Con sentenza del 9 giugno 2023, n. 5663, il Consiglio di Stato, sez. VI, ha ribadito che le distanze minime stabilite dalla normativa nazionale e locale devono essere osservate anche nel caso in cui i fabbricati (anche pertinenziali) e il terreno su cui ricadono siano appartenenti al medesimo proprietario.
Secondo un principio ormai consolidato, ai sensi dell’art. 32, comma 27, lett. d), d.l. 269/2003, le opere abusivamente realizzate in aree sottoposte a specifici vincoli, fra cui quello ambientale e paesistico, sono sanabili solo se, oltre al ricorrere delle ulteriori condizioni – e cioè che le opere siano realizzate prima della imposizione del vincolo, che siano conformi alle prescrizioni urbanistiche e che vi sia il previo parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo – siano opere minori senza aumento di superficie (restauro, risanamento conservativo, manutenzione straordinaria) (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 26 ottobre 2022 n. 9128 e 1 dicembre 2021 n. 8004). Pertanto, un abuso comportante la realizzazione di nuove superfici e nuova volumetria in area assoggettata a vincolo paesaggistico, come nel caso in esame, non può essere sanato.
Quanto al tema delle distanze tra edifici collocati nella stessa area di proprietà, va rammentato che per la costante giurisprudenza del giudice civile, le norme sulle distanze tra le costruzioni, integrative di quelle contenute nel codice civile, devono essere applicate indipendentemente dalla destinazione dello spazio intermedio che ne risulti e prescindendo dall’appartenenza di tale spazio a terzi (cfr., tra le altre, Cass. civ., Sez. II, 10 marzo 2022 n. 7794, 31 ottobre 2017 n. 25890 e 23 marzo 2017 n. 7542).
Come ha ricordato ancora la Corte di cassazione (cfr., tra le molte, Cass. civ., Sez. II, 29 gennaio 2018 n. 2093) la previsione regolamentare è posta a tutela dell’interesse pubblico in materia di igiene e sanità, conseguendone che lo strumento urbanistico comunale, nel disciplinare il territorio individuando le zone territoriali omogenee di cui al D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 2, deve osservare le prescrizioni dettate in materia di distanze minime tra fabbricati previste per ciascuna delle dette zone dal primo comma dell’art. 9 del medesimo decreto ministeriale, quale disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva, oltre che integrativa rispetto all’art. 873 cod. civ. (cfr., anche, Cass. civ., Sez. II, 19 gennaio 2018, n. 1360).
Ciò vale anche per la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale la disposizione contenuta nell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. IV, sez. IV, 18 luglio 2022 n. 6086, 5 febbraio 2018 n. 707 e 14 settembre 2017 n. 4337; nonché Cass. civ., Sez. II, 14 novembre 2016 n. 23136).
Ancora, anche recentemente (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 7 aprile 2023 n. 3587), il Consiglio ha chiarito che la difformità tra i motivi recati nel preavviso di diniego a corredo della illustrazione delle ragioni che, a parere dell’amministrazione procedente, si oppongono all’accoglimento dell’istanza presentata e quelli contenuti nel provvedimento definitivo di diniego assumono rilievo, al fine della valutazione della illegittimità del comportamento tenuto dall’amministrazione procedente, solo successivamente alla novella della l. 241/1990 intervenuta nel 2020.
Infatti, solo dopo il 2020 il legislatore ha ritenuto di introdurre, quale vizio del provvedimento amministrativo, la mancata coincidenza tra i motivi indicati alla parte interessata con il preavviso di diniego e quelli che sorreggono il provvedimento finale sfavorevole (si veda sul punto il nuovo ultimo periodo dell’art. 21-octies, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241 che oggi così recita, “La disposizione di cui al secondo periodo non si applica al provvedimento adottato in violazione dell’articolo 10-bis”, introdotto dall’art. 12, comma 1, lett. i), d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120), sicché all’epoca dei fatti l’art. 21-octies, comma 2, sopra citato, non recava la specificazione introdotta nel 2020.
Infatti (solo) con la stessa novella del 2020 all’art. 10-bis sono stati aggiunti i seguenti due ulteriori periodi: “(…) Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni. In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato (…)”;
Peraltro l’esercizio del potere vincolato che, come è noto, caratterizza il procedimento sanatorio o di condono edilizio giustifica, per costante giurisprudenza, una evidente riduzione degli strumenti partecipativi, escludendo addirittura che sia necessario comunicare il preavviso di diniego.
Discende ulteriormente da quanto sopra che l’obbligo di valutazione delle memorie presentate dai privati durante il procedimento non comporta un onere di analitica contestazione da parte della pubblica amministrazione poiché “Il dovere della p.a. di esaminare le memorie prodotte dall’interessato a seguito della comunicazione di avvio del procedimento o del preavviso di rigetto da essa inviati non comporta la confutazione analitica delle allegazioni presentate dall’interessato, essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, e la doverosa valutazione degli apporti infraprocedimentali risente della natura degli stessi; ciò in quanto l’onere valutativo è maggiormente penetrante con riferimento alla prospettazione da parte del privato di elementi fattuali, mentre è attenuato, se non quasi inesistente, allorché le deduzioni del privato contengano valutazioni giuridiche, laddove è sufficiente che l’Amministrazione ribadisca il proprio intendimento, anche alla luce delle tesi” (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. IV, 24 febbraio 2017 n. 873).
In ogni caso, la natura vincolata delle determinazioni in materia di abusi edilizi e, quindi, anche delle determinazioni di sanatoria, esclude la possibilità di apporti partecipativi dei soggetti interessati e, conseguentemente, anche di un obbligo di previa comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della relativa domanda. Ciò anche in applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, l. 241/1990, secondo cui il mancato preavviso di diniego non produce effetti vizianti ove l’amministrazione non avrebbe comunque potuto emanare provvedimenti diversi da quelli in concreto adottati (cfr. tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 5 luglio 2022 n. 5590).
La contestata discrasia tra i motivi segnalati con l’atto di preavviso di diniego e i motivi poi indicati nel provvedimento conclusivo di diniego non assume rilievo, nel caso di specie (anche ratione temporis), ai fini dell’annullamento dell’atto principalmente impugnato in primo grado.
Infine, l’art. 32, comma 27, d.l. 30 settembre 2003, n. 269 convertito con modificazioni in l. 24 novembre 2003, n. 326, disciplina la sanatoria edilizia ivi contemplata in modo invero apparentemente più restrittivo rispetto ai precedenti condoni edilizi di cui all’art. 31 e ss. l. 28 febbraio 1985, n. 47 e all’art. 39 l. 23 dicembre 1994, n. 724, posto che – per quanto qui segnatamente interessa – pur mantenendo fermo il regime del previo parere espresso dall’autorità preposta alla tutela dei vincoli, contemplato dall’art. 32 della predetta l. 47/1985 e successive modifiche, si dispone nel senso che “le opere non sono comunque suscettibili di sanatoria, qualora (…) siano realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi (…) dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.
Secondo il legislatore statale, pertanto, la circostanza che il vincolo paesaggistico preesista rispetto alla realizzazione dell’abuso rende quest’ultimo non sanabile se realizzato o in difformità del titolo edilizio ovvero in difformità alla disciplina urbanistica vigente.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cons. St., sez. VI, 18 maggio 2015, n. 2518; sez. IV, 19 maggio 2010, n. 3174; sez. VI, 2 marzo 2010, n. 1200), dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, il c.d. terzo condono (previsto dall’art. 32, comma 27, d.l. 269/2003 e dall’art. 2 l.r. Toscana 53/2004) esige, per quanto qui interessa, ai fini della condonabilità delle opere abusive realizzate in zone sottoposte a vincolo paesaggistico che non implica l’inedificabilità assoluta, il parere favorevole espresso dall’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo.
In altri termini, l’insistenza dell’intervento in un’area protetta da un vincolo paesaggistico relativo non comporta un impedimento automatico del condono, ma postula, al contrario, una verifica di compatibilità delle opere con le esigenze di tutela implicate dal vincolo, che compete all’Autorità incaricata dell’amministrazione del regime di tutela, e non al Comune, che deve provvedere (solo) in via definiva sull’istanza di condono e che resta, quindi, onerato, prima di definire il procedimento, di acquisire il parere della competente Soprintendenza.
Il principio appena enunciato si fonda, in particolare, sul dirimente rilievo che la clausola di salvezza, contenuta nell’art. 32, comma 27, d.l. 269/2003, delle previsioni di cui agli artt. 32 e 33 l. 47/1985 non può che essere decifrata come comprensiva anche del richiamo del precetto che subordina il rilascio del titolo edilizio in sanatoria di opere eseguite su aree vincolate al previo parere favorevole dell’Amministrazione preposta alla tutela del vincolo, con conseguente esclusione, quindi, di qualsivoglia automatismo preclusivo connesso all’esistenza di un regime di tutela della zona interessata dagli interventi oggetto del condono.
In coerenza con la conclusione appena raggiunta, la previsione della non sanabilità delle opere realizzate su immobili soggetti a vincolo, di cui all’art. 32, comma 27, lett. d) d.l. 269/2003, non può che essere intesa come riferita alle sole ipotesi in cui il regime di protezione implichi l’inedificabilità assoluta dell’area, e non anche ai casi di inedificabilità relativa, in cui, quindi, la indefettibile valutazione della compatibilità dell’intervento edilizio con la disciplina di tutela resta rimessa all’apprezzamento dell’Autorità preposta all’amministrazione del vincolo.