si sono limitati a chiedere la sanatoria, ritenendo di esclusiva spettanza del Comune la valutazione della sussistenza degli estremi per l’irrogazione della sola sanzione pecuniaria.

Il primo giudice ha respinto nel merito il ricorso, avuto riguardo ai tre ricorrenti che non hanno chiesto la fiscalizzazione. Avverso detta sentenza, i ricorrenti hanno propugnato appello.

Il Collegio ritiene l’appello fondato.

La oggettiva difficoltà di inquadramento della vicenda consegue alla sovrapposizione che nei fatti è venuta a verificarsi tra due segmenti procedurali ontologicamente distinti, ovvero la fase sanzionatoria e quella esecutiva, a valle della quale si colloca di regola la possibile fiscalizzazione dell’abuso. La circostanza, infatti, che in corso di causa sia emerso l’avvenuto accertamento dell’impossibilità di eseguire coattivamente tutte le ingiunzioni al ripristino non implica ex se la caducazione dell’atto impugnato nel giudizio di tipo demolitorio. Rileva il Collegio come essa renda, caso mai, poco comprensibile l’approccio di ambedue le parti, stante che da un lato gli appellanti sembrano concentrare il proprio petitum sulla doverosa commutazione dell’atto demolitorio in atto ingiuntivo di sanzione pecuniaria, di fatto inutile stante che alla stessa dovrà comunque addivenirsi in fase esecutiva, salvo mettere in discussione il fondamento motivazionale posto a supporto dell’analoga scelta adottata per tutti gli altri assegnatari, a parità di condizioni; dall’altro, per la medesima ragione e in senso speculare, l’impossibilità oggettiva di procedere d’ufficio, ormai acquisita agli atti, rende a dir poco ultronea, se non addirittura pretestuosa oltre che infondata, l’insistenza del Comune per l’inoltro di un’istanza formale volta alla fiscalizzazione anche da parte degli “ostinati” appellanti.

Ciò detto, il Consiglio ritiene che il motivo di appello legato alla fiscalizzazione non possa essere accolto.

Il regime sanzionatorio declinato per il caso di parziale difformità, in quanto illecito connotato da minor disvalore giusta la sostanziale coincidenza delle opere realizzate con il modello progettuale, è evidentemente caratterizzato, per esplicita scelta legislativa, dal minor rigore delle conseguenze. A prescindere, pertanto, dall’eventuale riconducibilità dello stesso alla fattispecie di cui all’art. 44, comma 1, lett. a) del medesimo Testo unico il suo accertamento implica l’intimazione di ripristino dello stato dei luoghi ovvero, in alternativa, una sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392, della sola parte dell’opera realizzata in difformità, quantomeno laddove, come nel caso di specie, l’immobile sia ad uso abitativo.

Trattasi di una delle ipotesi comunemente denominate “fiscalizzazione” dell’abuso, termine funzionale ad evidenziare sinteticamente e già a livello definitorio la sua sostanziale monetizzazione, quale rimedio alternativo eccezionalmente concesso in luogo della demolizione. In particolare, si può accedere alla fiscalizzazione dell’abuso sia in caso di totale difformità o variazione essenziale dal titolo nell’ambito di una ristrutturazione edilizia (art.33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001); sia, come nella fattispecie che ci occupa, a fronte di accertata difformità solo parziale (art. 34, comma 2, e 2-bis, che ne ha esteso l’applicabilità anche agli interventi soggetti a S.c.i.a. alternativa al permesso di costruire di cui all’art. 23, comma 01); sia infine all’esito di un annullamento, giudiziale o in autotutela, del titolo stesso (art.38).

La differenza sostanziale tra le varie ipotesi di “monetizzazione” degli abusi va ravvisata negli effetti della stessa sulla regolarità dell’opera, sanata nel caso da ultimo citato (cui parte della dottrina accomuna le “monetizzazioni” pure alternative alla demolizione di cui agli artt. 36-37 del T.u.e.), solo “tollerata” negli altri. La fiscalizzazione dell’abuso che consegue all’annullamento del titolo edilizio (su cui v. Cons. Stato, A.p., 7 settembre2020, n. 17) postergata alla rilevata impossibilità, «in base a motivata valutazione», di rimuovere i vizi delle procedure amministrative, infatti, «produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36» (art. 38, comma 2). Nelle rimanenti ipotesi invece, in assenza di analoga indicazione da parte del legislatore, dopo non poche oscillazioni interpretative, la giurisprudenza pare attestata nell’escludere la portata sanante del pagamento della sanzione, ravvisandovi piuttosto una sorta di tolleranza formalizzata di una situazione non conforme ad ordinamento.

Sul piano dei presupposti oggettivi, mentre nel caso di variazione essenziale o totale difformità ovvero di illiceità dell’intervento sopravvenuta all’annullamento del titolo si fa riferimento all’impossibilità di esecuzione, il cui accertamento motivato è demandato espressamente, almeno nella prima ipotesi, ai competenti uffici tecnici comunali (art.33, comma 2), laddove si tratti di parziale difformità la stessa è limitata espressamente alla verifica dell’impatto sulla «parte eseguita in conformità», che non deve ricavarne pregiudizio.

Ad avviso del Collegio tale differenza, apparentemente minimale, costituisce un ulteriore tassello a riprova della proporzionalità del quadro delle reazioni dell’ordinamento rispetto al diverso disvalore degli illeciti: ferma restando la priorità sempre e comunque accordata all’opzione ripristinatoria, l’impossibilità di addivenirvi è affidata a più stringenti esigenze complessive di staticità e sicurezza della costruzione nel caso della variazione essenziale o totale difformità, mentre è circoscritta alla sussistenza di esigenze di salvaguardia in quanto tale della parte “buona” del manufatto, in caso di difformità parziale.

Alla natura eccezionale e derogatoria della monetizzazione dell’abuso consegue anche la necessità che vi si acceda su istanza della parte privata interessata ad evitare le conseguenze del prospettato ripristino ed in reazione allo stesso. Se tale è il modello procedurale generalmente applicabile, tuttavia, esso non implica certo che in singoli casi, nei quali l’impossibilità di esecuzione, assoluta o commisurata alla parte lecita dell’opera, già risulti perché per varie ragioni accertata ex officio, il Comune non possa attivarsi autonomamente, sol perché non è stato cioè compulsato dalla proprietà. In altre parole, seppure non possa configurarsi, come preteso dagli appellanti, un vero e proprio obbligo di adoperarsi preventivamente per le necessarie verifiche a carico della p.a. procedente, niente vieta che ove le stesse ci sono state, obiettive esigenze di economia procedimentale inducano a tradurne le risultanze negli atti conseguenziali. L’impossibilità esecutiva, infatti, oltre e prima che presupposto giuridico per accedere alla fiscalizzazione, integra un fattore materiale impeditivo dell’esecuzione in fatto, sicché a fronte dello stesso l’unico rimedio residuo a disposizione dell’ordinamento per reagire in maniera mirata alla situazione di accertata illegalità non può che essere la sanzione pecuniaria. Quanto detto trova del resto riscontro in talune pronunce, in particolare di prime cure, che al fine di non vanificare le risultanze di accertamenti già nella disponibilità del Comune, hanno affermato la legittimità dell’immediata irrogazione della sanzione pecuniaria, non preceduta cioè da ingiunzione a demolire, in quanto quest’ultima si rivelerebbe sostanzialmente superflua, giusta l’acquisita impossibilità della sua successiva attuazione (sul punto, si veda Cons. Stato, sez. II, ordinanza 6 dicembre 2022,n. 5710).

Nel caso di specie, tuttavia, l’impossibilità di procedere all’esecuzione della demolizione è stata accertata, per esplicita ammissione degli appellanti, in epoca successiva all’adozione della relativa ingiunzione. A ciò consegue che essa non può in alcun modo inficiarne la validità, facendo apparire come doveroso un accertamento d’ufficio dell’impossibilità demolitoria prima di ingiungere il ripristino, laddove lo stesso doveroso non è.

Gli appellanti contestano più in generale il fondamento giuridico dell’ordinanza impugnata, sia in quanto li individua quali destinatari (esclusivi) della stessa, pur essendone conosciuta la estraneità ai fatti, sia perché non tiene conto del ruolo del Comune nell’intera vicenda.

L’affermazione, che il Collegio ritiene di condividere, necessita tuttavia di precisazioni.

In generale, dunque, vale per le sanzioni in materia urbanistico-edilizia il principio in forza del quale esse colpiscono il bene realizzato o modificato in assenza del giusto titolo e non il comportamento che vi ha dato origine. In quest’ottica, esse possono essere irrogate anche nei confronti del proprietario non responsabile, in quanto si trova in una relazione qualificata con l’immobile, che lo identifica come il solo soggetto legittimato ad intervenire, eliminando l’abuso. Inoltre, il suo coinvolgimento trova giustificazione nel fatto che diversamente egli comunque verrebbe ad estendere il suo diritto di proprietà sull’opera abusivamente realizzata, beneficiandone, a prescindere da chi ne sia l’autore materiale.

Tali principi subiscono tuttavia talune mitigazioni – recte, adattamenti – per esplicita scelta del legislatore in relazione a specifiche ipotesi, tra le quali, almeno entro certi limiti, figura anche quella di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001. La norma, infatti, per il caso di parziale difformità dal titolo non replica il modello contenuto nell’art. 31 del medesimo Testo unico con riferimento agli abusi più gravi, individuando quali destinatari esclusivi dell’ingiunzione demolitoria/ripristinatoria i soli responsabili dell’abuso, senza menzionare in alcun modo anche i proprietari. A differenza, dunque, di quanto accade per i rimanenti abusi edilizi commessi in aree di proprietà privata, dove la sanzione demolitoria può, come detto, essere irrogata anche al proprietario non responsabile, il caso di specie parrebbe presupporre l’imputabilità dell’opera abusiva al destinatario della sanzione.

Va al riguardo ulteriormente ricordato come non a caso l’atto impugnatosi concluda con una mera minaccia dei «provvedimenti amministrativi conseguenziali di legge», senza in alcun modo specificarne il contenuto. Ad avviso del Collegio, la genericità della stessa costituisce ulteriore conferma del minor rigore della scelta sanzionatoria individuata dal legislatore per l’illecito de quo, in quanto discende dalla mancanza di qualsivoglia previsione in ordine alla conseguenza attribuita all’inottemperanza. Essa, infatti, non determina l’avvio di quel procedimento di secondo livello declinato all’art. 31, comma 3, per i casi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, totale difformità o variazione essenziale, destinato a sfociare nell’ablazione della proprietà. L’ingiunzione al ripristino dello stato dei luoghi, pertanto, diviene esclusivamente il presupposto legittimante la successiva esecuzione in danno, quale esemplificazione normativamente prevista della esecutorietà degli atti amministrativi contenenti un obbligo di facere che l’art. 21-ter della l. n. 241 del1990 declina in termini di esecuzione coattiva dell’adempimento imposto nei confronti di una p.a.

Non privi di pregio si palesano poi gli ulteriori rilievi, con i quali gli appellanti valorizzano il contesto specifico nel quale si colloca l’avvenuta consumazione degli abusi di cui è causa. Le loro abitazioni fanno infatti parte di un compendio immobiliare realizzato nell’ambito di un’operazione di edilizia residenziale pubblica.

L’espressione “edilizia residenziale pubblica” è stata introdotta con la legge 22 ottobre 1971, n. 865, in contrapposizione alla precedente definizione di “edilizia economico-popolare” utilizzata nel Testo unico 28 aprile 1938, n.1165. In linea di massima, in un’accezione estensiva della relativa dizione, con essa si intendono tutti quegli interventi “pensati” dalle amministrazioni pubbliche in funzione del soddisfacimento delle esigenze abitative dei propri cittadini appartenenti a classi sociali meno abbienti e come tali non in grado autonomamente e secondo le normali regole di mercato di accedere ad un bene primario e costituzionalmente garantito, quale la casa di abitazione. In maniera necessariamente schematica, si riconducono alla stessa sia la c.d. edilizia “sovvenzionata”, svolta direttamente dagli enti pubblici, ma accedendo a risorse erariali specifiche, che quella “agevolata”, demandata ad operatori privati che tuttavia godono di contributi statali, quali mutui di favore, finalizzati essenzialmente al riscatto della locazione, a norma degli artt. 8 e 9 della legge n. 179 del 1992, sia infine quella “convenzionata”, in forza della quale la realizzazione dell’opera viene affidata ad un privato, che si vincola anche in relazione ai futuri canoni di locazione o prezzi di vendita da praticare in relazione alle singole unità abitative con un apposito accordo siglato con il Comune.

Nel tempo la richiamata terminologia è stata estesa fino a ricomprendere qualsivoglia ipotesi di regolamentazione pattizia dei rapporti tra privato e amministrazione, per lo più a corredo di piani attuativi, quali quelli di lottizzazione (c.d. edilizia “convenzionata” in senso ampio, su cui v. Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 579, nonché id., 28 ottobre 2021, n. 7237 e 19 aprile 2022, n. 2953).

L’edilizia convenzionata nella più ristretta accezione originaria individua interventi localizzati preventivamente in un piano di zona: in tal senso già con la legge 18 aprile 1962, n. 167 è stato introdotto il c.d. Piano per l’edilizia economia e popolare (P.E.E.P.), strumento urbanistico esecutivo che identifica le aree oggetto di futuro intervento, individuandole fra quelle residenziali previste dal piano regolatore generale, e le assoggetta, dopo l’approvazione, all’esproprio obbligatorio.

L’art. 35 della l. 22 ottobre 1971, n. 865 costituisce dunque a tutt’oggi, seppure nella versione variamente interpolata dalle numerose novelle intervenute, l’intelaiatura portante della disciplina di settore. Il sistema ivi delineato è basato su tre passaggi fondamentali: l’acquisizione dell’area edificabile al patrimonio indisponibile del Comune, la cessione (in superficie o in proprietà) della stessa al soggetto privato attuatore dell’intervento edilizio ed infine l’amministrazione degli alloggi costruiti (con vincoli volti ad evitare indebite speculazioni). La disciplina di tali vincoli è stata nel tempo variamente modificata, in un’ottica di maggiore liberalizzazione delle possibilità circolatorie del bene. In particolare, con legge 17 febbraio 1992, n. 179, sono stati abrogati i commi che fissavano i vincoli di inalienabilità per un lasso di tempo normativamente predeterminato, ancorandone la decorrenza non all’assegnazione individuale del bene, ma all’avvenuto conseguimento della licenza di abitabilità.

Tale richiamo costituiva (e mutatis mutandis costituisce ancora oggi) la cerniera tra la finalità non esclusivamente urbanistico-edilizia, ma anche sociale-solidaristica dell’operazione immobiliare e la sua attuazione per il tramite di soggetti privati: ritiene cioè il Collegio che intanto si può parlare di edilizia residenziale “pubblica” inquanto è la p.a. a governarne il processo, fino al momento in cui, con l’assegnazione degli alloggi, l’obiettivo sotteso alla stessa non sia stato oggettivamente conseguito. Per quanto, quindi, estraneo (diversamente da quanto accade nel modello “sovvenzionato”) alla fase dell’assegnazione degli alloggi, demandata, giusta apposita clausola convenzionale, interamente alla cooperativa edilizia, il Comune resta il promotore e il garante dell’operazione, in alcun modo assimilabile ad una mera operazione di tipo imprenditoriale, non foss’altro che per gli stringenti requisiti soggettivi, per lo più commisurati al reddito, richiesti ai soci aspiranti assegnatari. Il venir meno, quindi, dell’espresso richiamo alla abitabilità del bene quale suggello finale impresso dalla p.a. alla regolarità dell’operazione effettuata non ne ha certo comportato l’eliminazione dal procedimento, essendo esso dovuto al solo mutamento del regime dei vincoli post assegnazione, e non a quello dei controlli in vista della stessa.

Va in proposito ricordato come la disciplina della c.d. abitabilità era originariamente riconducibile alle previsioni contenute nell’art. 220 del r.d. 27 luglio 1935, n. 1267, T.U.LL.SS., indi oggetto di apposito Regolamento, d.P.R.22 aprile 1994, n. 425, che imponeva al direttore dei lavori l’attestazione della «conformità rispetto al progetto approvato» dell’opera realizzata (sull’evoluzione della nozione di abitabilità in quella di agibilità, di cui all’art. 24 del d.P.R. n. 380 del 2001, oggi assentibile tramite s.c.i.a., v. Cons. Stato, sez. II, 17 maggio 2021, n.3836). Seppure quindi nessuna norma preveda, anche in relazione al genus dell’edilizia residenziale pubblica, uno specifico obbligo di verifica in loco della regolarità dei lavori effettuati, la necessità che gli alloggi assegnati siano anche abitabili o agibili, secondo l’accezione più moderna del relativo concetto, ovvero conformi alla normativa urbanistico-edilizia, salubri e sicuri, non può che far capo (anche) al Comune, seppure evidentemente sulla base delle certificazioni fornite dal privato delegato, in particolare il direttore dei lavori.

Il mancato riscontro alle richieste di abitabilità avanzate individualmente dagli assegnatari, anche in senso negativo, creano dunque un insanabile quanto incomprensibile iato tra apparente accettazione della situazione di fatto come regolare all’epoca e contestazioni di illecito sopravvenute ad oltre trent’anni di distanza.

La tolleranza di fatto di insediamenti residenziali in unità immobiliari prive di abitabilità, infatti, protrattasi per tutti questi anni stride con i principi di buon andamento della pubblica amministrazione, e sarebbe stato compito del Comune scongiurarne la configurabilità con un’adeguata istruttoria e motivazione degli atti di causa, giusta la riconducibilità dell’intera operazione ad una progettualità residenziale “pubblica”.

Da ultimo, gli appellanti invocano l’applicabilità dell’art. 35 del d.P.R. n. 380 del2001, che egualmente richiede la imputabilità dell’illecito per poter essere destinatari dell’ingiunzione a demolire. Il Collegio ritiene tuttavia che, a prescindere dai profili di inammissibilità del richiamo, in quanto estraneo ai motivi di censura presentati in primo grado, e dunque introdotto in violazione del divieto dei nova, il rilievo non colga nel segno. Dall’analisi comparatistica, tuttavia, del diverso contesto evidentemente sotteso alla formulazione delle due (identiche) norme, possono ricavarsi ulteriori spunti di riflessione.

In caso di abuso realizzato su suolo di proprietà pubblica, dunque, operando la regola dell’accessione, neppure si pone un’esigenza di coinvolgimento di chi ha la materiale disponibilità del bene, che in alcun modo può ostacolare il ripristino dello stato di un luogo che non gli appartiene; al contrario, se l’abuso è stato realizzato su proprietà privata, e il responsabile dello stesso non è reperibile, in quanto ad esempio neppure più in vita, ovvero, più banalmente, è venuto meno ogni suo rapporto con il bene, il coinvolgimento del proprietario è indispensabile per accedere allo stesso, consentendogli anche, in via preferenziale, di demolire spontaneamente, ove preferisca evitare l’esecuzione d’ufficio.

Quanto detto può verificarsi tipicamente in caso di edilizia convenzionata, nei quali la controparte negoziale del Comune è un soggetto giuridico per così dire “di scopo” – che in genere assume la veste di una cooperativa, come previsto dal legislatore – ovvero costituito al precipuo fine di garantire un’interlocuzione unica in chiave tipicamente mutualistica rispetto ai singoli soci per il limitato periodo di tempo necessario a realizzare l’obiettivo edificatorio. L’intimazione demolitoria al proprietario incolpevole, dunque, che nel caso di cui all’art. 35 è nozione concettualmente inconfigurabile, assume nell’ipotesi in esame una più spiccata coloritura informativa e partecipativa, strumentale al (comunque doveroso) ripristino, e la richiesta di fiscalizzazione che in tale contesto può conseguirne, proprio perché proveniente da un soggetto privo di ogni responsabilità, lungi dall’integrare, come immaginato dalla difesa civica, una sorta di confessione stragiudiziale dell’abuso, cristallizza piuttosto la volontà e l’interesse al mantenimento dello status quo, che in quanto oggettivamente illegittimo deve essere ammesso “a tolleranza” dall’ordinamento. Le evidenziate difficoltà pratiche, prima ancora che giuridiche, di reperire il responsabile, seppure individuato, non esimono il Comune dall’indirizzare allo stesso l’atto demolitorio, laddove l’indicazione del proprietario, consentita anche in caso di parziale difformità seppure non prevista dalla norma, risponde all’esigenza di assicurarsi preventivamente l’esecutorietà dell’atto, al pari di quanto accade ogni qual volta allo scopo è necessario interagire con la proprietà privata, secondo il modello declinato in termini generali dall’art. 21-ter della l. n. 241 del 1990, che al di fuori dei casi previsti dal legislatore, richiede comunque una diffida preventiva. Il solo responsabile, infatti – e ciò anche nel modello di cui all’art. 31, ove l’imputabilità è recuperata solo a tale scopo – è tenuto a rimborsare al Comune i costi dell’operazione eseguita in danno.

L’art. 35 del T.u.e., dunque, utilizzando lo stesso riferimento al solo “responsabile” dell’abuso, ha chiaramente a mente la situazione in cui questi non possa in alcun modo divenire proprietario, in quanto, appunto, ha costruito su suolo pubblico. Da qui la piana soluzione interpretativa secondo la quale «nella particolare ipotesi relativa alla sanzione degli abusi realizzati sul demanio e sui beni appartenenti al patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il proprietario è esonerato totalmente dal coinvolgimento nel procedimento sanzionatorio. In questi casi specifici le sanzioni demolitorie possono essere legittimamente irrogate unicamente nei confronti del responsabile dell’abuso» (Cons. St., sez. VI, 4 maggio 2015, n. 2211).

Per contro, nel caso di specie l’esistenza di una proprietà superficiaria privata al di sopra della nuda proprietà pubblica, quale “stratificazione” tipica del modello di edilizia residenziale pubblica, quanto meno nella fase “iniziale”(per la verità destinata a durare, secondo il paradigma “normale”, 99 anni), seda un lato rafforza la necessità del Comune di presidiare l’avvio dell’operazione, dall’altro, una volta effettuate le assegnazioni, riverbera sui singoli assegnatari tutti gli obblighi propter rem, quale quello demolitorio. Diversamente opinando, il Comune si vedrebbe intestata una responsabilità per posizione assai più grave di quella normalmente ascritta al proprietario del suolo, che risponde di un abuso solo nella misura in cui era consapevole della sua avvenuta realizzazione ancorché da parte di terzi.

Per tutto quanto sopra detto, l’appello è stato accolto.