Contro il prossimalismo nel governo del territorio* di Pierluigi Portaluri

di 18 Gennaio 2022 Articoli

PIERLUIGI PORTALURI

 

Contro il prossimalismo nel governo del territorio*

 

 Portaluri, Contro il prossimalismo nel governo del territorio – rev 3

 

 

 

Ihr drängt euch um den Nächsten und habt schöne Worte dafür.

Aber ich sage euch: eure Nächstenliebe ist eure schlechte Liebe zu euch selber.

F.W. Nietzsche, Also sprach Zarathustra

 

 

Sintesi: Il mito dell’amministrazione di prossimità – alimentato anche dal diritto positivo – si è rivelato troppo spesso un mero pretesto per una gestione malaccorta dei bisogni espressi dalla popolazione che abita o comunque frequenta la città. In particolare i Comuni non hanno dato buona prova di sé, spesso “catturati” da interessi privati. Il governo del territorio, inteso come comprensivo del paesaggio e dell’ambiente, ne è un esempio. Il sogno di riforme di struttura, ancora vivo negli anni ’70, è oramai tramontato. Restano due vie. Teorizzare un concetto giuridico di città distinto da quello di Comune. Oppure differenziare i Comuni in base alla loro virtuosità specifica, cioè alla loro capacità di adeguarsi ai modelli più avanzati di gestione degli usi e delle trasformazioni territoriali. Il resto è solo piccolo cabotaggio, come togliere ai Comuni la competenza a irrogare ed eseguire le sanzioni connesse agli illeciti edilizi.

 

 

Abstract: The myth of proximity administration – also nourished by the legal system – has too often proved to be a mere pretext for an ill-advised management of the needs expressed by the population living in or frequenting the city. In particular, municipalities have not shown themselves to be good, often “captured” by private interests. The territorial governance, intended as comprising the landscape and the environment, is an example. The dream of structural reforms, still alive in the 1970s, has now faded. Two paths remain. To theorize a legal concept of city distinct from that of municipality. Or to differentiate municipalities on the basis of their specific virtuosity, that is, their ability to adapt to the most advanced models of management of land use and transformation. The rest is just petty cabotage, such as depriving municipalities of the competence to impose and enforce sanctions related to construction offenses.

 

 

 

 

Sommario: 1. La prossimalità, mito infestante. – 2. La governazione del territorio, ovvero il Grande Nemico. – 3. Gli esordi resistiti e già perdenti del disegno normativo: la legge urbanistica del ’42. – 4. La legge ponte e un mistero italiano: l’anno di moratoria. – 5. La «raffica regionalista» del d.P.R. n. 616/’77. – 6. L’ultima difesa: la legge Galasso. – 7. Regionalismi urbanistici e nuove insidie prossimaliste. La risposta della Consulta. – 8. Amministrazioni consensuali e non: un dialogo difficile per una riforma (sinora) irraggiungibile. – 9. Ancora grandi sogni. E piccoli, più realistici, cabotaggi.

 

 

 

  1. 1. La prossimalità, mito infestante. – Un interminabile spettacolo di ipocrisia istituzionale. Inutilmente contrastato da chi si oppone a questa perniciosa messa in scena.

Il governo del territorio, nella sua storia anche giuridica, suscita la tentazione di dividere sbrigativamente il campo fra “buoni” e “cattivi”. I primi potrebbero essere, per esempio, i sostenitori di norme contrarie al mito infestante dell’amministrazione di prossimità: coloro, in altre parole, che cercano di contenere per quanto possibile le attribuzioni delle amministrazioni territoriali – in particolar modo dei Comuni – nella gestione del territorio, del paesaggio e dell’ambiente[1].

Digressione necessaria. Breve. Il mito di cui parlo si descrive con poche parole. Consiste nel favorire gli assetti organizzativi che attribuiscono il maggior numero di competenze alle amministrazioni rappresentative “più vicine” ai cittadini: cioè – per cerchi concentrici sempre più ampi – ai Comuni, alle Province, alle Regioni. In questa lettura, lo Stato è una figura soggettiva con venature di negatività ontologica, poiché distante e sordo alle sane esigenze delle neglette collettività locali, invece ben amministrate dai virtuosi enti territoriali[2].

L’ordinamento porta ancora le ferite[3] di una tale impostazione. Parlo della miniriforma costituzionale del 2001, che riuscì nel non facile obiettivo di peggiorare il Titolo V della Carta. Come tutti sanno, il (nuovo) primo comma dell’art. 118 Cost. attribuisce le funzioni amministrative territoriali ai Comuni, salvi i casi di sussidiarietà ascendente sulla base dei tre noti principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. In sintesi, il legislatore ordinario deve di regola dare la precedenza ai Comuni[4]. Sarebbero loro le amministrazioni pubbliche rappresentative per eccellenza: vicine al cittadino, e per ciò solo capaci di coglierne con prontezza i bisogni e quindi di soddisfarli con premura solerte ed efficiente.

Purtroppo la norma appena ricordata continua a dimenticare un aspetto tanto ovvio, quanto tristemente sperimentato: la facile “catturabilità” del decisore locale da parte di soggetti che possano esercitare pressioni tali da far prevalere l’interesse privato sull’interesse pubblico. È soprattutto qui, nella dimensione spaziale degli enti territoriali[5], che si può più facilmente osservare quel sistema opaco per cui la scelta finale non è l’esito della legittima ponderazione fra interessi (pubblici e privati) palesi, ma la risultante di pressioni (solo private) occulte[6].

La riforma costituzionale del 2001 è tanto più incomprensibile nell’aver stabilito una clausola di preferenza a favore dei Comuni e degli enti di prossimità in generale[7], se si pone mente alla dovizia di esempi offerti dalla storia istituzionale italiana circa l’infelice riuscita delle figure territoriali nel saper contenere spinte siffatte, corpulente e devianti rispetto alla cura dell’interesse pubblico.

Mi guardo bene dal generalizzare. È infatti nota la differenza “prestazionale” che corre fra i Comuni delle varie aree geografiche italiane, dove il centro-nord del Paese esprime tradizionalmente capacità di buon governo, che restano tendenzialmente estranee – è amaro dirlo – al resto d’Italia[8].

Il tema della prossimità tuttavia resta.

Il governo del territorio è un buon esempio della mia diffidenza per la retorica dell’amministrazione “vicina al cittadino”[9]. Ripeto. La vicinanza dovrebbe essere perseguita o al contrario fuggita – lo predicava vanamente Massimo Severo Giannini già sul finire degli scorsi anni ’50[10], quando l’Italia poteva ancora divenire un Paese civile – a seconda delle funzioni concrete di cui di volta in volta si tratta di decidere il soggetto pubblico attributario[11]. Necessaria quando il polo pubblico si pone quale erogatore di servizi alla persona[12], la prossimità dovrebbe almeno di regola cedere il passo al criterio opposto – all’amministrazione che potremmo chiamare distale – nei casi in cui la p.A. agisca in termini sostanzialmente interventuali, come Eingriffsverwaltung. Quando cioè essa è chiamata a decisioni e politiche che non sono funzionalizzate a soddisfare le istanze rivoltele direttamente dai cittadini in funzione di benessere personale o di accrescimento della propria sfera giuridica, ma ad azioni che – pur sempre in vista di un obiettivo d’interesse pubblico – finiscono più o meno certamente con il conformare o comunque incidere in modo lesivo, anche se pienamente legittimo e opportuno, negli interessi privati.

Pur comprendendo ambiti d’azione ben più vasti dell’amministrazione d’intervento, il governo del territorio è quindi assimilabile a quest’ultima tipologia di azioni pubbliche: onde la necessità, a mio avviso, di ripensare e superare quel passatista relitto preunitario[13] che è il principio di uniformità. Infranto non solo nel suo significato e versante organizzativo, ma anche (e anzitutto) funzionale, esso dovrebbe lasciare il posto a una differenziazione che riconosca «tipologie di funzioni diverse a seconda della classe (dimensionale, finanziaria, geografica) cui appartengono i diversi comuni»[14].

Tema antico, in realtà.

I primi a resistere alla differenziazione – e a nascondersi invece sotto il sacrosanto, ma «grigio diluvio democratico» – sono proprio i Comuni (o almeno una loro parte significativa)[15]. Ce lo ha ricordato, molto bene, Roberto Bin: «la strada che non è mai stata praticata con convinzione in Italia è quella della differenziazione delle attribuzioni»[16]. Eppure – lui prosegue – «quando una delle poche norme sagge introdotte dalla riforma costituzionale del 2001 pone il principio di differenziazione accanto a quello di sussidiarietà (e di adeguatezza), altro non sta facendo che scrivere l’ennesima formulazione “specializzata” del principio costituzionale di eguaglianza: situazioni eguali vanno trattate in modo eguale, ma situazioni diverse vanno trattate diversamente»[17].

Ci tornerò alla fine.

 

  1. La governazione del territorio, ovvero il Grande Nemico. – Un paradigma, dicevo, è la funzione di governo del territorio. Che qui intendo in senso molto ampio, comprensiva cioè dei tre tronconi in cui è stata assurdamente spezzata: urbanistica, paesaggio, ambiente[18]. Tralascio il groviglio concettuale e definitorio che ha avviluppato progressivamente queste tre materie[19]. Non parlerò quindi dei continui cambiamenti nel disegno delle competenze legislative e amministrative che il nostro ordinamento ha conosciuto sul punto; né dei discutibili sforzi normativi fatti per sezionare i tre ambiti, onde disegnare discipline differenziate.

Conta invece un altro aspetto. Il governo del territorio, la tutela del paesaggio e dell’ambiente sono attività – diciamo così – invise a molti “consociati”[20].

Amministrare il territorio significa – un cenno appena – dotarsi di un piano regolatore che potrebbe precludere al proprietario di un suolo il conseguimento d’un permesso di costruire; o che potrebbe tipizzare un’area come completamente inedificabile perché destinata a verde privato[21]. Il valore economico ne uscirebbe praticamente azzerato.

Effetti analoghi, o ancora più sgraditi al privato, possono derivare dalle azioni pubbliche a tutela del paesaggio o dell’ambiente. La formazione del piano paesaggistico regionale ex art. 135 ss. del codice Urbani, elaborato di concerto dalla Regione e dallo Stato: le cui previsioni vincolistiche – cioè direttamente conformative – su alcune aree del territorio limitano o impediscono le trasformazioni fisiche consentite invece da altre fonti regolative, quali gli strumenti urbanistici stricto sensu[22]. La protezione del paesaggio prevale in somma sulle ragioni e sui diritti dominicali, cioè sulle facoltà che sono normalmente insite nella sfera giuridica del proprietario e che in ipotesi possono essere state anche riconosciute da un piano urbanistico[23].

In sintesi: la sommatoria degli interessi pubblici che il territorio esprime ha sempre generato fattori di contrasto ortogonale con le più egoistiche pressioni private, dunque con trasformazioni fisiche incompatibili con le esigenze di rispetto dei beni paesaggistici, di ordinato e razionale uso dei suoli, etc.

Lo scontro si è consumato (e si consuma) su molti fronti. Da quello truce: la commissione dell’illecito sic et simpliciter, cioè dell’abuso più o meno grave ed esteso[24]; a quello più subdolo e strutturato, direi “a copertura istituzionale”: quando è lo stesso sistema politico, e quindi il circuito democratico-rappresentativo, a coniare modelli normativi e disegni organizzativi che nei fatti favoriscono istanze private inconfessabili a scapito degli interessi pubblici fondamentali di cui sto parlando.

Non mi riferisco tanto alle vicende dei tre condoni edilizi (1985, 1994, 2003) che hanno legittimato eversioni controriformistiche d’ogni tipo prima di essere fermati dalla Corte costituzionale. Possiamo considerarli, paradossalmente, ferite più o meno puntiformi, per quanto diffuse su tutto il territorio nazionale.

Il tema che a me sembra invece centrale è un altro. Penso alla guerra – combattuta in molte battaglie silenziose – fra una forza catecontica paolino-schmittiana[25], che resiste al progresso civile e persevera in una visione estrattivo-distruttiva del rapporto col suolo; e una opposta, desiderosa di creare le condizioni istituzionali e organizzative che consentano un salto di qualità nel sistema complessivo di protezione del territorio (del paesaggio, dell’ambiente).

Una parte consistente delle istituzioni rappresentative del circuito democratico – principiando da settori trainanti, forse maggioritari, delle forze parlamentari – ha ostacolato e anzi combattuto i processi di produzione e di potenziamento delle normazioni protettive: Calamandrei avrebbe forse parlato di «ostruzionismo della maggioranza»[26].

L’ostilità ha, poi, saputo assumere molte forme.

Quella più evidente è di natura omissiva: non legiferare, non assumersi la responsabilità di scelte elettoralmente sgradite. Vecchia storia, che possiamo sintetizzare così: chi tocca il regime giuridico dei suoli, o meglio il caos normativo che premia sfacciatamente le rendite di posizione, muore politicamente.

Si usa sempre fare, a questo proposito, il nome di Fiorentino Sullo. Uomo politico coraggioso, presentò il suo progetto al Parlamento, illustrandolo al Senato il 28 giugno 1962 e in modo più analitico alla Camera il 23 ottobre 1962[27]. Osò l’inosabile, cioè la riforma urbanistica generale[28]. Fu subito aggredito mediaticamente (Il Borghese di Mario Tedeschi e Gianna Preda si distinse per violenza verbale) non solo dagli ambienti vicini alla grande proprietà fondiaria, ma anche dalla Chiesa (pare che un prelato – notissimo, altissimo[29] – lo apostrofasse «comunistello di sagrestia»). Aldo Moro, all’epoca segretario della Democrazia cristiana – il partito in cui Sullo militava – ne sconfessò apertamente il progetto con una nota laconica, apparsa su Il Popolo del 13 aprile 1963[30]. Quella riforma, come noto, naufragò.

Dicevo delle tante maschere che l’ostilità ha indossato.

Ne indico un’altra, forse la più perniciosa. Mi appare come una mistura implosiva fatta di molti elementi, imputabili ad altrettante forze politiche. Vi campeggiano ingenuità imperdonabili; ma anche demagogie cui un cinico lasciar fare concede libertà d’azione confidando nell’eterogenesi dei fini.

Tutto questo ravviso nella riforma costituzionale del 2001, cui ho accennato più sopra.

Dopo le prove discutibili che per decenni gli enti territoriali di prossimità avevano dato su tanta parte del nostro Paese nella gestione degli interessi pubblici connessi alla tutela del territorio, del paesaggio e dell’ambiente, ritenerli – di regola e in linea di principio – affidatari di ogni funzione amministrativa (connessa alla rappresentatività territoriale) significava ignorare la desolante realtà purtroppo consolidatasi in un così lungo arco temporale.

Fatta, appunto, di connivenze, di controlli simulati, di provvedimenti amministrativi che – pur mostrando di non avallare interessi pretensivi o disponendo misure repressive – erano strutturati in modo da rendere inevitabile l’annullamento da parte del giudice amministrativo[31]: e quindi adottati più per legittimare meglio l’abuso, che per combatterlo[32]. Di demolizioni ordinate, ma mai eseguite. Di piani regolatori non adottati, o formati in tempi lunghissimi e dunque nati già morti, inattuabili; scritti peraltro in modo talmente generico da essere disponibili a ogni interpretazione estensiva o restrittiva, a seconda dei casi[33].

Una realtà palese, visibile a chiunque: il famigerato scandalo urbanistico. Ciò nonostante, gli enti territoriali, pur attori non secondari di questo scempio, furono premiati da quella riforma costituzionale, che li promosse a motori primi – almeno in linea di tendenza – di ogni iniziativa amministrativa. Duole immaginare il compiacimento di quegli ambienti – non privi di rappresentanza parlamentare – che hanno da sempre contrastato ogni tentativo di sviluppare una politica del territorio moderna e incisiva.

 

 

  1. Gli esordi resistiti e già perdenti del disegno normativo: la legge urbanistica del ’42. – In realtà, è già l’esordio della legislazione italiana in materia urbanistica (di quella paesaggistica dirò fra poco) a segnare una tendenza – diciamo così – rinunciataria: cioè poco o punto disposta ad avvolgere i processi reali di trasformazione del territorio con una rete normativo-pianificatoria che li ponesse al riparo dalle pulsioni delle istanze iperliberiste (indimenticabile il non remoto slogan «padroni in casa propria»).

Mi riferisco alla sfortunata legge urbanistica del 1942. Travagliata nel suo iter[34], conclusosi solo grazie all’inopinata sopravvivenza politica (ma anzitutto fisica: Mussolini lo inviò a combattere in Albania…) e alla pertinacia del suo mentore, Giuseppe Gorla, ministro dei lavori pubblici. Il quale – ecco il punto – dovette subire, in cambio dell’approvazione parlamentare, la decapitazione sostanziale del sistema di funzionamento della legge.

E così torniamo al punctum dolens. La legge Gorla muove da un presupposto semplice, almeno concettualmente: prima di costruire (o comunque modificare il territorio) è necessario pianificare gli interventi, inserendoli in una visione organica d’insieme; è esattamente il contrario del “pianificar facendo”, cioè del principiare dal fatto compiuto (debolmente legittimato, a sua volta, da leggi ad hoc pensate per “classi” di interventi o addirittura da leggi provvedimento) per poi registrarlo nel piano, che si riduce in questo modo a mera sommatoria e regesto notarile di singole realizzazioni progettuali[35] e disorganiche.

Già declinato in termini così vaghi, questo principio era sgradito non solo alle aspettative del blocco fondiario ed edilizio, ma spesso anche alle comunità locali. Pianificare gli usi del territorio significa in concreto deciderne le traiettorie di sviluppo per un orizzonte temporale non breve[36]. Uno sforzo di per sé notevole, che se da un lato non assicura sempre ritorni positivi da un punto di vista socio-economico (potendo risolversi in un ingabbiamento delle dinamiche naturali dei processi reali)[37], garantisce però due effetti poco apprezzati dai mutevoli titolari e detentori del supremo interesse elettorale[38].

Il primo. Fare scelte nette, interne alla logica – grossolanamente binaria – dell’alternativa circa l’edificabilità o meno dei suoli presi in considerazione dallo strumento urbanistico[39]: un modo pressoché infallibile per creare sacche di malcontento, pronte poi a implacabili ritorsioni in occasione del voto.

Secondo effetto. Consumare il potere discrezionale non nella valutazione della singola iniziativa edilizia e urbanistica, cioè caso per caso, ma una volta per tutte nell’articolazione organica del sistema-piano. In questo modo, gli ambiti – concussivi, corruttivi o comunque di mala gestio – che interessano il rilascio degli atti di assenso ne escono ristretti, conseguenza poco gradita sia ai relativi custodi, sia ai potenziali “fruitori” di un tal modello mercimoniale. Ogni piano, infatti, irrigidisce l’intero processo di trascrizione in termini giuridici delle istanze socio-economiche che urgono per generare trasformazioni territoriali più o meno rilevanti, condizionandone la percorribilità a una verifica di conformità con le proprie prescrizioni.

Declinato a questo livello di generalità e astrattezza, il principio generale di pianificazione lascia ancora aperte molte possibilità di scelta. In particolare, quella relativa alla “misura ottimale”: come ci hanno insegnato gli urbanisti, una pianificazione efficiente deve risolvere anzitutto la questione della giusta scala spazio-temporale, cioè della dimensione territoriale da prendere in considerazione per sovrapporvi razionalmente il disegno complessivo e articolato delle previsioni che si intendono realizzare nell’arco cronologico dato.

Per esempio le idee di Gorla, come tutti sanno, s’ispiravano al sistema della pianificazione “a cannocchiale” o “a cascata”, cioè alla pluralità dei livelli di piano (per la prima volta sperimentata sul campo, sia pure nella sola scansione infracomunale fra piano generale e piano particolareggiato, nell’esperienza del p.r.g. di Roma del 1931).

Gorla era ben consapevole che un tal processo discendente richiede un punto di partenza “alto”, cioè di area vasta, anche perché meno esposto ai nefasti condizionamenti prossimalisti: il suo schema normativo attribuiva infatti il compito di avviare il sistema al piano territoriale sovracomunale. A uno strumento-fonte, cioè, gerarchicamente superiore rispetto a quelli che connotano le fasi successive, poiché coordina le localizzazioni e le funzioni su uno scenario più ampio e dunque meno angusto di quello comunale.

Le resistenze a individuare nel piano territoriale «la scaturigine della famosa cascata»[40] furono però molto forti[41], tanto da mettere in dubbio l’approvazione stessa della legge. Il compromesso si trovò elidendo l’obbligatorietà del livello apicale: un’aferesi assai grave, che snaturò completamente il disegno normativo. I piani territoriali furono infatti previsti come meramente facoltativi, cioè – in pratica – come sostanzialmente inutili.

I Comuni, che nella visione di Gorla erano poco più che enti “attuatori” delle scelte di piano racchiuse nello strumento territoriale, si trovarono così al centro della scena urbanistica pur essendo monadi decisorie e autoregolatorie prive di raccordi orizzontali (e soggette solo al controllo verticale del Ministero dei lavori pubblici).

 

 

  1. La legge ponte e un mistero italiano: l’anno di moratoria. – Nei primi anni del duro dopoguerra italiano la previsione – già di per sé facoltativa – di un piano di grado sovracomunale rimase ovviamente inattuata, costringendo il sistema di pianificazione per livelli a una torsione strutturale e funzionale che ne ha ben presto deformato radicalmente i tratti costitutivi, innescando una serie assai notevole di problematiche ancora oggi non ben definite. Questo vizio, contestuale alla nascita stessa della normazione del ’42, genera buona parte delle criticità esistenti fra livello comunale e livello sovracomunale e ostacola – quel che più conta ai nostri fini – una cultura della pianificazione sganciata dalla scala degli asfittici condizionamenti prossimalisti.

Il blocco fondiario-edilizio, insieme causa ed effetto della tumultuosa ripresa economica, procede indisturbato nella compromissione del territorio, rendendo di fatto facoltativa – dunque inesistente – persino la pianificazione di livello comunale.

Solo le funeste vicende agrigentine e fiorentine danno tardivamente la sveglia e conducono al Giano della legge ponte del 1967. Il cui meccanismo di attacco – è storia nota – consisteva nell’inibire di fatto l’attività del blocco edilizio, per principio ostile alla pianificazione, sino a quando i Comuni non si fossero finalmente decisi a dotarsi di uno strumento urbanistico generale: i suoli ricadenti in municipî sprovvisti di p.r.g. o di programma di fabbricazione subivano infatti pesanti limitazioni nel ius aedificandi. Solo a seguito della formazione del proprio piano il Comune sarebbe uscito da questa situazione, ma conformandosi questa volta ai limiti di cui a standard generali poi precisati nel glorioso d.m. n. 1444 del 2 aprile 1968.

Il disegno era chiaro, e quella lezione è ancora attuale (come dirò alla fine): occorre volgere a vantaggio del processo di pianificazione la pressione esercitata sul territorio dalla proprietà fondiaria, bloccandone di fatto le più grifagne aspirazioni edificatorie e dunque costringendo i Comuni – per uscire dalla paralisi edilizia – ad adottare rapidamente gli strumenti generali.

Sotto accusa, esplicita e diretta, era dunque la gestione del territorio da parte delle municipalità: o inadempienti rispetto all’obbligo di dotarsi di uno strumento generale; ovvero – nei rari casi di ottemperanza – mosse troppo spesso da un intento elusivo degli scopi reali del processo di piano, fine perpetrato sia mediante l’assoggettamento indiscriminato del suolo a carichi urbanistici insostenibili (e inutili), sia attraverso la marginalizzazione sistematica – quantitativa e funzionale – delle aree destinate ai servizi per la residenza.

Carlo Odorisio, rappresentante dell’ANCE all’interno del Consiglio superiore dei lavori pubblici dove si svolge nel 1968 la discussione sui contenuti di quel decreto, ricorda: «la finalità della “legge ponte” fu quella di far compiere al Paese un vero salto di qualità nella gestione urbanistica attraverso una grande promozione dei p.r.g., ma in un clima di sostanziale sfiducia nei confronti degli enti locali. […] È facile quindi comprendere il significato che ebbe allora il decreto sugli standard e anche i modi della sua formulazione: uno strumento semplice, con delle regole generalizzate che potessero garantire almeno alcuni elementi di base per una corretta redazione degli strumenti urbanistici, nella convinzione che non ci si potesse fidare più di tanto degli enti locali»[42].

Che si trattasse di una reazione energica e decisa agli eccessi nella mala gestio del territorio italiano lo dimostrano le forti resistenze che il disegno di legge incontrò nel dibattito parlamentare. All’esito del quale – per il fine (dichiarato) di evitare che dall’impatto immediato della nuova normativa derivasse per l’edilizia un contraccolpo insostenibile – fu inserita quella norma d’incerta paternità, ma di certa scelleratezza, che differiva l’applicabilità delle nuove disposizioni al 1° settembre 1968.

Iniziarono in tal modo quei noti dodici mesi chiamati ipocritamente «anno di moratoria», durante i quali – ci rammenta un amaro Edoardo Salzano – «l’Italia è inondata di licenze. […] Sono stati accertati infiniti casi di licenze edilizie che, in data 31 agosto, sono state presentate al comune per l’approvazione, “istruite” dagli uffici tecnici comunali, esaminate e approvate dalla Sovrintendenza ai monumenti e dal Genio civile, discusse in commissione edilizia e firmate dal sindaco»[43].

E Pier Luigi Cervellati: «una tipica legge all’italiana, double face. Innovatrice (propone e impone finalmente gli standard urbanistici) e reazionaria, perché ha consentito in un anno (il 1968, il cosiddetto anno di moratoria), di incrementare di 5 volte le cubature progettate negli anni precedenti, gli anni del boom edilizio»[44].

Si noti: il testo della legge ponte non ebbe bisogno di essere vagliato e approvato nelle due Aule. Anzi. La decisione di inserire l’anno di moratoria non fu presa nemmeno in seno alla IX Commissione della Camera (che istruì il provvedimento: il Senato vi ebbe un ruolo secondario), ma da un Comitato ristretto che operò al suo interno senza verbalizzare – pare sia la prassi – i propri lavori.

 

  1. La «raffica regionalista» del d.P.R. n. 616/’77. – La stagione razionalista degli anni ’60 e ’70 non mutò, in definitiva, la prospettiva di fondo. La standardizzazione delle funzioni dell’abitare, dell’existenz minimum, introdussero un fattore dimensionale nella misura di ogni attività sul territorio, che restò comunque centrata sulla logica dell’espansione urbana.

Nel 1977 il canto del cigno: la legge Bucalossi sarà l’ultimo tentativo organico di gestire in modo iper-regolato le trasformazioni territoriali, prima di essere fermato dalla Consulta nel 1980 («…il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà…»). La “via urbanistica” alla civiltà del territorio termina qui: un sentiero interrotto che il coevo decreto n. 616 sulla seconda regionalizzazione non riuscirà certo a riaprire. O non vorrà[45]. Dietro le note e magniloquenti declaratorie che vi si leggono – «Le funzioni amministrative relative alla materia “urbanistica” concernono la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente» – si cela un disegno eufemisticamente poco limpido (o – nella più benevola delle interpretazioni – abbastanza sprovveduto).

Il paesaggio resta infatti fuori da quel quadro lemmatico e definitorio: e con esso, lo Stato. Anzi, questa visione panurbanistica legittima col suo lessico pericolose incursioni regionaliste in campi riservati alla competenza centrale: «salvaguardia […] del suolo» e «protezione dell’ambiente» sono infatti sintagmi (e ambiti) connotati da ambiguità notevole. Nel decreto n. 616 il prossimalismo raggiunge una vetta importante con la delega alle Regioni delle «funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato per la protezione delle bellezze naturali per quanto attiene alla loro individuazione, alla loro tutela e alle relative sanzioni» (art. 82). Lo scopo dissimulato è sottrarre allo Stato la tutela del paesaggio senza incorrere in una palese incostituzionalità per violazione dell’art. 9. Al fine di aggirare l’ostacolo si usano due astuzie nominalistiche: quelle funzioni non sono trasferite, ma “solo” delegate alle Regioni; non si parla di paesaggio, ma di bellezze naturali.

Nella sostanza il risultato negativo è raggiunto: proprio quello temuto da Concetto Marchesi in sede costituente, quando si batté vittoriosamente per inserire nella Carta la tutela del paesaggio. Il grande latinista aveva un giusto e profetico terrore: chiamava «raffica regionalista» (io direi lato sensu prossimalista) quella che avrebbe certamente disgregato un tessuto normativo statale di tutela e quindi gli obiettivi stessi cui esso dev’esser preordinato. Non si sbagliava.

Tramonta così anche un’altra giornata, quella dell’urbanistica come questione politica di rilievo nazionale e statale.

È l’ora – malinconica e crepuscolare – di Giuseppe Galasso.

 

 

  1. L’ultima difesa: la legge Galasso. – Siamo, come tutti sanno, nel 1985. La legge eponima appartiene anzitutto al novero delle normazioni d’urgenza, tipiche di un Paese che non sa (o non vuole) governarsi prevenendo – o almeno cercando di contenere – i processi reali capaci di incidere nel più negativo dei modi nei confronti dei propri beni comuni. Ma è anche – o forse proprio per questo – una legge distante dalla realtà, almeno nella sua parte propositiva. Intendiamoci: una distanza generosa e antivedente. Anch’essa – come (in parte) la nostra Costituzione, come le sagge posizioni di Marchesi – è lucidamente antiprossimalista. Il vincolo paesaggistico apposto ex lege per categorie e non su beni puntuali non è altro che un recupero di ragionevolezza, di sana uniformità centralista a fronte della fallimentare attribuzione alle Regioni della delicata funzione di «individuazione delle bellezze naturali». Regioni che non per questo la legge esclude dal perimetro degli enti chiamati alla tutela paesaggistica. Al contrario, è (ingenuamente, direi) affidato loro un ultimo tentativo di ricomporre l’improvvida e innaturale frattura tra urbanistica, paesaggio (e ambiente) consegnataci dalla Carta: sottoporre «a specifica normativa d’uso e di valorizzazione ambientale il relativo territorio mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, da approvarsi entro il 31 dicembre 1986».

Torna così il sogno – nostalgico e impossibile – della reductio ad unum che da tempo sostiene Settis[46]. Pianificazione territoriale (cioè sovracomunale), tutela del paesaggio e regolazione urbanistica si fonderebbero finalmente in un solo strumento, inverando l’obiettivo dell’«un territorio, un piano».

Tutto questo, ancora, sarebbe stato da farsi in meno di un anno e mezzo, pena l’intervento sostitutivo ministeriale.

Il nulla di fatto pianificatorio era scontato. Ma almeno le «aree Galasso» furono protette da un vincolo di non trasformabilità ampio e diffuso, che resistette al prevedibile attacco delle Regioni, le quali lo sferrarono denunciando l’incostituzionalità del modello. Senza successo, per fortuna.

Con una storica sentenza del 1986 (la n. 151) la Corte riconobbe infatti il cambio di paradigma portato, rispetto alla legge Bottai del 1939, dalla legge Galasso: la quale «introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell’intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale. Una tutela così concepita è aderente al precetto dell’art. 9 Cost., il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell’ordinamento, assume il detto valore come primario (cfr. sentenze di questa Corte n. 94 del 1985 e n. 359 del 1985), cioè come insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro»[47].

Norme – prosegue la Corte – il cui «carattere di grande riforma economico-sociale è del tutto evidente nella nuova concezione della tutela paesaggistica», e la cui primarietà «impedisce di subordinare l’interesse estetico-culturale a qualsiasi altro, ivi compresi quelli economici, nelle valutazioni concernenti i reciproci rapporti»[48]. Proprio il vincolo imposto non puntualmente, ma per categorie di beni protetti, è ritenuto dalla Consulta il manifesto, l’«immediata espressione della nuova concezione della tutela paesaggistica e prima attuazione della tutela stessa come innovativamente concepita».

 

 

  1. Regionalismi urbanistici e nuove insidie prossimaliste: la risposta della Consulta. – Veniamo a oggi. Le pulsioni prossimaliste sono purtroppo vive ed energiche, ma non si può dire che la partita sia persa, che l’assetto ordinamentale sia definitivamente sbilanciato a loro favore.

L’urbanistica è sì divenuta irreversibilmente regionale: questo significa, se non m’inganno, rassegnarsi al fatto che la civiltà giuridica del territorio trascriva con fedeltà l’assai disomogeneo livello di sensibilità espresso dalle collettività regionali nell’identificare i valori fondativi comuni e nel selezionare poi i rappresentanti politici.

Il tema di un’urbanistica statale non è più sentito come primaziale. Più volte audito innanzi alle Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato durante l’iter di approvazione della riforma c.d. Renzi-Boschi, proposi di indicare nell’art. 117 Cost. almeno i principali fra gli «oggetti» di cui una nuova (e agognata) legge urbanistica statale avrebbe dovuto occuparsi. Parlai per nulla, com’è ovvio[49].

Sul versante paesaggistico, poi, non sono mancati tentativi di scardinare addirittura il principio cruciale di copianificazione fra Stato e Regione, previsto oggi dal codice del paesaggio per la formazione del piano paesaggistico. Ma sono stati fermati dalla provvida sentenza della Consulta 17 novembre 2020, n. 240 (rel. Daria De Pretis), la quale ha annullato il piano territoriale paesistico laziale: «è l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica – ci ha detto la Corte – che è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale: il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali».

Se vogliamo resistere al pessimismo, qualche segnale positivo possiamo tuttavia trovarlo. Mi limito a segnalare i sei piani paesaggistici che hanno faticosamente raggiunto il traguardo: Sardegna (2006), Puglia (2015), Toscana (2015), Piemonte (2017), Friuli-Venezia Giulia (2018), Lazio (2021). Ancora troppo pochi, ma almeno la tendenza è incoraggiante.

 

 

  1. Amministrazioni consensuali e non: un dialogo difficile per una riforma (sinora) irraggiungibile. – Distogliamo lo sguardo dai temi del paesaggio, e torniamo al nodo iniziale.

Da una parte vi sono figure soggettive pubbliche che possiamo definire amministrazioni “consensuali”. Rappresentano collettività, popolazioni. Territori. Per governare, devono ottenere e mantenere il consenso dei cittadini. Il Comune e la Regione (tralasciamo le Città metropolitane e le malridotte Province) ne sono l’esempio classico. Il loro modo di gestire l’interesse pubblico è fortemente condizionato da questo aspetto.

Mi avvalgo di un esempio: uno stabilimento balneare gestito in difformità dalle norme regolative contenute nella concessione demaniale che prevede la rimozione stagionale della struttura al fine di consentire il pieno godimento estetico del paesaggio costiero. In astratto, la reazione del Comune dovrebbe essere immediata. Ma così non è (o almeno non sempre). Il Comune potrebbe infatti essere indotto a “mediare” la prescrizione sullo smontaggio con l’esigenza di non aggravare con costi ulteriori il bilancio di un’impresa che dà lavoro, crea indotto economico e così via. Questa delicata mediazione il giurista – con la sua consueta ipocrisia di linguaggio[50] – la definisce «contemperamento di interessi». L’esito può essere il più variopinto.

Accanto alle prime, sullo stesso territorio operano amministrazioni non consensuali. Come il Prefetto, o le Soprintendenze per i beni paesaggistici. O le Capitanerie di porto. Figure non certo rette da personale politico elettivo, quindi assai meno o per nulla soggette a “cattura” da parte degli interessi territoriali, nobili o ignobili che siano. L’angolo visuale di osservazione della stessa vicenda amministrativa, quindi, differisce molto da quello prescelto da un Sindaco. Con un’immagine molto efficace di Giuseppe Severini, possiamo dire che un’amministrazione di tutela si deve muovere unidirezionalmente, «come lungo una monorotaia, dove una volta rilevata la situazione in fatto deve contenersi a calibrare – in base a regole e cognizioni di scienze e arti – l’intensità e l’adeguatezza delle misure da assumere per intervenire in congrua cura dell’interesse affidatole. Non può cioè uscire dalla monorotaia, deve valutare in concreto dove sensatamente arrivarvi per evitare che l’interesse affidatole sia compromesso o messo in pericolo. È fuori dal compito degli organi tecnici la comparazione e valutazione, diretta o indiretta – vale a dire, la commisurazione – con altri interessi, pubblici o privati»[51].

Così lo scontro è inevitabile. Non è sempre – lo chiarisco subito – un duello fra buoni e cattivi, pur esibendone fin troppo i tratti e le movenze. Di certe collidono due logiche di azione pubblica strutturalmente diverse.

Le ricorda Settis[52] riportando la lettera che uno dei “Costituenti ombra”[53], Ranuccio Bianchi Bandinelli, scrisse a Ruggero Grieco (membro della Costituente) e che fu pubblicata in prima pagina su l’Unità del 15 gennaio 1947. Bianchi Bandinelli temeva infatti l’attribuzione alle Regione della potestà legislativa in materia urbanistica e di tutela del patrimonio artistico: «Se questa disposizione dovesse essere approvata dalla Costituente, ciò equivarrebbe alla rovina rapidissima e irreparabile del nostro patrimonio artistico, che non ha per noi solo un valore morale, storico, ma un altissimo valore economico […]. Tre quarti del lavoro che si compie alla Direzione generale delle Antichità e Belle Arti è costituito da una lotta continua contro infrazioni alle leggi (ahimè, non sempre abbastanza efficaci) di tutela dei monumenti e del paesaggio, perpetrate, o che si tenta di perpetrare, dagli enti locali, sia per ignoranza sia per connivenza con interessi particolari […]. Casi di abusive costruzioni, di abusive vendite, di abusive demolizioni, da parte di Comuni o di privati, o progetti insensati che le propongono, e contro le quali i nostri uffici regionali di Soprintendenza, spesso impotenti a resistere da soli alle pressioni degli interessi locali, ricorrono al Ministero e al Consiglio […]».

Pensiamo anche alla relazione che Giovanni Astengo svolse all’VIII congresso nazionale dell’INU. Correva il 1960. Un tempo in cui ci s’illudeva ancora – ne ho accennato più sopra – che l’agenda politica desse alla programmazione economica e alla pianificazione urbanistica un’importanza assoluta e si fosse quindi vicini – con l’approvazione del Codice dell’urbanistica – all’agognata riforma dei suoli. Una relazione ancora oggi di piena attualità: «i privati continuamente muovono all’assalto pretendendo di agire in modo incontrollato o di imporre la propria volontà agli Amministratori locali (e troppo spesso vi riescono); dall’altra, l’Amministrazione centrale dello Stato o impone, spesso anche senza consultazione, le sue scelte per gli interventi, oppure, quando si tratti di spese deliberate dalle Amministrazioni locali con finanze proprie, frappone tali e tante difficoltà, controlli e supervisioni, tecniche e finanziarie, da snervare nella lunga attesa per la concessione di un mutuo o per l’approvazione di un progetto, anche i più saldi nervi di un amministratore»[54].

Ma come ho detto, tutto svanì. Di quella stagione ci resta l’esempio di «intellettuali e uomini politici tenacemente impegnati nell’opera di rinnovamento del Paese», come nel 1966 scriveva un ancora entusiasta e speranzoso Giorgio Ruffolo introducendo i sei volumi pubblicati dal Ministero del Bilancio in tema di programmazione economica: uomini che Ruffolo chiamava (includendovi sé stesso) «gli éfori della programmazione italiana», il cui disegno pieno di futuro «esce non soltanto dalle loro competenze tecniche, ma anche dalla loro passione civile»[55].

Ci restano, ancora, conati normativi, frantumi tristi di un affresco mai realizzatosi. Holzwege. Come la generosa (per le intenzioni perseguite), ma funesta legge n. 167 del 1962 sull’edilizia economica e popolare: sinonimo di aree periferiche, di marginalizzazione e di pericoloso degrado sociale. O la legge ponte (verso una riva mai raggiunta, chiosava amaro Giannini), della cui ambiguità perniciosa abbiam già detto.

 

  1. Ancora grandi sogni. E piccoli, più realistici, cabotaggi. – «Che fare?», direbbe Lenin.

Una proposta, non meno spazientita che (letteralmente) tagliente, ci viene di recente da Zagrebelsky, che ha attaccato frontalmente le Regioni: «nate come progetto di politica vicina ai cittadini, efficiente nell’interpretarne i bisogni e le tradizioni, nemica del centralismo autoritario, palestra di formazione di classi dirigenti nazionali, innovative e programmatrici, fecondatrici di una unità nazionale partecipata: tutta questa bellezza sta nei propositi che, via via, la realtà si è incaricata di smorzare. In parallelo, però, con l’esplosione del regionalismo come retorica. C’è stato un momento, tra il ’60 e l’80 del secolo scorso, in cui, se non eri “regionalista”, anzi “iper-regionalista” entusiasta, se non anche federalista, quasi non avevi diritto di parola nelle innumerevoli assise che radunavano studiosi, politici, amministratori. Per fare un poco di autocoscienza sarebbe istruttivo mettere in fila i titoli di ciò che si è scritto, i convegni e le tavole rotonde, le cattedre universitarie, gli istituti per le Regioni, eccetera: non si finirebbe più. La conclusione è stata un’escrescenza ideologica»[56].

Zagrebelsky non esita a dirlo: «Si incomincia a pronunciare quella che, fino a non molto tempo fa, sarebbe stata una bestemmia, che non mancherebbe di argomenti: altro che buon governo delle Regioni; aboliamole piuttosto!». Ma il Maestro sa bene che è un’utopia quasi rivoluzionaria: il potere aggrumatosi intorno a quell’infelice creazione dei Costituenti è enorme, e non lascerebbe mai il campo, sostanziato com’è da interessi economici assai corpulenti.

E torna così la domanda del vecchio Volodja.

Se volessimo continuare nel sogno, risponderemmo che si deve distinguere e quindi differenziare.

Distinguere, anzitutto. Tra urbs e civitas.

È la sfida generale, quella più ambiziosa, cui il pensiero giuridico occidentale comincia a dedicarsi: da una parte il Comune; dall’altra la Città.

La teorizza bene Fabio Giglioni: «la città assume una rilevanza autonoma dal punto di vista giuridico solo se è civitas, ovvero ricerca di senso e di identità di cittadinanza[57], un luogo nel quale la comunità trova una rappresentanza specifica con soluzioni innovative e originali delle esigenze che esprime. Si tratta di una caratteristica non estranea alla storia delle città, soprattutto se si tiene conto di quelle europee, la cui essenza è stata dimenticata a causa dell’avvento degli ordinamenti statuali, i quali hanno avuto il bisogno di soffocare il pluralismo istituzionalismo delle città per potersi consolidare e affermare. È cosi arrivata a noi una versione monodimensionale delle città […]»[58].

Una riscoperta, in somma: per un inizio che «ist noch»[59], è ancora.

Non sappiamo, in verità, quali vie di diritto ci portino all’idea giuridica di città. Né se esista davvero: «il pourrait, pour dire les choses crûment, s’agir d’un avatar parmi d’autres de la décentralisation territoriale»[60].

Abbiamo soltanto una certezza in negativo: che «le gouvernement des entités urbaines offre au regard des caractéristiques très particulières», per cui «ces structures administratives de base que restent encore les communes ne coïncident pas avec les réalités urbaines, elles ne sont en général pas à l’échelle»[61].

Le costellazioni di orientamento restano ancora tutte da inventare. Se posso immaginare una previsione, non credo che si perverrà alla creazione di nuove figure soggettive con attribuzione di personalità giuridica e di competenze per materie specifiche. Roma capitale, in altre parole, non è per definizione un modello generalizzabile; né lo è quello delle città metropolitane introdotto dalla l. n. 56/’14: a tacere della coeva, dimenticabile corsa al riconoscimento da parte di realtà ben lontane dal poter pretendere quello status, mi sembra comunque troppo presto per stilare bilanci.

Più che la distinzione, mi sembra allora praticabile la via della differenziazione. Anzi, proseguibile: l’uniformità è in effetti una mitografia consunta, poiché – ci dice ancora Bin – «se spulciassimo nella nostra legislazione attuale troveremmo anche oggi innumerevoli conferme di una sfaccettata differenziazione dei comuni nei compiti e nelle funzioni loro assegnati»[62].

In materia di governo del territorio propongo un’articolazione differenziale dei Comuni non tanto per funzioni, quanto per poteri o – se preferiamo dir così – per spazi giuridici di azioni e politiche pubbliche consentite loro. Mi spiego.

Ho ricordato più sopra la riflessione di Bin circa la necessità – tale perché costituzionalmente imposta dal principio di differenziazione – di regolare in modo diverso situazioni diverse. Ora, mi domando se sia coerente con quel principio assimilare Comuni che – per le più varie ragioni: qui non importa affatto – si reggono su armature urbanistiche più o meno obsolete a quelli che invece le adeguano tempestivamente alle normazioni statali o regionali che si susseguono nel tempo.

Un esempio l’ho fatto prima: vi sono Comuni che sono rimasti fermi ai piani di ricostruzione (o ai programmi di fabbricazione degli anni ’70). Ebbene, possono questi esser considerati di “rango” eguale ai Comuni che si sono invece provvisti degli strumenti introdotti e disciplinati dalle leggi regionali organiche di ultima generazione? E ancora: non vi sono forse differenze di “virtuosità” nel governo del territorio a seconda che un comune abbia adeguato o meno il proprio strumento generale alle pianificazioni sovracomunali? Proseguo: un Comune che sia bene in asse rispetto ai piani territoriali tematici eventualmente esistenti – paesaggistico, di bacino, del parco, etc. – non è strutturalmente differente da quello che non ha voluto compiere un siffatto, pur doveroso miglioramento qualitativo?

Non mi pare, in sintesi, impossibile impostare una serie di criteri che conducano a un indice di virtuosità territoriale: cui, sia chiaro, devono corrispondere non solo (e non tanto) premialità[63], ma anche (e sopra tutto) inibizioni ad tempus. Il modello, d’altra parte, non è certo nuovo: basti pensare – tra i tanti esempi, il più noto – alle «limitazioni» imposte dagli standard a operatività immediata ex art. 17 della legge ponte nei confronti dei Comuni sprovvisti di p.r.g. o di p.d.f.

Ma è tempo di tornare alla realtà: «ormai il sogno si è rattrappito»[64].

Se è davvero così, allora la risposta è navigare a vista, sotto costa. Piccolo cabotaggio.

Per esempio, invertire la tendenza registrata nei decenni scorsi a trasferire le competenze in materia di governo del territorio dalle amministrazioni interventual-distali a quelle consensual-prossimali[65], sino alla sospetta corrività delle Regioni che hanno addirittura subdelegato ai Comuni l’autorizzazione paesaggistica[66]. Ancora, sottrarre ai Comuni le competenze a irrogare ed eseguire sanzioni in materia edilizia, per affidarle invece al Prefetto: «uomo dai cento mestieri», figura cioè a competenza generale che svolge un ruolo ad ambito tendenzialmente innominato, come ci ricorda Paolo Urbani[67]. Prevedere lo scioglimento del consiglio comunale in caso di mancata approvazione dello strumento urbanistico generale entro un termine dato, ovviamente inferiore alla durata della consiliatura. In breve, tutti gli ambiti di azione prossimale direttamente esposti al rischio di cattura – per ricatto elettorale o peggio – da parte del privato.

È davvero poco, se pensiamo a una riforma strutturale e di sistema. Se ci ostiniamo ancora nell’irrinunciabile imprudenza di sognare[68].

Quasi nulla.

 

Pier Luigi Portaluri

Ordinario di Diritto amministrativo

nell’Università del Salento

*Questo lavoro è destinato agli Scritti in onore di Maria Immordino. Il cui affetto per me – non meno alto che ricambiato – ha i colori adesso del consiglio saggio ed erudito; adesso della guida rasserenante e sicura.

[1] M. Immordino, La dimensione “forte” della esclusività della potestà legislativa statale sulla tutela del paesaggio nella sentenza della Corte costituzionale n. 367 del 2007, in Aedon, 2008, n. 1, ha a suo tempo salutato con grande favore il neocentralismo del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 (che la Consulta aveva positivamente vagliato nella sentenza ivi commentata): quel decreto, «muovendosi su una linea di tendenziale rafforzamento di attribuzioni in capo allo Stato, ha segnato una inversione rispetto all’indirizzo, affermatosi a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e ripreso dal Codice del 2004, caratterizzato dal riconoscimento alle regioni di un ruolo centrale nella tutela del paesaggio e, in particolare, nella fase di gestione del vincolo paesaggistico […]. Inversione di tendenza che era stata invocata anche da quei settori della società civile più sensibili alle tematiche paesaggistiche nel tentativo di porre un argine a quel processo di urbanizzazione-trasformazione intensiva del territorio, particolarmente grave ove si pensi che ha riguardato principalmente aree di elevato pregio paesaggistico e culturale, che ha messo drammaticamente in luce l’incapacità, determinata spesso dalla mancanza di una chiara volontà politica in tal senso, delle amministrazioni locali a garantire la legalità degli interventi di trasformazione del proprio territorio prima, ed a sanzionare l’abusivismo edilizio, dopo […]».

[2] Di questa Vorverständnis si trova per esempio traccia nel saggio di G. Gardini, Riordino istituzionale e nuove forme di governo locale, in L. Vandelli, G. Gardini, C. Tubertini (a cura di), Le autonomie territoriali: trasformazioni e innovazioni dopo la crisi, Rimini, Maggioli, 2017, p. 67 ss., spec. p. 69. Con riferimento agli assetti ordinamentali conseguenti allo scenario di crisi economico-sociale iniziata negli anni dieci di questo secolo, Gardini nota che «l’autonomia cessa di essere una virtù e assume i contorni del vizio». A me pare invece che, in generale, né l’autonomia, né il centralismo possano essere a priori qualificati assiologicamente in un senso o nell’altro. Se poi guardiamo, in particolare, al governo del territorio, avrei sì qualche difficoltà nel mantenere una posizione di indifferenza valutativa: ma orientandomi in senso opposto a quello indicato da Gardini.

[3] Puntualmente ignorate. L’antidoto, in Italia tradizionalmente inutilizzato, lo indica S. Settis, L’Italia delle fragilità, in La Stampa, 25 maggio 2021: «Non c’è sfera di cristallo, non c’è negromante da cui invocare risposte. Abbiamo (avremmo) uno strumento più efficace per interrogarci su questo tema, che compare e scompare nel discorso pubblico come un perenne, ostinato fiume carsico. Questo strumento è (sarebbe) la memoria».

[4] Una voce che mi appare per fortuna dissonante è quella di M. Renna, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, Giappichelli, 2021, p. 151: «Applicare il principio di sussidiarietà, invero, non significa affatto privilegiare incondizionatamente i livelli di governo locali nella distribuzione delle competenze. […] Insomma, il principio di sussidiarietà verticale ha in realtà una valenza intrinsecamente e fisiologicamente ambivalente, poiché, a seconda dell’ampiezza e della consistenza delle funzioni che devono essere conferite, la sua applicazione può sospingere dette funzioni sia “verso il basso” che “verso l’alto”. […] In materia ambientale, quindi, è proprio una rigorosa applicazione del principio di sussidiarietà che, per le ragioni sopra esposte, dovrebbe portare all’allocazione di funzioni di tutela a un livello mediamente “alto”».

[5] Di regola medio-piccola, nel mosaico geoamministrativo italiano.

[6] Devo fare subito una precisazione, forse ovvia. La mia lettura antiprossimalista concerne la gestione ordinaria dei processi reali relativi al territorio. Il quadro cambia se invece guardiamo a episodi trasformativi che sono caratterizzati da una doppia eccezionalità: la loro natura interventuale e – ancor più – la loro riferibilità ad agglomerati urbani di grandi dimensioni, come Roma o Milano. Mi riferisco alle riflessioni di P. Urbani, Ripensare la città o la città contemporanea? Note a margine, in Astrid, 2021, p. 7, secondo cui «il punto centrale delle recenti vicende urbanistiche è quello della riduzione della discrezionalità dell’amministrazione locale – favorito da interventi legislativi statali e regionali recenti – a vantaggio di interessi superlocali che spesso non hanno nulla a che fare con l’interesse pubblico sovraordinato, ma piuttosto, con interessi di parte per lo più privati che – qualora realizzati – contribuiscono ad aumentare le fratture urbane più che a risanarle, sotto le mentite spoglie della rigenerazione urbana». Peraltro, sempre con riferimenti a questi casi lo stesso Urbani subito dopo avverte: «non è sempre vero – come si è detto – che il comune sia espropriato di determinate funzioni in merito alla determinazione di un assetto condiviso del territorio. In realtà l’ente locale primario – come confermato più volte dalla Corte costituzionale riprendendo l’art. 114, 2° co. e l’art. 118 Cost. – dispone di tutti gli strumenti per governare il territorio, ma in molti casi mancano le politiche».

[7] Riconosciuta anche da G. Gardini, Riordino istituzionale, cit., p. 75, sebbene in un quadro di giudizio opposto a quello da me qui sostenuto: «l’idea posta a fondamento della riforma del Titolo V non era solo quella di potenziare l’autonomia dei territori, regioni in testa. A fianco di questo obiettivo, senz’altro prioritario, vi era anche l’idea di rompere l’uniformità amministrativa, riducendo la consistenza delle funzioni amministrative assegnate allo Stato, potenziando il profilo dei Comuni come enti amministrativi, valorizzando il ruolo regionale di programmazione e legislazione».

[8] V. De Lucia, Urbanistica sostenibile e non sostenibile. Un confronto tra città, in Meridiana, 2001, p. 45 ss., spec. p. 46: «Certamente, non può farsi di tutt’erba un fascio, Ferrara non è Agrigento, le coste della Toscana non sono quelle della Calabria. In nessuna città olandese, inglese, francese o tedesca ci sono quartieri come il Vomero o Monte Mario».

[9] Mi pare che anche la Consulta abbia oramai rescisso il filo che lega la pianificazione urbanistica anzitutto al livello comunale: «[…] Se quindi la funzione di pianificazione comunale rientra in quel nucleo di funzioni amministrative intimamente connesso al riconoscimento del principio dell’autonomia comunale, ciò non comporta, tuttavia, che la legge regionale non possa intervenire a disciplinarla, anche in relazione agli ambiti territoriali di riferimento, e financo a conformarla in nome della verifica e della protezione di concorrenti interessi generali collegati a una valutazione più ampia delle esigenze diffuse sul territorio (sentenza n. 378 del 2000). Anche dopo l’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, questa Corte ha ribadito, con riguardo all’autonomia dei Comuni, che “essa non implica una riserva intangibile di funzioni, né esclude che il legislatore competente possa modulare gli spazi dell’autonomia municipale a fronte di esigenze generali che giustifichino ragionevolmente la limitazione di funzioni già assegnate agli enti locali” (sentenza n. 160 del 2016). Non sono mancate occasioni, inoltre, in cui questa Corte ha anche espressamente escluso che “il ‘sistema della pianificazione’ assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – che è fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga a tali strumenti” (sentenza n. 245 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 46 del 2014). La competenza concorrente in materia di governo del territorio, infatti, abilita fisiologicamente la legislazione regionale a intervenire nell’ambito di disciplina della pianificazione urbanistica; del resto, come correttamente ricorda la difesa della Regione e delle parti private, è la stessa norma che individua le funzioni fondamentali comunali a prevedere che rimangono ferme “le funzioni di programmazione e di coordinamento delle regioni, loro spettanti nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione” (art. 14, comma 27, del d.l. n. 78 del 2010, come sostituito dall’art. 19, comma 1, lettera a, del d.l. n. 95 del 2012, come convertito). […] All’interno del delicato rapporto tra l’autonomia comunale e quella regionale, tuttavia, questa Corte ha avuto modo di precisare anche che “il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere” (sentenza n. 378 del 2000) e che la suddetta competenza regionale “non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei comuni” (sentenza n. 83 del 1997). Su questo piano, è quindi richiesto uno scrutinio particolarmente rigoroso laddove la normativa regionale non si limiti a conformare, mediante previsioni normative alle quali i Comuni sono tenuti a uniformarsi, le previsioni urbanistiche nell’esercizio della competenza concorrente in tema di governo del territorio, quanto piuttosto comprima l’esercizio stesso della potestà pianificatoria, come nel caso di specie, paralizzandola per un periodo temporale. In questi casi, dove emerge come il punto di equilibrio tra regionalismo e municipalismo non sia stato risolto una volta per tutte dal riformato impianto del Titolo V della Costituzione, il giudizio di costituzionalità non ricade tanto, in via astratta, sulla legittimità dell’intervento del legislatore regionale, quanto, piuttosto, su una valutazione in concreto, in ordine alla “verifica dell’esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali” (sentenza n. 286 del 1997). Viene quindi in causa il variabile livello degli interessi coinvolti, cui ha riconosciuto specifica valenza costituzionale l’affermazione del principio di sussidiarietà verticale sancito nell’art. 118 Cost., che porta questa Corte a valutare, nell’ambito di una funzione riconosciuta come fondamentale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., quanto la legge regionale toglie all’autonomia comunale e quanto di questa residua, in nome di quali interessi sovracomunali attua questa sottrazione, quali compensazioni procedurali essa prevede e per quale periodo temporale la dispone» (C. cost., 16 luglio 2019, n. 179: è l’importante sentenza secondo cui, più in generale, l’urbanistica «da un lato, traguarda le più recenti concezioni di territorio, considerato non più solo come uno spazio topografico suscettibile di occupazione edificatoria ma rivalutato come una risorsa complessa che incarna molteplici vocazioni (ambientali, culturali, produttive, storiche) e, dall’altro, è avvertita sul fatto che il consumo di suolo rappresenta una delle variabili più gravi del problema della pressione antropica sulle risorse naturali»).

[10] È il breve, celebre scritto In principio sono le funzioni, in Amministrazione civile, 1959, p. 11 ss. Tra le prime righe, col suo stile elegante e patinato d’ironia: «i periodi di maggior floridezza di comunità associate generali sono stati quasi sempre contradistinti anche da particolare intelligenza di strutturazione di pubblici poteri» (p. 11).

[11] «La forma più appariscente di questa mancanza di chiari rapporti organizzativi tra i pubblici poteri è costituita principalmente dall’assoluta empiricità della ripartizione delle funzioni», sempre vittime di una vieta «tecnica del frazionismo» (M.S. Giannini, op. cit., rispettivamente p. 13 e p. 14).

[12] Per esempio l’assistenza sanitaria, che richiede sia pianificazione delle prestazioni ai livelli centrale, regionale e comunale, sia conoscenza capillare delle esigenze della popolazione locale. Cfr. R. Bin, Chi ha paura delle autonomie?, in Scritti in ricordo di Paolo Cavaleri, Napoli, ESI, 2016, p. 45 ss. (il saggio è leggibile anche all’indirizzo http://www.robertobin.it/ARTICOLI/Scritti_Cavaleri.pdf.): «Il principio di sussidiarietà non è un criterio per allocare le funzioni amministrative ma un principio di buon governo. Prima ancora di servire da guida per l’allocazione delle funzioni esso invita a considerare quale livello di governo è in posizione ottimale per percepire la realtà rispetto alla quale determinate funzioni vanno esercitate. I servizi alla persona non possono essere opportunamente organizzati da lontano […]» (p. 55).

[13] Una sintesi dei modelli preunitari e poi precostituzionali in E. Carloni, Lo Stato differenziato. Contributo allo studio dei principi di uniformità e differenziazione, Torino, Giappichelli, 2004, p. 92 ss.: «L’uniformità si afferma non tanto per forza propria, quanto per debolezza dello Stato italiano di recente formazione: […] si decide, così, di “prevenire la disuguaglianza” dei corpi sociali intermedi. L’uniformità cala, consapevolmente, su realtà sociali e politiche fortemente disomogenee, ed è evidente sin dall’affermazione normativa della medesima disciplina per tutti gli enti locali, come questa stessa affermazione non tenga conto di differenze di fatto rilevantissime» (p. 97 s.).

[14] Così, in modo questa volta condivisibile, G. Gardini, Riordino istituzionale, cit., p. 95. Che prosegue: «Non tutti i municipi possono e debbono fare le stesse cose, ma vanno distinte le funzioni comunali in base alle capacità, alle risorse, all’adeguatezza degli enti che le esercitano».

[15] R. Bin, Chi ha paura delle autonomie?, cit., p. 57: «Purtroppo l’Anci si è rivelato in tutti questi anni come un fautore della visione centralistica delle autonomie: un’organizzazione nazionale di tipo sindacale che lotta contro la differenziazione e ignora di conseguenza qualsiasi considerazione concreta in merito all’adeguatezza delle amministrazioni comunali».

[16] R. Bin, Chi ha paura delle autonomie?, cit., p. 48.

[17] R. Bin, Chi ha paura delle autonomie?, cit., p. 52. Ancora Bin, con parole più recise: «È un vecchio inganno che tormenta il discorso sulle autonomie potrei dire da sempre, sin dagli anni del Regno di Sardegna, ancor prima dello Statuto Albertino, ai tempi dei primissimi tentativi di riordinare l’autonomia comunale. Il problema – ancor oggi attuale, del resto – è se si potevano differenziare le competenze dei comuni in base alla loro dimensione demografica, o se ai piccoli comuni montani si dovessero riconoscere le stesse attribuzioni dei comuni maggiori. Il Consiglio di Stato prima (1852) e Santi Romano poi (1908) dissero di no, sostennero l’idea – a mio avviso profondamente sbagliata e alquanto disastrosa per la storia d’Italia – che, come i cittadini devono essere tutti eguali davanti alla legge, così dev’essere anche per i comuni, anch’essi tutti eguali nelle loro attribuzioni, piccolissimi o grandissimi che essi siano. Qui si scorge l’equivoco. Sembra che l’eguaglianza di regime cui sono sottoposti gli enti territoriali sia la condizione dell’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti “di prestazione”. I due piani sono invece del tutto distinti. Attribuire le stesse risorse finanziarie e le stesse competenze amministrative alle regioni non significa affatto che tutti i cittadini siano messi nelle stesse condizioni di godimento delle prestazioni pubbliche. […] Sono “eguali” le autonomie in Italia? Chiunque risponderebbe di no, ma non la legge: che il Comune di Milano disponga di adeguati servizi tecnici e il comune di un fondovalle isolato e spopolato no, non sembra dover avere conseguenze; è invece le ha, e il disastro ambientale e territoriale del nostro Paese ne è la prova. Lo dimostrano le periferie costruite in Italia in epoca repubblicana, una vergogna in cui le chiese si confondono con le stazioni di rifornimento e le case si mescolano ai capannoni: sono il frutto di un’autonomia data ai comuni che non avevano le risorse organizzative, conoscitive, culturali e politiche – talvolta anche morali – per fronteggiare gli interessi privati, interessi troppo vicini all’amministrazione per essere amministrati nell’interesse pubblico. L’autonomia – forse si potrebbe chiamare persino la “sovranità” – urbanistica riconosciuta egualmente a tutti i comuni italiani questo ha prodotto» (R. Bin, Il filo rosso della dialettica tra unità e autonomia: ieri, oggi, domani, di prossima pubblicazione in Le Regioni, n. 1, 2021).

Il non meno esiziale che celebre passo di S. Romano («[…] quei medesimi motivi che avevano imposto la più rigorosa applicazione del principio d’eguaglianza fra gl’individui, richiedevano che al principio medesimo non si venisse meno per le più elementari aggregazioni politiche di quest’ultimi»: Id., Il Comune, in V.E. Orlando (a cura di), Primo Trattato completo di diritto amministrativo italiano, Società editrice libraria, Milano, 1908, vol. II, parte I, p. 495 ss., spec. p. 506) è sì seguito da un’ammissione: che la differenziazione «corrisponderebbe alla natura delle cose» (Id., op. cit., p. 509). Ma Romano poi tira dritto: «[…] resta fermo il principio che il tipo del Comune italiano è unico, nel senso che unica è la forma della costituzione e del suo governo. E non a caso si è adoperata la parola principio, giacché sembra, che l’uguaglianza di tutti i Comuni non sia soltanto un semplice stato di fatto, ma che in vece essa dia luogo altresì ad una vera e propria norma giuridica, che ha un significato analogo a quello che il principio costituzionale di eguaglianza ha per i cittadini. Donde la conseguenza che della violazione di una norma siffatta, i Comuni, quando ne sia il caso, posso ritenersi lesi nei loro diritti e nei loro interessi legittimi» (Id., op. cit., p. 512).

[18] Spezzando così l’insieme di interazioni fra natura e azione umana. Eppure – cantava a Sibilla l’Orfico di Marradi – «I piloni fanno il fiume più bello. E gli archi fanno il cielo più bello».

[19] Vicende ricostruite, anche nei loro presupposti politici o comunque metagiuridici, da S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, Torino, Einaudi, 2012, p. 222 ss. Nell’osservare che in questo modo «l’Italia si fa in tre», Settis parla giustamente di «dissennati divorzi» (p. 242 s.).

[20] Altro lemma che i giuristi usano senza curarsi dell’ipocrisia che vi è insita.

[21] La tipizzazione a verde privato arreca infatti il massimo pregiudizio alle situazioni dominicali, poiché non solo le svuota completamente di contenuto, ma anche a tempo indeterminato e senza alcuna previsione di indennizzo: tranne i casi di oggettiva corrispondenza con la reale situazione di fatto (presenza effettiva di parchi, giardini, etc.), questa scelta è spesso utilizzata contra inimicos dalla peggior politica urbanistica comunale. La giurisprudenza, peraltro, nel confermare che tipizzazioni siffatte non hanno carattere sostanzialmente espropriativo, ha di fatto rinunciato a offrirne una costruzione dogmaticamente plausibile, forse sospinta dal pur comprensibile intento assiologico di non compromettere la tutela delle aree realmente interessate da essenze vegetali di particolare interesse. Ricomprendere il vincolo a verde privato nell’ambito delle previsioni non meramente conformative equivarrebbe infatti alla più o meno lenta scomparsa delle aree di cui ho appena detto, onde le asserzioni reiterate e tautologicamente difensive in cui è costretto ad arroccarsi il diritto giurisprudenziale. Una di queste decisioni è Cons. Stato, sez. II, 6 novembre 2019, n. 7559: «non può invece attribuirsi carattere ablatorio ai vincoli che regolano la proprietà privata al perseguimento di obiettivi di interesse generale, quali il vincolo di inedificabilità, c.d. “di rispetto”, a tutela di una strada esistente, a verde attrezzato, a parco, a zona agricola di pregio, verde, ecc. […] Il vincolo a verde rappresenta dunque espressione del potere pianificatorio di razionale sistemazione del territorio in zone omogenee, in radice diverso dal potere ablatorio preordinato all’adozione di provvedimenti di espropriazione. Vale quindi il principio, sancito da questo Consiglio, secondo cui la destinazione impressa dall’Amministrazione che venga ad impedire forme di edificazione, per effetto della “valenza ambientale” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 febbraio 2017, n. 821) dell’area interessata, è espressione di potere conformativo che – sussistendone, come è ovvio, i presupposti di fatto – non comporta né espropriazione né intollerabile compressione del diritto di proprietà corrispondente ad ablazione del medesimo» (corsivo mio). Resta affermato, ma non chiarito, perché in tali casi lo svuotamento totale del diritto di proprietà resti tollerabile.

La questione, in somma, si sposta tutta – per parafrasare il sintagma di Cons. Stato n. 7559/’19 cit. – sulla “sussistenza” («quam horribile verbum!», direbbe Bernardo di Chiaravalle) o meno dei presupposti di fatto. Ma questa è un’indagine piena di aspetti spesso opinabili, dai quali vien fatta tuttavia discendere la natura stessa del vincolo. Che invece si mostra giustificabile solo nei casi in cui la presenza del verde sia davvero incontestabile, come nel caso deciso da TAR Lecce, 14 maggio 2021, n. 718 («una quasi incontaminata naturalità del paesaggio con rilevante presenza di ulivi secolari»).

[22] Anche i piani paesaggistici possono avere una componente di base funzionale al governo del territorio: secondo l’art. 135, primo comma, cod. Urbani, affinché «tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono, […] le regioni sottopongono a specifica normativa d’uso il territorio mediante piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, entrambi di seguito denominati: “piani paesaggistici”».

[23] Il comma 9 dell’art. 143, d.lgs. n. 42/’04 cit. stabilisce che «a far data dalla approvazione del piano [paesaggistico: n.d.r.] le relative previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici». Ancora, secondo l’art. 145, d.lgs. n. 42/’04 le previsioni del p.p.t.r. «sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, […] sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici».

Ci si potrebbe domandare, sul punto, quale sia la normazione applicabile nel caso in cui sia quella paesaggistica a essere più permissiva. Il principio della primauté ex art. 145 induce a ritenere comunque prevalente quest’ultima, massime ove si ponga mente al fatto che si tratta di fonte di livello regional-statale, dunque sovracomunale.

In altri termini, il piano paesaggistico approvato ai sensi del codice Urbani può recare previsioni immediatamente cogenti e prevalenti sulle difformi discipline contenute nei piani sottordinati, quali sono appunto quelli urbanistici.

[24] V. De Lucia, Urbanistica sostenibile e non sostenibile, cit., p. 46: «L’abusivismo è una specialità che condividiamo con il terzo mondo». M. Immordino, L’urbanistica in Sicilia: le ragioni di una continua crisi, in E. Ferrari, P.L. Portaluri, E. Sticchi Damiani, Poteri regionali ed urbanistica comunale, Milano Giuffrè, 2005, p. 123 ss., spec. p. 131, ne parla con riferimento alla Sicilia: «figlio, da un lato, di una diffusa cultura dell’illegalità e del saccheggio del territorio, dall’altro delle ambiguità e contraddizioni delle istituzioni stesse, sia regionali che comunali, nella gestione dei processi d’urbanizzazione del territorio e di tutela di quegli interessi, come quelli paesaggistico-ambientali, che intersecano la materia». Ma la Sicilia – diceva Sciascia – è una metafora. E «la storia siciliana è tutta una storia di sconfitte: sconfitte della ragione, sconfitte degli uomini ragionevoli» (L. Sciascia, La Sicilia come metafora, Milano, Mondadori, 1979, p. 6)

[25] M. Cacciari, Il potere che frena, Milano, Adelphi, 2013, cui adde T. Gazzolo e L. Marchettoni (a cura di), Il potere che frena. Saggi di teologia politica in dialogo con Massimo Cacciari, in Jura gentium, 2015.

Il tema catecontico è stato ripreso poco tempo fa da Sabino Cassese in un dialogo immaginario circa le sorti del Paese. Si confrontano un «ottimista» e un «pessimista». Al primo, Cassese fa dire: «Ma tutti gli ordinamenti moderni hanno forze frenanti o dilazionanti, che corrispondono al concetto biblico, così bene illustrato da Paolo di Tarso, del “Katechon”, il potere che tiene a freno. Queste arricchiscono la democrazia, rendendola più mite, tenendo sotto controllo la tirannide della maggioranza. Lo stesso può dirsi del pluralismo amministrativo, con le regioni» (S. Cassese, Lo stato della Repubblica, in Il Foglio, 11 maggio 2021: ho aggiunto i corsivi).

Qui Cassese – e neanche troppo fra le righe – mi pare vesta gli abiti del «pessimista».

Nell’oscurissimo passo della seconda Lettera ai Tessalonicesi 2, 6-7, Paolo (ammesso che ne sia lui l’autore) illustra infatti assai poco, e parla di qualcuno o qualcosa assai poco mite: «καὶ νῦν τὸ κατέχον οἴδατε, εἰς τὸ ἀποκαλυφθῆναι αὐτὸν ἐν τῷ ἑαυτοῦ καιρῷ· τὸ γὰρ μυστήριον ἤδη ἐνεργεῖται τῆς ἀνομίας· μόνον ὁ κατέχων ἄρτι ἕως ἐκ μέσου γένηται.» («E ora sapete ciò che lo ritiene, affinché sia manifestato a suo tempo. Il mistero dell’empietà infatti è già all’opera, aspettando soltanto che chi lo ritiene al presente sia tolto di mezzo»).

Lasciamo parlare M. Cacciari, Il potere, cit., p. 12 s.: «Paolo – o chi lo interpreta, o cerca di spiegarne il pensiero, certo da fedele discepolo – ritorna sull’escatologia di 1 Tessalonicesi per ammonire che il Signore Gesù non verrà prima del compiersi dell’opera del suo Avversario (Antikeimenos). Il suo giorno dovrà essere preceduto dal pieno dispiegarsi della apostasia (discessio), del mistero dell’anomia (mysterium iniquitatis) – al mistero che è l’epifania del Cristo segue l’apocalisse, secondo la forza di Satana, dell’Empio, di colui che finge di essere Dio e come Dio esige di essere onorato. Il giorno del Signore deve dunque essere atteso, attraversando questo tempo di immensa devastazione. La fine è decisa. Non c’è novitas ancora da scoprire. Ma occorre sopportare con la fermezza del martire l’ultimo assalto dell’antico Drago. È la prova che il Signore impone prima della sua vittoria. Tuttavia, appunto, un’altra potenza sembra operare nello spasmo di questo tempo ultimo, sulla cui durata è vano congetturare – una potenza che raffrena l’apocalisse, il disvelarsi perfetto dell’Empio. Ma quando colui che la incarna sarà tolto di mezzo, allora, nulla restando fra l’Avversario e il Signore Gesù, verrà finalmente quest’ultimo a condannare tutti coloro che non hanno creduto alla sua verità. La parola greca è to katechon, neutro, nella prima ricorrenza (“et nunc quid detineat scitis…”), e ho katechon, maschile, nella seconda (“quitenet nunc…”)».

In somma, anche Cassese – se non m’inganno – nutre scarse speranze sulle capacità amministrative degli enti rappresentativi, che vede come immiti fattori di rallentamento del progresso istituzionale italiano.

Ma quelle parole dell’Apostolo, a riprova del loro esser fatte di mistero, divengono anche una chiamata generosa, un vigoroso Beruf. Nel 2017 donne e uomini di molti paesi firmano un documento: «Per un mondo non genocida. Patria di tutti, patria dei poveri (katechon – appello a resistere)». Solo qualche escerto: «[…] continuare a incendiare il clima e a devastare la terra significa ecocidio, cioè scambiare il lucro di oggi con il genocidio di domani; intercettare il popolo dei migranti e dei profughi, fermarlo coi muri e coi cani, respingerlo con navi e uomini armati, discriminarlo secondo che fugga dalla guerra o dalla fame, e toglierlo alla vista così che non esista per gli altri, significa fondare il futuro della civiltà sulla cancellazione dell’altro, che è lo scopo del genocidio. […] Una tale situazione sembra evocare e rendere di attualità quello che agli albori del cristianesimo l’apostolo Paolo descriveva come “il mistero dell’anomia”, cioè la perdita di ogni legge e la pretesa dell’uomo e del potere “senza legge” di mettersi al di sopra di tutto additando se stesso come Dio. In quella stessa intuizione delle origini cristiane si annunciava però anche un “katechon”, una resistenza, una volontà antagonista che avrebbe trattenuto e raffrenato le forze della distruzione1 e impedito il trionfo della fine, aprendo la strada alla risoluzione della crisi. Comunque si interpreti questa antica parola, noi avanziamo l’urgenza che dai popoli si esprima una tale resistenza, si eserciti questo freno, come già avvenne nel Novecento quando il movimento della pace in tutto il mondo, interponendosi in modo non violento tra i missili nucleari da un lato e l’umanità votata allo sterminio dall’altro, riuscì a ottenere il ritiro della minaccia e a scongiurare la guerra atomica». Commenta Raniero La Valle: «Si è discusso nel corso dei secoli, da teologi, storici e filosofi se storicamente si fosse manifestato o quale potesse essere nel futuro tale “Katécon”, antidoto alla distruzione; qualcuno, autorevole, ed era Carl Schmitt, pensò che fosse stato l’Impero romano, visto come argine alla crisi del sistema antico, molti pensarono a qualcosa che anche oggi si ponesse come “legge e ordine” contro l’anarchia o magari contro quella che all’occhio della destra appare come un eccesso di democrazia e di garantismo. I promotori dell’appello pensavano invece a una resistenza contro lo scatenarsi dell’inequità (il neologismo introdotto da papa Francesco) e per prima cosa indicavano due obiettivi prioritari: il disarmo nucleare e lo ius migrandi da adottare e preservare come diritto umano universale, del resto come tale teorizzato già da Francisco De Vitoria all’inizio dell’età moderna» (R. La Valle, Ora si può, Torino, Giappichelli, 2021, p. 13 s.).

[26] P. Calamandrei, L’ostruzionismo di maggioranza, in Scritti e discorsi politici (a cura di N. Bobbio), Firenze, La Nuova Italia, 1966, p. 546 ss.

[27] Ecco come lui stesso, in quel mattino d’autunno, ne sintetizza in quattro punti il telaio portante: «Tali principi si possono così riassumere: a) procurare la certezza che i compilatori dei piani urbanistici, nell’assolvere a questo delicatissimo compito, abbiano di mira esclusivamente gli interessi pubblici; liberare le autorità amministrative ed i tecnici urbanistici dalle pressioni degli interessi privati settoriali; rendere possibile una pianificazione rapida, efficiente, che sia adeguatamente elastica e possa essere coordinata con le esigenze di sviluppo economico della intera collettività; b) consentire che i comuni ed i soggetti pubblici interessati acquisiscano ad un prezzo equo le aree che siano indispensabili per i servizi pubblici e sociali; liberare cioè i comuni dalla schiavitù rappresentata dagli insostenibili oneri finanziari attuali ; la utilizzazione del suolo cittadino condiziona lo sviluppo delle città per secoli e non si può farla perciò dipendere dalle transitorie difficoltà di carattere finanziario delle amministrazioni; c) porre tutti i proprietari, in relazione agli effetti della legislazione urbanistica, su un medesimo piano di parità; impedire che la costruzione della città si traduca per gli uni in un danno per gli altri in un enorme vantaggio; d) semplificare al massimo i servizi urbanistici e contenerne il costo di gestione; uno dei maggiori inconvenienti della attuale situazione, nonché degli istituti del tipo della perequazione dei volumi o della imposizione sulle aree fabbricabili, è rappresentato dalla dispersione degli interventi e dalla complessità dei servizi amministrativi» (ho estratto il brano dal resoconto della seduta antimeridiana della Camera del 23 ottobre 1962, p. 34870).

[28] Paul Ginsborg descrive molto bene – e senza troppi infingimenti – il quadro socio-politico ed economico italiano in quel torno di tempo: «La difficile situazione economica e politica della seconda metà del 1962, d’altro canto, aveva dato luogo a una crescente ondata di panico. I giorni di lavoro persi per sciopero ammontarono, nel 1962, quasi a 182 milioni, contro i 46 milioni del 1960 e i 79 milioni del 1961. Nel luglio 1962 vi erano stati, inoltre, gli scontri di piazza Statuto, della cui responsabilità la Confindustria aveva accusato il governo “filo-operaio”. In alcuni settori produttivi del Nord si manifestava il fenomeno, assolutamente nuovo, di un eccesso della domanda di forza-lavoro, mentre i salari tendevano a oltrepassare i tetti fissati dai contratti nazionali di categoria e mantenevano un ritmo di crescita che cominciava a superare l’aumento della produttività. Le aziende più grandi, ancora sospinte dall’onda lunga del “miracolo economico”, furono capaci di assorbire questi costi maggiori e le difficoltà manifestatesi sul fronte operaio. Le piccole e medie fabbriche, invece, si trovarono presto in difficoltà finanziarie, e non tardarono ad incolpare il governo della loro situazione. Dall’autunno del 1962 in avanti si delinearono con sempre maggiore chiarezza i diversi effetti di una situazione economica così mutata. Poiché gli imprenditori scaricavano sui prezzi gli aumenti salariali concessi e la richiesta di alcuni beni di consumo superava l’offerta, per la prima volta dagli anni ’40 l’inflazione divenne un problema significativo. I piccoli e medi industriali, da parte loro, reagirono alla nuova situazione col blocco degli investimenti, sostenendo che non era possibile investire in un momento di simile incertezza economica, con i salari che corrodevano sempre più pesantemente i profitti. Come risposta alla nuova tassa sui dividendi azionari, inoltre, si era accentuato il fenomeno della fuga di capitali all’estero. Gli ex monopoli elettrici, la cui influenza nei circoli finanziari era rimasta immutata, fomentavano il clima di incertezza: la borsa crollò, la fiducia negli affari fu scossa.

Furono queste le circostanze che portarono la Dc a sbarrare la strada alle riforme. I dorotei convinsero rapidamente Moro dei pericoli che avrebbe corso la Dc se non si fosse posto un freno al dinamismo di Fanfani. Inflazione e panico finanziario stavano minacciando seriamente i piccoli e medi risparmiatori, da sempre i più decisi sostenitori della Democrazia cristiana. Troppo grande era dunque il pericolo di alienarsi la loro simpatia, così come quella degli industriali. Nella primavera del 1963 si sarebbero dovute tenere le elezioni politiche: era giunto il momento di darsi una calmata, e fin da subito. Come al solito, Moro mise gli interessi del proprio partito al primo posto e decise di congelare due importantissime riforme che stavano per affrontare l’esame del parlamento. La prima di queste era la tanto attesa istituzione delle Regioni. Il decentramento regionale significava dare più potere ai comunisti nella “cintura rossa” dell’Italia centrale, e la dirigenza democristiana aveva capito che questo non era certo il momento perché si facesse una simile concessione. La seconda riforma riguardava la pianificazione urbanistica, e il modo in cui fu sabotata resta una delle pagine più infelici nella storia politica della Repubblica» (P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi (1943-1988), Torino, Einaudi, 1989, p. 371).

[29] Pare anche che costui pregasse il buon Dio di chiamarlo a miglior vita prima del Concilio Vaticano II, così da poter morire ancora cattolico.

[30] Questa: «In relazione alle polemiche circa lo schema di legislazione urbanistica […] si fa rilevare che il documento, il quale ha fornito occasione a vari rilievi, è il frutto del lavoro di una Commissione di studio istituita presso il Ministero dei lavori pubblici. Lo schema così formulato è stato inviato direttamente dal ministro competente all’esame del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro prima di sottoporlo all’approvazione del Consiglio dei ministri. Pertanto, per quanto siano apprezzabili alcune disposizioni, è chiaro che nello schema non è in alcun modo impegnata la responsabilità della Democrazia cristiana. Questo partito, com’è chiaramente detto nel suo programma [elettorale], persegue l’obiettivo di dare la casa in proprietà a tutti gli italiani senza limitazione alcuna nella tradizionale configurazione di questo diritto. Anche nella legislazione urbanistica saranno pienamente rispettati, per quanto riguarda la Dc, i principi costituzionali e i diritti dei cittadini».

[31] Classico il caso del diniego di titolo abilitativo rilasciato senza prima acquisire il parere della commissione edilizia comunale, apporto consultivo obbligatorio sino alla legislazione di fine anni ’90, che – a partire dall’art. 41, l. 27 dicembre 1997 n. 449 (“Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica”) – ne avviò progressivamente la soppressione (sul punto, v. C. Silvestro, Il declino delle commissioni edilizie: organi indispensabili o da sopprimere?, in Urb. App., 2000, p. 354 ss.).

[32] Chi avesse potuto osservare la prassi coeva di alcune amministrazioni comunali avrebbe infatti notato la tendenza a interpretare il mero annullamento (o addirittura la sospensione cautelare) giurisdizionale del diniego fondato esclusivamente su quel motivo formale come implicito accertamento positivo della spettanza del bene della vita: onde poi il rilascio disinvolto del titolo edilizio abilitativo.

[33] Come i piani di ricostruzione dell’immediato dopoguerra: poco più che macchie di colore sulla tavola del territorio comunale. Risulta peraltro che alcuni Comuni del Molise siano ancora oggi rimasti fermi a questo stadio primordiale della strumentazione urbanistica.

[34] Sulle traversie, i compromessi e le mutilazioni che la legge Gorla subì per poter vedere la luce rinvio a P.L. Portaluri, Poteri urbanistici e principio di pianificazione, Napoli, Jovene, 2003.

[35] P. Urbani, Ripensare la città, cit., p. 15: «il ripensare la città soffre di una contraddizione poiché non riguarda la città come luogo di convivenza civile ma il progetto che a guardar ben significa “proiettile”, che irrompe sul territorio e non si sa quali danni può creare!».

[36] Una bella immagine in P. Urbani, Ripensare la città, cit., p. 6: il piano come «profezia credibile».

[37] S’incontra qui uno slogan saggio, di segno opposto al precedente: «meglio il peggior piano che nessun piano».

[38] Perfetta la posizione di M. Immordino, Abusivismo edilizio e interesse paesaggistico-archeologico nella regione siciliana, in E. Ferrari, N. Saitta, A. Tigano (a cura di), Livelli e contenuti della pianificazione territoriale, Milano, Giuffrè, 2001, p. 421 ss., spec. p. 423, quando condanna la «sottovalutazione dell’interesse paesaggistico-archeologico rispetto ad altri interessi, in via di principio, preminenti soprattutto per la loro diretta influenza su quell’interesse che rappresenta, almeno per certa classe politica, un valore assoluto: l’interesse elettorale».

[39] Cioè tutte le aree comunali; scelta solo parzialmente temperata, peraltro, dalle tecniche perequative.

[40] Così V. Mazzarelli, L’urbanistica e la pianificazione, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, III, Milano, Giuffrè, 2000, p. 2535 ss., spec. p. 2553.

[41] Primeggiarono, ancora una volta, le istanze fondiarie e imprenditoriali, desiderose di aver mano libera nella gestione dei suoli.

[42] C. Odorisio, Il dibattito del ’68 e il bilancio attuale, in Urbanistica Dossier, 1999, n. 21, p. 7.

  1. anche E. Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Venezia, Corte del Fontego, 2010, p. 54: «Al di là delle motivazioni sociali, al di là della tecnica e delle buone pratiche, la discussione andava al sodo: quali fossero i minimi di spazi pubblici da riservare nei piani. I due poli del confronto erano rappresentati da una parte dai parlamentari del PCI, rappresentati in quella sede da Alberto Todros, noto urbanista piemontese e amministratore comunale, sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, e dall’altra parte dagli esponenti delle imprese di costruzione, rappresentati da Carlo Odorisio, un imprenditore che più tardi seppe lavorare concretamente per un ruolo moderno del settore, orientando l’attività delle aziende alla formazione di profitto industriale anziché all’appropriazione della rendita fondiaria. Allora lo scontro si concluse sulla cifra di 18 metri quadrati per abitante di “spazi pubblici e di uso pubblico”: meno di quanto si praticasse nei comuni evoluti delle amministrazioni di sinistra, ma molto più di quanto si prevedesse nella pianificazione della maggior parte dei comuni nelle altre regioni».

[43] E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 128.

[44] P.L. Cervellati, Rendita urbana e territorio, in V. Castronovo (a cura di), L’Italia contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, p. 358.

[45] E qui si deve ricordare il capolavoro di sarcasmo amaro scritto da Giannini, già presidente della commissione nominata dal Ministro per gli affari regionali Mario Toros al fine di studiare le modalità attuative della l. n. 382/’75. Mi riferisco ovviamente al suo Del lavar la testa all’asino, prefazione ad A. Barbera, F. Bassanini (a cura di), I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali. Commentario al decreto 616 di attuazione della legge 382, Bologna, il Mulino, 1979, p. 7 ss. (ora in Id., Scritti 1977-1983, Milano, Giuffrè, 2005, p. 419 ss., da cui citerò).

Giannini vi critica il disegno regionalista voluto dal Costituente, definendolo «malamente […] congegnato», «miope e provinciale» (entrambi i complimenti sono a p. 419); come pure «raro esempio d’insipienza legislativa» (p. 420). Né il Maestro è molto più mite nei confronti della legge delegata n. 616/’77, da lui amorevolmente ritenuta «carica di sgorbi, politici e giuridici» (p. 419).

Ma a questi giudizi Giannini perviene per due ragioni diverse: la prima è di oggettiva fondatezza; circa la seconda, mi permetto invece – si licet – di sistemarmi sul versante opposto.

La prima ragione. Che l’armatura costituzionale in tema di riparto delle attribuzioni prescindesse purtroppo dal metodo della previa analisi funzionale era limite già noto, cui non ha posto certo rimedio la riforma del 2001. Fu proprio questa – ricorda ancora Giannini – la metodologia seguita invece con fatica dalla sua commissione, poiché «le strutture sono al servizio delle collettività e non dei prebendari che le dirigono» (p. 425): sforzo in buona parte vanificato quando si trattò di trascrivere nel diritto positivo le conclusioni della Relazione 20 dicembre 1976 che ne compendiava i lavori (da lui stesso peraltro definita «provocatoria» a motivo della moltitudine di poltrone che sarebbero uscite soppresse: p. 425 s.). Il contenuto del d.P.R. n. 616/’77, in somma, dimostra «che da parte del Governo si è avuto un pieno ripudio del criterio dell’analisi delle funzioni», aggravato poi – ecco un’altra gemma – «dal mercato nero che si aprì al finale» (entrambi i passi a p. 428).

Il secondo ordine di critiche mosse da Giannini all’impianto costituzionale del sistema regionale è riassumibile in pochissime parole: nel non aver prescelto «la figura organizzatoria dell’autogoverno» (p. 419); a nulla valendo, sempre a suo avviso, l’obiezione secondo cui ciò avrebbe comportato la soppressione dei prefetti: «quasi che – egli replica – comunque si istituissero le regioni, in ogni caso le prefetture non si sarebbero ridotte a costosi comunicati» (p. 419 s.). Questo mio minuscolo contributo, al contrario, vorrebbe dimostrare i pericoli insiti in un modello siffatto.

[46] In realtà – nota esattamente Settis – la scissione fra paesaggio e urbanistica deriva direttamente dall’impianto costituzionale. La normazione successiva – costituzionale e ordinaria – ha solo aggravato il problema: «L’ordinamento regionale, decollato nei primi anni Settanta, suscitò molte speranze: si credette che paesaggio e territorio potessero esser meglio tutelati dalle istituzioni a essi più vicine: che, cioè, la Regione potesse tutelare meglio dello Stato, il Comune meglio della Regione. Quarant’anni dopo, si può dire che l’esperienza ha dimostrato il contrario, dando ragione ai peggiori timori di Bianchi Bandinelli: quasi sempre i Comuni, per assenza di competenze appropriate o per basse manovre elettoralistiche, usano il loro territorio in modo improprio, sforzandosi anzi di conquistare il massimo spazio di gestione autonoma delle procedure autorizzative, onde evitare le strettoie delle norme di tutela. Nonostante ciò, l’infelice riforma del Titolo V della Costituzione (2001) ha accresciuto le competenze delle Regioni, di fatto subdelegate ai Comuni, alimentando la spinta centrifuga con la retorica del federalismo. Questa deriva si è accentuata con la legge Bassanini (L. 50/1999) che autorizza i Comuni a dirottare sulla spesa ordinaria gli introiti da oneri di urbanizzazione. Convergendo con il progressivo taglio dei finanziamenti statali ai Comuni, questa norma ha spinto le amministrazioni locali a svendere il proprio territorio, spesso prestandosi a manovre speculative, pur di avere in cassa soldi da spendere. Il paesaggio e le città, corpo “vivo della nostra memoria storica e della nostra identità, sono diventati merce di scambio, materia bruta da sfruttare come una miniera, sviscerandone ogni zolla. È proprio sul divorzio fra tutela del paesaggio e urbanistica che si sono innestati questi e altri fattori di disgregazione. In una sedimentazione normativa di corto orizzonte, si sono anzi moltiplicate le competenze, intrecciando le procedure autorizzative e mettendole in competizione tra loro» (S. Settis, «A titolo di sovranità». Cittadinanza, paesaggio, tutela, in AA.VV., Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Torino, Einaudi, 2019, p. 105 s.

[47] M. Immordino, “Primarietà” ed “essenzialità” del valore paesaggistico e conseguente assetto delle competenze Stato-Regioni, in Riv. giur. urb., 1987, p. 23 ss.: «[…] la legge 431 ha chiaramente una funzione di conservazione, di freno dell’attuale processo di trasformazione-urbanizzazione selvaggia del territorio, e quindi di limite esterno allo sviluppo edilizio o urbano. E l’espresso richiamo all’art. 82 del d.P.R. 616 mostra con chiarezza la volontà del legislatore di ridisegnare, ridimensionandola, la delega alle Regioni delle funzioni in materia di tutela del paesaggio, con un consistente recupero di funzioni in capo allo Stato» (p. 32).

[48] E. Salzano, Diritto alla città. Significato, motivi e contesto di un antico slogan. Sintomi e ragioni della sua rinascita, in https://www.eddyburg.it/2012/03/diritto-alla-citta-ieri-oggi.html, riconduce giustamente alla l. n. 431/’85 e alla l. n. 183/’89 sulla difesa del suolo l’affermazione del «principio, implicito in queste ultime due leggi, secondo il quale la definizione normativa delle condizioni necessarie per garantire l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio devono avere la priorità sulle scelte di trasformazione, quindi sui piani urbanistici e sulle pratiche edilizie. Principio che fu da subito disatteso e contraddetto».

[49] G. Tarello, La disciplina costituzionale della proprietà. Lezioni introduttive, ECIG, Genova, 1973, p. 86: «la Costituzione italiana, a differenza della Costituzione di Weimar, non ha incluso tra i limiti della proprietà fondiaria (di cui all’art. 44) quelli in relazione all’insediamento urbano, all’urbanistica in generale, al “problema della casa”. Quantunque il problema della casa fosse vivissimo nell’immediato dopoguerra, esso, per mancanza di prospettiva, veniva inteso come problema della ricostruzione, come problema dell’utilizzazione delle abitazioni esistenti, come problema dei canoni di locazione, come problema di blocco delle locazioni. I nessi intercorrenti tra disciplina urbanistica, ricostruzione, problema della casa, non erano assolutamente presenti al legislatore costituente, ed è probabilmente perciò che i limiti della proprietà terriera ebbero nella Costituzione un articolo apposito (il 44) mentre i limiti della proprietà urbana non ne ebbero alcuno».

L’art. 153 della Weimarer Reichsverfassung, infatti, da un lato si limitava a stabilire che «Das Eigentum wird von der Verfassung gewährleistet. Sein Inhalt und seine Schranken ergeben sich aus den Gesetzen» («La proprietà è garantita dalla costituzione. Il suo contenuto e i suoi limiti sono fissati dalla legge»): accogliendo così una visione minimale della funzione sociale, simile a quella espressa dall’art. 42 della nostra Carta, che la circoscrive alla riserva di legge circa la determinazione dei modi di acquisto, di godimento e di limitazione della proprietà; ma dall’altro lato si apriva a traiettorie coraggiosamente aperte verso il futuro, affermando che «Eigentum verpflichtet. Sein Gebrauch soll zugleich Dienst sein für das Gemeine Beste» («La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune»). Per cui il successivo art. 155 si rivolgeva anche alla proprietà fondiaria, non esitando a sancire che «Die Verteilung und Nutzung des Bodens wird von Staats wegen in einer Weise überwacht, die Mißbrauch verhütet und dem Ziele zustrebt, jedem Deutschen eine gesunde Wohnung und allen deutschen Familien, besonders den kinderreichen, eine ihren Bedürfnissen entsprechende Wohn- und Wirtschaftsheimstätte zu sichern. […]. Grundbesitz, dessen Erwerb zur Befriedigung des Wohnungsbedürfnisses, zur Forderung der Siedlung […] nötig ist, kann enteignet werden. […]. Die Wertsteigerung des Bodens, die ohne eine Arbeits- oder eine Kapitalaufwendung auf das Grundstück entsteht, ist für die Gesamtheit nutzbar zu machen» («La ripartizione e utilizzazione dei suoli sono controllate con lo scopo di impedire gli abusi e di assicurare a ogni tedesco un’abitazione sana, e a tutte le famiglie tedesche, specie a quelle numerose, una casa ed un patrimonio familiare corrispondenti ai loro bisogni. […] Le proprietà fondiarie possono essere espropriate quando ciò sia reso necessario per soddisfare il bisogno di abitazione o per promuovere la domanda insediativa […]. L’aumento di valore dei suoli, che non derivi da un impiego di lavoro o di capitali sulla terra, deve essere rivolto a vantaggio della collettività»).

Ma guardare al futuro non servì a superare le lacerazioni di quel presente. Come ci ricorda in modo molto chiaro P. Ridola, La Costituzione della Repubblica di Weimar come “esperienza” e come “paradigma”, in AIC, 2014, n. 2, p. 1 ss., spec. p. 20 s. (ora anche Id., Stato e Costituzione in Germania, Torino, Giappichelli, 2021, p. 64): «l’art. 153 della Costituzione di Weimar […] esprimeva in modo esemplare la tensione fra la protezione costituzionale della proprietà e gli spazi rimessi al potere di conformazione del legislatore ordinario. Tale tensione, sullo sfondo della quale si stagliavano i contrasti radicali fra spinte di rivoluzione sociale e resistenze conservatrici, presenti nell’opinione pubblica tedesca, sfociò nella ricostruzione della proprietà come “garanzia di istituto”. Ciò rappresentò una soluzione dogmatica di compromesso che esprimeva la coesistenza, nel riconoscimento costituzionale della proprietà, di una garanzia di stabilità del diritto (Bestandgarantie), che assiste la posizione del proprietario, con la salvaguardia delle esigenze collegate all’esercizio di poteri autoritativi incidenti sui diritti patrimoniali, nella quale consiste, a ben vedere, il peculiare connotato ordinamentale, o di diritto oggettivo, della “garanzia di istituto” (Einrichtungsgarantie): sicché il riconoscimento costituzionale della proprietà comportava, da un lato, un tradizionale diritto soggettivo di “difesa” (Abwehrrecht) da intromissioni illegali nella proprietà privata, e dall’altro la protezione dell’“istituto giuridico-proprietà”, così come esso si era venuto strutturando attraverso un’evoluzione risalente nel tempo, dall’eliminazione, dallo svuotamento o dallo snaturamento per opera delle maggioranze legislative. Questo impianto ricostruttivo, che attraverso la garanzia d’istituto si proponeva di sciogliere la tensione fra diritto individuale ed esigenze di natura collettiva, rifletteva peraltro, come s’è detto, un quadro politico solcato da contrapposizioni radicali sulla questione proprietaria, come quelle che separavano l’estrema sinistra e gli eredi degli Junker dopo la caduta del Reich guglielmino».

L’importanza dell’art. 153 come fonte ispiratrice di (più esitanti, ribadisco) Costituzioni successive, inclusa quella italiana, è ricordata anche da S. Settis, Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili, Torino, Einaudi, 2017, p. 153 s., il quale giustamente precisa che «il diritto alla città, se esige la limitazione del diritto di proprietà privata, non si traduce in rivendicazione proprietaria né in utopia millenaristicamente egualitaria. Esprime, piuttosto, l’aspirazione delle comunità a condividere quella ricchezza collettiva che è fatta di edifici, di monumenti, di attività lavorative, ma anche e soprattutto delle conoscenze e delle potenzialità dei cittadini».

[50] La stessa per cui aree devastate dall’abusivismo sono delicatamente definite come «inficiate da edilizia spontanea».

[51] G. Severini, Tutela del patrimonio culturale, discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità, in AA.VV., Patrimonio culturale e discrezionalità degli organi di tutela, in Aedon, 2016.

[52] S. Settis, «A titolo di sovranità», cit., p. 87 s.

[53] Qui Settis rimanda ad A. Buratti, M. Fioravanti, Costituenti ombra. Altri luoghi e altre figure della cultura politica italiana (1943-48), Carocci, Roma, 2012.

[54] G. Astengo, Verso una nuova legislazione urbanistica: impostazione e caratteristiche della proposta dell’I.N.U., in Urbanistica, n. 33, 1961, p. 27 ss. e ora all’indirizzo http://circe.iuav.it/astengo/dati/B61b.pdf.

[55] Ministero del bilancio e della programmazione economica, La programmazione economica in Italia, vol. I, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1966-1967, p. XVIII.

[56] G. Zagrebelsky, La democrazia d’emergenza, in la Repubblica, 18 novembre 2020.

Gli replica Enzo Balboni (E. Balboni, Ma davvero Zagrebelsky vorrebbe abolire le Regioni? O invece il tarlo che lo rode è un altro, in lacostituzione.info, 21 novembre 2020): «Non sarà perché non si è concretizzato il presupposto di una Regione come organismo che si percepisca e sia autonomo, come struttura, funzioni e attività. E tale presupposto non potrebbe essere l’utopica – ma necessaria – “comunità” regionale? C’è, ci sono le comunità regionali e locali pronte a lavorare per dare un senso alle loro, rivendicate, autonomie? Sono saliti alla ribalta coloro che sono disposti a fare i sacrifici indispensabili per portare avanti le proprie scelte e coltivare le loro specifiche identità? Soprattutto sul piano dei “tributi propri”. Ma come si può immaginare una decorosa ed efficace ripartizione di competenze e funzioni tra Stato e Regioni (e autonomie locali) senza aver dato prima attuazione alle chiarissime disposizioni dell’art. 119 Cost., soprattutto il decisivo comma secondo (“stabiliscono ed applicano tributi ed entrate propri”) insieme, ovviamente, alla sacrosanta disposizione solidaristica del terzo comma (che statuisce un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale)? […] Il difetto, insomma, non sta nella vanga disadatta a dissodare il terreno, ma nei badilanti. Perché coloro che lavorano – mantenendo la metafora – a Palazzo Lombardia, a Santa Lucia, o al Palazzo dei Normanni non sono diversi in meglio e/o in peggio, da quelli alloggiati nei palazzi romani. E quale sugo si tira da tutto ciò? Cosa insegna ad un innamorato delle autonomie come chi scrive la nota dolente del Maestro Gustavo? Che, da eccellente retore qual è, egli abbia usato una metonimia, in forza della quale non erano tanto le Regioni – e i cultori dell’autonomia – i suoi bersagli polemici, quanto i piccoli uomini politici del nostro tempo effimero. “Servirebbero” gli statisti; almeno qualcuno. E quando li troveremo? “Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? Speriamo”. Così si conclude il dialogo tra il Passeggere e il Venditore di almanacchi».

[57] A proposito delle possibili ascendenze sanscrite del lemma base civis, nel classico A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris, Klincksieck, 2001, p. 124, si legge un inciso d’inattesa e per noi significativa bellezza: «Le rapport avec skr. çévaḥ “aimable” est en l’air».

[58] F. Giglioni, Verso un diritto delle città. Le città oltre il Comune, in E. Carloni, F. Cortese (a cura di), Diritto delle autonomie territoriali, Milano, Wolters Kluwer, 2020, p. 267 ss., spec. p. 268.

[59] Heidegger, ovviamente: è il suo «der Anfang ist noch» nella Rektoratsrede friburghese.

[60] J.-B. Auby, La ville, nouvelle frontière du droit administratif?, in L’actualité juridique, droit administratif (AJDA), 2017, n. 15, p. 853 ss., spec. p. 855. Il testo è disponibile nella versione italiana di Clara Silvano, La città, nuova frontiera del diritto amministrativo?, in Riv. giur. urb., 2019, n. 1, p. 14 ss., dove il passo qui riportato si legge a p. 18.

[61] J.-B. Auby, La ville, cit., p. 857, cui ho aggiunto i corsivi (p. 23 della versione italiana).

[62] R. Bin, Chi ha paura delle autonomie?, cit., p. 50.

[63] Pur sempre rinunciabili, a fronte del deprecabile scopo di mantenere lo status quo di tendenziale anomia nel governo del territorio.

[64] È il monologo disperato di Sandro Luporini e Giorgio Gaber, Qualcuno era comunista.

[65] Torna il tema dell’esergo, tratto da F.W. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, München, de Gruyter, 1999, p. 77 s.: «Von der Nächstenliebe. Ihr drängt euch um den Nächsten und habt schöne Worte dafür. Aber ich sage euch: eure Nächstenliebe ist eure schlechte Liebe zu euch selber. […] Die Zukunft und das Fernste sei dir die Ursache deines Heute […]. Meine Brüder, zur Nächstenliebe rathe ich euch nicht: ich rathe euch zur Fernsten-Liebe. Also sprach Zarathustra» (trad. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, vol. VI, tomo I, Milano, Adelphi, II ed., 1973, p. 70 s.: «Dell’amore del prossimo. Voi vi affollate attorno al prossimo e avete belle parole per questo vostro affollarvi. Ma io vi dico: il vostro amore del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi. […] Il futuro e ciò che sta in remota lontananza sia la causa del tuo oggi […]. Amici, non l’amore del prossimo vi consiglio: io vi consiglio l’amore del remoto. Così parlò Zarathustra»).

Ad avviso di S. Settis, Architettura e democrazia, cit., p. 113 s., «in questo passo, il precetto evangelico dell’amore verso il prossimo viene apparentemente svalutato, in realtà esaltato e accresciuto, in nome della superiorità del futuro sul presente. “Amare il prossimo”, infatti, potrebbe voler dire amare solo chi è troppo simile a noi; dobbiamo, invece, amare i più lontani, orientare oggi le nostre azioni su quello che desideriamo per il futuro».

Le due letture del brano di Nietzsche potrebbero essere complementari. L’amore per la distanza, per la lontananza, fonda sul motivo della rinuncia: alle esigenze del presente per tutelare il futuro; e dunque ad autoregolazioni predatorie onde lasciare il campo a (forse) meno miopi eteronormazioni.

[66] S. Settis, «A titolo di sovranità», cit., p. 110 s.: «La perversa insistenza sulla piena autonomia di ciascun Comune nella pianificazione del proprio territorio è rivelatrice di una forma mentis politica e amministrativa votata allo sfruttamento del suolo come risorsa passiva, e non al suo uso virtuoso: è infatti chiaro a tutti che i confini amministrativi tra Comuni (ma anche tra Regioni) sono del tutto arbitrari, e non coincidono mai con la distribuzione naturale delle risorse ambientali. Il più prezioso dei nostri beni comuni, il suolo in cui viviamo, anziché esser gestito collettivamente a beneficio della comunità dei cittadini, viene segmentato ad arbitrio in funzione dell’esercizio del potere locale, della distribuzione di favori e benefici, del voto di scambio, dell’esazione di gabelle, del trasferimento della ricchezza dalla comunità dei cittadini a chi già dispone di abbondanti liquidità (molto spesso, le mafie). E mentre norme e piani si accaniscono contro l’interesse generale, sparisce lentamente dall’orizzonte dei cittadini, dalla nostra etica quotidiana, persino dai nostri sogni e speranze, ogni traccia di senso civico, di quell’amor loci che fu asse portante della civiltà urbana e che la Costituzione fedelmente riflette».

[67] P. Urbani, Istituzioni, Economia, Territorio. Il gioco delle responsabilità nelle politiche di sviluppo, Torino, Giappichelli, 2020, p. 83.

[68] La cui orografia è assai ben declinata da G. Gardini, Alla ricerca della “città giusta”. La rigenerazione come metodo di pianificazione urbana, in Federalismi.it, 2020; e da F. Saitta, Il «diritto alla città»: l’attualità di una tesi antica, in Diritto e Società, 2020, p. 395 ss.

Sulla scia di Henry Lefebvre, Gardini sostiene l’attualità del “diritto alla città”; ne deriva a suo parere la centralità del piano regolatore, «espressione del livello di governo più vicino alla realtà da regolare, ossia il comune. Una pianificazione strategica, inclusiva dei diversi interessi differenziati, aperta alla partecipazione dei privati nelle diverse fasi della impostazione e attuazione, ma soprattutto pubblica, rappresenta l’unico modo per riportare all’interno del circuito democratico le scelte fondamentali riguardanti il territorio, evitando le pericolose derive dell’urbanistica contrattata» (op. cit., p. 84). Se si pone in questi termini la questione, si coglie appieno lo iato fra un vieto prossimalismo localistico, da una parte; e un’amministrazione di prossimità equilibrata (e condivisibile), dall’altra.

Obiettivo molto lontano. Che passa – come ci ricorda Saitta – «attraverso la trasformazione degli abitanti da meri amministrati e subordinati alla potestà pubblica in attori: il “diritto all’opera” ed il “diritto alla fruizione” predicati da Lefebvre presuppongono un cittadino collaborativo ed un’amministrazione più partecipata e trasparente» (op. cit., p. 426).