Gli interventi edilizi effettuati durante il procedimento di condono di Fabio Cusano

CS_2568_2023

 

Con la sentenza n. 2568 del 10 marzo 2023, il Consiglio di Stato (sez. VI) ha ribadito che in pendenza di procedimento di condono di un manufatto, gli unici interventi edilizi consentiti su di esso sono quelli diretti a garantirne la conservazione: essi non possono spingersi all’esecuzione di opere destinate a mutarne la struttura, i volumi, i prospetti, salvo che siano indispensabili – previa, in tal caso, necessaria preventiva interlocuzione con l’Amministrazione – al fine di consentire di stabilire quali siano i caratteri e le esatte dimensioni del manufatto abusivo per verificarne la condonabilità. La normativa sul condono postula la permanenza dell’immobile da regolarizzare e non ammette, in pendenza del procedimento, la realizzazione di opere aggiuntive né finanche l’impiego di materiali di costruzione diversi da quelli originari, comportanti di fatto la qualificazione dell’intervento come sostituzione edilizia, venendo meno la continuità tra vecchia e nuova costruzione e l’attuale riconoscibilità del manufatto originario oggetto dell’istanza di condono. Pertanto, la presentazione della domanda di condono non autorizza l’interessato a completare, né tantomeno a trasformare o ampliare i manufatti oggetto della richiesta i quali, fino al momento dell’eventuale concessione della sanatoria, restano comunque abusivi al pari degli ulteriori interventi realizzati sugli stessi.

Con la determinazione dirigenziale il Comune di Velletri respingeva la domanda di concessione edilizia in sanatoria presentata dai ricorrenti ai sensi della L. n. 724/1994, avente ad oggetto la realizzazione di una “tettoia ad uso artigianale e muro di contenimento in cls e parte in blocchetti di cemento” sul terreno di loro proprietà. Con successiva determinazione dirigenziale veniva ordinata la demolizione del manufatto abusivo.

I ricorrenti impugnavano ambedue i provvedimenti innanzi al TAR per il Lazio.

Successivamente il Comune di Velletri, preso atto del mancato adempimento all’ordine di demolizione, adottava la determinazione dirigenziale con la quale disponeva l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale del fabbricato.

I ricorrenti impugnavano altresì la suddetta determinazione dirigenziale.

Il TAR Roma respingeva il ricorso; pertanto, i ricorrenti hanno proposto appello avverso la suddetta pronuncia.

Ad avviso del Consiglio, l’appello non è fondato.

Dalla documentazione in atti emerge che a seguito della presentazione dell’istanza di condono gli appellanti hanno realizzato una nuova tettoia, diversa da quella oggetto della domanda di condono per materiali utilizzati e volumetria totale.

Il Collegio richiama, preliminarmente, la più recente giurisprudenza della Sezione secondo cui “Va parimenti condivisa la valutazione unitaria degli interventi, nonché il richiamo all’orientamento per cui, in pendenza di procedimento di condono di un manufatto, gli unici interventi edilizi consentiti su di esso sono quelli diretti a garantirne la conservazione: essi non possono spingersi all’esecuzione di opere destinate a mutarne la struttura, i volumi, i prospetti, salvo che siano indispensabili — previa, in tal caso, necessaria preventiva interlocuzione con l’Amministrazione — al fine di consentire di stabilire quali siano i caratteri e le esatte dimensioni del manufatto abusivo per verificarne la condonabilità. La normativa sul condono postula la permanenza dell’immobile da regolarizzare e non ammette, in pendenza del procedimento, la realizzazione di opere aggiuntive né finanche l’impiego di materiali di costruzione diversi da quelli originari, comportanti di fatto la qualificazione dell’intervento come sostituzione edilizia, venendo meno la continuità tra vecchia e nuova costruzione e l’attuale riconoscibilità del manufatto originario oggetto dell’istanza di condono” (C.d.S., Sez. VI, n. 7166 del 25 ottobre 2021). Pertanto, “la presentazione della domanda di condono non autorizza l’interessato a completare, né tantomeno a trasformare o ampliare i manufatti oggetto della richiesta i quali, fino al momento dell’eventuale concessione della sanatoria, restano comunque abusivi al pari degli ulteriori interventi realizzati sugli stessi” (C.d.S., Sez. VI, n. 2645 del 24 aprile 2022).

La ratio di tale orientamento risiede, da una parte, nella esigenza di evitare che le opere abusive vengano portate a ulteriore compimento: ciò per la ragione che il condono straordinario ex L. 47/85 non si fonda sulla conformità delle opere alla normativa urbanistica vigente, ma costituisce espressione di una eccezionale rinuncia dello Stato a perseguire gli illeciti edilizi, a determinate condizioni: gli immobili condonati, pertanto, non possono costituire la base per successivi ampliamenti o ristrutturazioni; d’altra parte v’è anche la necessità di preservare lo stato originario delle opere oggetto di condono, per consentire all’Amministrazione di accertare la sussistenza delle condizioni di ammissibilità e di concedibilità del beneficio, oltre che di valutare l’effettiva natura e portata dell’intervento da condonare.

Di conseguenza, l’art. 35, comma 14, della L. 47/85, che consente, dopo la presentazione della domanda di condono, il “completamento” delle opere alla condizione che l’interessato ne dia avviso all’amministrazione e produca una perizia giurata sullo stato dell’immobile, deve considerarsi norma di stretta interpretazione, la cui violazione innesta la presunzione che l’immobile oggetto di condono sia stato trasformato in modo tale da non consentire all’amministrazione di determinare in modo preciso la consistenza delle opere oggetto dell’abuso originario. Spetta allora all’interessato dimostrare che l’intervento oggetto di condono è ancora riconoscibile ed è assolutamente conforme a quello rappresentato nella istanza di condono, essendo tale accertamento assolutamente necessario per la ulteriore procedibilità della domanda di condono e fermo restando che tutto quanto non sia ad essa riconducibile deve essere senz’altro demolito, in quanto non condonabile né sanabile, per definizione.

È dunque irrilevante – oltre che infondato – l’assunto dei ricorrenti secondo il quale l’opera non costituirebbe un novum rispetto a quella precedente, essendo sufficiente che gli interventi eseguiti abbiano comportato una significativa modificazione dello stato dei luoghi, come avvenuto nel caso di specie.

Né la nuova opera potrebbe essere sanata per effetto dell’approvazione della domanda presentata in precedenza, considerato che la nuova costruzione non costituisce l’oggetto dell’istanza e che, in ogni caso, nel caso di specie essa è stata realizzata in data successiva al 31 dicembre 1993, termine di ultimazione delle opere ai fini della presentazione della domanda di condono ex art 39 l. 724/1994.

In ogni caso, in relazione alla possibilità di sottoporre un provvedimento amministrativo ad una condizione civilisticamente intesa la giurisprudenza ha affermato che “L’apposizione di elementi accidentali al provvedimento amministrativo è, in linea generale, consentita, purché essa non determini una violazione del principio di legalità (e dei suoi corollari) e non distorca la finalità per la quale il potere è stato attribuito all’amministrazione” (Consiglio di Stato sez. IV, 16/06/2020, n. 3869).

Il potere di sanatoria edilizia è un potere tipico ed eccezionale esercitabile dall’amministrazione esclusivamente al ricorrere dei requisiti determinati dalla legge, fra i quali l’ultimazione delle opere entro la data del 31 dicembre 1993 e la presentazione dell’istanza entro il 31 marzo 1995 ed il pagamento di un’oblazione commisurata alla consistenza delle opere.

Nel caso di specie l’opera è stata ricostruita in epoca successiva alla presentazione dell’istanza e non è oggetto di alcuna domanda di sanatoria edilizia; pertanto, l’apposizione di una condizione al provvedimento di sanatoria nei termini prospettati dagli appellanti consentirebbe l’ottenimento del condono in casi non previsti dalla legge e comporterebbe un’elusione dei suddetti requisiti, ponendosi in contrasto con il principio di tipicità del potere in questione.

Da ultimo, il diniego di condono in mancanza dei requisiti richiesti dalla legge costituisce un atto dovuto che non richiede alcuna ponderazione con gli interessi del privato alla conservazione dell’immobile (Cfr. Consiglio di Stato sez. II, 16/11/2020, n. 7104: “In ambito amministrativo, non è possibile invocare il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà o per disparità di trattamento in relazione ad atti amministrativi vincolati, fra i quali devono essere ricompresi anche i provvedimenti di diniego del condono edilizio per l’insussistenza del presupposto legale di sanabilità delle opere abusive”).

Per quanto riguarda l’ordinanza di demolizione, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che “L’ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi” (Consiglio di Stato sez. II, 20/07/2022, n. 6373).

È opinione del Collegio che l’opera di cui discute deve essere qualificata come nuova costruzione. In casi analoghi, la giurisprudenza ha infatti affermato che “È corretta la qualificazione come costruzione di un’opera consistente nella realizzazione di una tettoia con travi e pilastri in legno e di vasche in cemento armato, utilizzate rispettivamente come deposito di bancali di legna da ardere e come contenitore di semilavorati in legno e residui di lavorazione. Le caratteristiche strutturali, le ingenti dimensioni e la funzione servente all’attività produttiva rendono le opere, infatti, nettamente diverse da un pergolato”. Si veda: Consiglio di Stato sez. VI, 03/01/2022, n. 8; cfr. anche Consiglio di Stato sez. IV, 02/03/2018, n. 1309: “La realizzazione di una tettoia va configurata sotto il profilo urbanistico come intervento di nuova costruzione non di natura pertinenziale e, anche ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, la nozione di costruzione deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazioni dell’opera”; Consiglio di Stato sez. VI, 25/01/2017, n. 306: “Il pergolato, per sua natura, è una struttura aperta su almeno tre lati e nella parte superiore; esso normalmente non necessita di titoli abilitativi edilizi. Tuttavia, quando il pergolato viene coperto nella parte superiore (anche per una sola porzione) con una struttura non facilmente amovibile (realizzata con qualsiasi materiale), è assoggettato alle regole dettate per la realizzazione delle tettoie)”.

Ciò posto, si deve ricordare che l’art. 31, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, stabilisce che “Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita”.

È opinione del Collegio che per “area di sedime” si debba intendere l’area genericamente “coperta” dalla costruzione, cioè l’area compresa nel perimetro della proiezione a terra della tettoia: ciò per la ragione che anche una tettoia aperta su tre lati crea un ingombro, impedendo, o rendendo difficile, la realizzazione di nuove costruzioni al di sotto di essa. L’eventuale, ma del tutto presunto, errore compiuto dal Comune, nel qualificare l’opera abusiva quale capannone risulta, pertanto, del tutto ininfluente, poiché comunque l’acquisizione gratuito del sedime non avrebbe potuto essere limitata all’area occupata dai pilastri di sostegno della tettoia.

Alla luce di quanto premesso, il Consiglio ha respinto l’appello.