Il futuro delle città di Paolo Urbani

di 22 Febbraio 2022 Articoli, Focus, Urbanistica

Fondazione Leonardo

Futuro probabile (2030–2040)

 

Il futuro delle città

 

Il tema è certamente attuale poiché proprio la pandemia ha avuto buon gioco nei luoghi della concentrazione urbana. Luogo di scambio delle merci e dei capitali finanziari, di consumo.

 

La pandemia ha messo in luce molte defaillances della città moderna, dai servizi di prossimità ai trasporti, alla sicurezza dei luoghi di vita e di lavoro.

 

Ma poiché le città sono lo specchio del modello dell’economia di quei paesi – il modello capitalistico che ormai pervade tutti i paesi europei ed extraeuropei – il tema che abbiamo di fronte è quello della contemperazione degli interessi tra convivenza civile ed esigenze del mercato, poiché è evidente che allo stato attuale – e la pandemia lo ha dimostrato – specie le grandi metropoli sono luogo di fratture sociali, di tensioni economiche.

 

E la pandemia ha messo in evidenza l’inadeguatezza della vita comunitaria dovuta alla crisi del rapporto tra potere pubblico e interessi della comunità rappresentata, inadeguatezza che costituisce un gap per un armonico e competitivo sviluppo economico della società.

 

In altre parole, ancorché l’obiettivo sia quello di puntare alla competitività, il superamento delle fratture sociali ed il miglioramento dei luoghi di vita e di lavoro possono certamente contribuire a migliorare la prima.

Non è un caso che il PNNR per le città metropolitane metta in luce che gli interventi finanziati devono riguardare “investimenti volti al miglioramento di ampie aree urbane degradate, per la rigenerazione e rivitalizzazione economica, con particolare attenzione alla creazione di nuovi servizi alla persona e alla riqualificazione dell’accessibilita’ e delle infrastrutture, permettendo la trasformazione di territori vulnerabili in citta’ intelligenti e sostenibili, attraverso:

  1. a) la manutenzione per il riuso e la rifunzionalizzazione ecosostenibile di aree pubbliche e di strutture edilizie pubbliche esistenti per finalita’ di interesse pubblico;
  2. b) il miglioramento della qualita’ del decoro urbano e del
    tessuto sociale e ambientale, anche mediante la ristrutturazione
    degli edifici pubblici, con particolare riferimento allo sviluppo e potenziamento dei servizi sociali e culturali e alla promozione delle attivita’ culturali e sportive;
  3. c) interventi finalizzati a sostenere progetti legati alle smart
    cities, con particolare riferimento ai trasporti ed al consumo energetico, volti al miglioramento della qualita’ ambientale e del profilo digitale delle aree urbane mediante il sostegno alle tecnologie digitali e alle tecnologie con minori emissioni di CO2.

e che i singoli progetti debbano avere un fabbisogno non inferiore a 50 milioni di €.

Sembra quindi che anche la Comunità europea abbia compreso che solo ricomponendo i conflitti sociali, specie nelle aree urbane, si rimetta in moto uno sviluppo economico compatibile.

 

Ma il tema ha al centro un profilo di enorme interesse: quello della rigenerazione urbana, riqualificazione, riconversione, riuso, rinnovo – per usare i termini con i quali si vuole identificare il fenomeno – che testimonia solo un elemento centrale: quello che le città moderne invecchiano e come tali se ne chiede un ripensamento. Non solo in termini edilizi ed energetici ma anche in termini di funzioni, fruibilità, accessibilità.

 

Ma qui entra in gioco il ruolo dei poteri pubblici – in particolare degli enti primari – della loro capacità a rappresentare effettivamente gli interessi della comunità rappresentata poiché un’adeguata prossimità gioca certamente a favore di una buona competitività.

 

E qui si pongono due temi oggetto di riflessione che andrebbero approfonditi: il primo: quello del lento declino della democrazia rappresentativa. Il secondo: quello dell’inadeguatezza delle forme di governo metropolitano nel nostro paese.

 

 

Il declino della democrazia rappresentativa.

 

Quanto al primo, il caso ormai diffuso dei “beni comuni” solo per citarne uno tra i tanti – mette in evidenza che la gestione episodica e disarticolata di questi beni pubblici ma anche privati – abbandonati e degradati dimostra tutta l’inadeguatezza e l’inerzia della funzione pubblica che non dovrebbe essere oggetto di supplenza[1] ma di amministrazione di risultato. La “partecipazione” degli interessi collettivi non può essere una giustificazione per abdicare ai propri poteri istituzionali.

A ciò si aggiunga, in una chiave diversa, la mancanza di partecipazione alle scelte della PA quando entri in gioco l’assetto ordinato del territorio, ovvero la determinazione degli assetti urbanistici e territoriali attraverso la pianificazione.

In questo caso, proprio a proposito della rigenerazione dei luoghi costruiti non più consoni all’esigenza del mercato, stiamo lentamente passando dall’amministrazione rappresentativa dell’interessi della collettività all’impresa interprete del mercato.

E questo è dovuto ormai al dilagare dell’amministrazione per accordi in luogo delle scelte autoritative dell’amministrazione nel rideterminare l’assetto dei suoli e delle sue nuove destinazioni d’uso, superando così le logiche del piano urbanistico che non è più considerato una profezia credibile poiché incapace d’interpretare il futuro.

Ma se il tema è quello di ripensare la città la prassi avallata dalla legislazione più recente – vedi il piano casa a partire dal 2009 – della codeterminazione pubblico-privato delle scelte urbanistiche, la domanda che si pone è se l’urbanistica consensuale o contrattata sia la presa d’atto della sconfitta della potestà pianificatoria del pubblico potere o l’occasione per riportare la proprietà nel solco della funzione sociale dell’art 42 Cost.?

La rigenerazione urbana di intere parti di città è l’occasione per andare alla ricerca della città pubblica o è il definitivo abbandono degli interessi della Civitas?

 

Si pone cioè il problema di entrare nel merito dell’accordo introdotto dall’art. 11 e 1 bis della legge sul procedimento n.241/1990 per verificare se l’interesse pubblico sia veramente soddisfatto. Entra in gioco il principio di proporzionalità indotto dalla Corte Cost. e dalla Corte di giustizia europea che non può più concentrarsi solo sull’idoneità della misura, sull’inesistenza delle misure alternative, sulla tollerabilità della scelta da parte del destinatario, ma sposta l’attenzione sul perseguimento effettivo dell’interesse pubblico.

 

Ovvero si tratta di misurare l’interesse pubblico in rapporto al vantaggio privato.

Se guardiamo agli interventi in materia di rigenerazione urbana che sempre più sono oggetto di giudizi amministrativi, vediamo che gli attori sono diventati tre: i privati, i comuni, gli interessi diffusi.

 

È noto che il giudice amministrativo giudica della legittimità dell’azione amministrativa (del provvedimento) sotto due profili: il primo se il perseguimento dell’interesse pubblico è proporzionato rispetto alla disciplina degli interessi privati, di talchè annulla il provvedimento se c’è sproporzione.

Ma negli accordi urbanistici siamo in una situazione diversa, ovvero quella per la quale il giudice dovrebbe giudicare della proporzionalità del vantaggio privato rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico.

Questo implica che il giudice non può limitarsi a verificare nel merito se l’azione amministrativa sia proporzionata rispetto agli interessi privati tutelati ma deve valutare un tertium datur ovvero se le scelte amministrative perseguono l’interesse pubblico o siamo di fronte ad uno scambio sleale!

Dai casi giurisprudenziali di questi ultimi anni emerge infatti sempre più che le operazioni di riconversione urbana sia a Roma (caso della stazione tiburtina) che a Milano (gli interventi di Porta Garibaldi etc.) tutti legati all’edificabilità delle aree ferroviarie non più necessarie all’esercizio della viabilità ferroviaria, poste nel pieno centro di quelle aree urbane, ma anche casi d’interventi di trasformazione in deroga ai vincoli ambientali e paesaggistici, emerge con forza che molto spesso il potere pubblico appare come un contraente debole incapace di perseguire adeguatamente l’interesse della città pubblica a fronte del prevalere degl’interessi d’impresa.

La disciplina – oggi inesistente – della partecipazione degli interessi collettivi, a monte delle scelte urbanistiche di rigenerazione – una sorta di applicazione del debat publique nelle aree urbane – ridurrebbe i conflitti, riportandoli nel procedimento, individuerebbe preliminarmente l’interesse pubblico in concreto, ridarebbe un volto condiviso alla città tra interessi privati e interessi delle collettività rappresentata.

 

 

 

L’inadeguatezza del governo metropolitano.

 

Il secondo tema è quello dell’inadeguatezza della forma di governo delle città metropolitane che in altri paesi hanno ben altri poteri e ben altre finalità. Alle città metropolitane menzionate nel nuovo art.114 Cost. – a conferma del superamento dell’uniformità degli enti primari come nuovo livello di governo locale – non ha corrisposto un complesso di poteri e funzioni di area vasta adeguati al ruolo che queste devono ricoprire nel contesto dello sviluppo economico e sociale. Ne discende che Milano Napoli, Roma – per stare alle effettive grandi aree urbane da considerare metropolitane – non sono in grado di governare i processi di cambiamento e d’innovazione propri di una Città Stato come accade in altri paesi europei.

Mentre a livello europeo è stato da tempo abbandonato nei confronti dei fenomeni metropolitani l’atteggiamento “localistico” per proiettare le metropoli verso il più ampio e dinamico concetto della Città Stato. In altre parole, la dimensione della “prossimità” metropolitana è data per scontata, mentre gli stati centrali – dalla Spagna, alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania – puntano con varie e diversificate politiche a proiettare le metropoli “fuori” dagli Stati, considerandoli i principali ambasciatori dello sviluppo emergente di quelle nazioni, ma nello stesso tempo favorendone la capacità di attrazione dei mercati finanziari, imprenditoriali, culturali.

L’idea, che sta alla base dell’ente pubblico in questi paesi, è quella che la Pubblica Amministrazione sia dotata di elevati strumenti di responsabilizzazione istituzionale per garantire nel modo più efficiente possibile i servizi ai cittadini ed al mercato. Autorità costituite sulla base di una razionale distribuzione delle competenze, non solo amministrative ma a volte anche legislative (ad es. Berlino), flessibilità della struttura amministrativa sempre incline all’innovazione nel rispetto della più ampia libertà decisionale di ciascuna istituzione. Un ventaglio, dunque, di competenze molto ampie che coniuga sia la sussidiarietà verticale che quella orizzontale (favorendo quindi l’iniziativa dei privati nella gestione dei servizi), il cui esercizio è sganciato da vincoli procedimentali o di raccordo con altre competenze sovraordinate, se non per quelle scelte che necessitino di concertazione necessaria.

Sotto questo profilo, inoltre, per ogni Città Stato sono previste forme stabili di strutture intergovernamentali che costituiscono strumenti permanenti di fluidificazione delle decisioni che richiedano la co-decisione centro periferia.

Ed è appena il caso di osservare – a differenza del nostro paese – che tali strutture dispongono di un’organizzazione stabile con personale tecnico in grado di svolgere immediato supporto alle decisioni politiche concertate.

Questo orientamento porta a considerare le funzioni amministrative prive di uno schema rigido nella loro attribuzione e dei confini territoriali riorganizzabili in base alle nuove esigenze cosicchè il principio di sussidiarietà costituzionalmente garantito, rappresenta in modo pratico la volontà del legislatore di scongiurare una suddivisione rigida e definitiva delle competenze tra gli attori istituzionali, nel rispetto del principio di assegnazione al livello di governo più adeguato a svolgere quella determinata competenza sulla base delle esigenze delle comunità amministrate.

Governi differenziati anche all’interno di uno stesso stato centrale, libertà d’azione, finanziamenti centrali ed una particolare attenzione alla garanzia dei servizi reali.[2]

Nulla di tutto ciò nel nostro sistema metropolitano oggetto da ultimo di un intervento riformatore (2014) che non affranca le Grandi città – rendendone effettivamente autonome – dalla presenza delle regioni di riferimento cosicchè anche in questo caso siamo in presenza di governi deboli esposti continuamente all’emergenza dei servizi e privi di capacità decisonali autonome.

 

Questi due grandi temi possono essere l’occasione per proporre una riflessione adeguata rispetto al Futuro probabile.

 

Roma 12 gennaio 2021

 

 

 

 

 

 

[1][1][1] Riprendendo strumentalmente l’art.118 Cost 4 co. che prevede che i poteri pubblici favoriscono l’autonoma iniziati dei cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base del principio di sussidiarieta’, in realtà finalizzato alla gestione dei servizi pubblici.

[2] Rinvio sul punto a P.Urbani Istituzioni economia e territorio il gioco delle responsabilità nelle politiche di sviluppo Giappichelli 2020, 64 ss.