Alla ricerca della Civitas: i beni comuni urbani di Paolo Urbani

Alla ricerca della Civitas: i beni comuni urbani

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Indice

  1. Beni comuni urbani. Lo stato dell’arte
  2. Amministrazioni pubbliche e beni comuni urbani. L’oggetto del contendere.
    • La difficile trasformazione dei beni privati in beni comuni.
  3. Il nodo della pianificazione urbanistica e l’utilizzazione dei beni comuni urbani.
  4. Le terapie e i rimedi per la Città Pubblica.
    • Il rinnovo, la rigenerazione, la riqualificazione, la riconversione in funzione della prossimità urbana.
    • Cooperative di Comunità
    • Dal mecenatismo allo “scambio” edificatorio.
  5. Conclusioni

 

  1. Beni comuni urbani. Lo stato dell’arte

Nell’ambito della “filosofia” dei cosiddetti beni comuni assume un rilievo concreto la questione dei beni comuni “urbani”.

È emersa, infatti, da alcuni anni e con rinnovata forza, l’esigenza di rendere più vivibili proprio le aree urbane, ai fini del miglioramento della qualità dei luoghi di vita e di lavoro. Obiettivo che, specie nelle città metropolitane, non sempre risulta acquisito, a causa, in particolare, dell’impossibilità per le Amministrazioni locali di governare l’assetto territoriale, anche per le scarse risorse finanziare a disposizione. Ne discende un degrado dell’ambiente urbano e un’incapacità da parte delle Amministrazioni locali di rispondere alle complessità sociali ed economiche di quei territori. L’abbandono delle periferie urbane e la carenza di servizi alla persona e al territorio è così il riflesso dell’inadeguatezza dei poteri pubblici a interpretare per tempo, attraverso i normali poteri autoritativi, le esigenze dei cittadini.

Pertanto, è proprio partendo da questa realtà che si è manifestata sempre più l’iniziativa delle collettività locali, volta a rivendicare una sorta di partecipazione alla gestione del potere pubblico, per la tutela e la rigenerazione dei “beni comuni” (urbani) ossia di beni funzionali alla collettività, il cui uso trascurato o negletto ben potrebbe rappresentare un’occasione di riappropriazione attraverso la gestione condivisa pubblico-privato. La rigenerazione urbana è oggi, dunque, conditio sine qua non per una “rigenerazione umana”[1].

La micro-rigenerazione urbana, termine con il quale s’intende definire tale processo partecipativo, mette in evidenza una sostanziale modificazione dell’esercizio delle potestà pubbliche, nel senso di porsi all’ascolto degli interessi diffusi e di assecondare la domanda partecipativa, lì dove l’azione amministrativa si è rivelata insufficiente o addirittura assente.

Questa torsione dell’azione amministrativa, che da autoritativa si appalesa sempre più “servente” le esigenze della collettività rappresentata, nel senso di “facilitare” le iniziative di quest’ultima, trova fondamento nel principio costituzionale della sussidiarietà orizzontale declinato dall’art.118, co. 4, Cost.[2], da leggere come articolazione del più generale principio di cui all’art. 3, co. 2, Cost., che sancisce il compito della Repubblica diretto a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Da tempo questi processi si sono innescati nelle città come pratiche emergenti dal basso, che provano a sperimentare l’urgenza di riuso di strutture abitative, e non, abbandonate, riqualificazione di parchi e zone degradate, riapertura di spazi e luoghi pubblici dismessi, aree vincolate a standard urbanistici mai realizzati, trasformazione di destinazione d’uso di strutture e fabbricati industriali svuotati dai processi di una società sempre più post-industriale.

È dalle reti territoriali dell’attivismo sociale e dei corpi sociali intermedi che emerge un nuovo “diritto alla” e “della” città che mette in tensione il rapporto tra spazi pubblici e spazi privati, in una nuova relazione tra diritto e politiche cittadine[3], con la possibilità di pensare la città come spazio di diritti e di produzione del diritto[4].

Il fenomeno è stato oggetto d’attenzione anche del Rapporto del 2017[5] della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla condizione delle periferie, ove si afferma che “il degrado urbano non va circoscritto al solo degrado fisico o materiale del patrimonio edilizio esistente, bensì è opportuno, altresì, riferirlo alla scarsità dei servizi pubblici, al disagio socio-economico e financo alla decadenza culturale di vaste parti all’interno degli insediamenti urbani”.[6]

Inoltre, urbanisti, sociologi e giuristi[7] concordano nel rilevare che il degrado e il conseguente fine della rinascita urbana vengono a interessare sia contesti periferici o extraurbani, sia le aree centrali degli agglomerati cittadini, limitrofe o all’interno dei centri storici.

Di recente, poi, per consentire una razionalizzazione degli interventi di superamento del degrado e di conseguente rigenerazione, il Governo[8] ha messo a punto un “piano per le periferie”[9], volto a selezionare – attraverso bandi pubblici – le migliori proposte presentate dai Comuni, dirette a finanziare interventi pubblici di “ricucitura” e di “rammendo” della frammentazione urbana in aree specifiche.

Le “patologie” della città pubblica e l’esistenza di beni e spazi oggetto di degrado, quale comune presupposto d’azione per gli interventi rigenerativi, hanno prodotto un intenso dibattito intorno alla nozione di “beni comuni”. Essi, benché privi di un espresso riconoscimento legislativo[10], sono oggetto di peculiare attenzione da parte della giurisprudenza e della dottrina, soprattutto civilistica e giuspubblicistica (quest’ultima sia di orientamento amministrativistico che costituzionalistico), alla ricerca della corretta qualificazione normativa[11].

Sul tema si confrontano dottrine di discipline diverse e si stratificano tesi che, in via generale, convergono nel qualificare i beni comuni quali beni che, indipendentemente dalla titolarità del diritto dominicale in capo a soggetti pubblici o privati, sono individuati sulla base di un criterio strumentale o funzionale, in quanto idonei a soddisfare interessi collettivi meritevoli di tutela. Pertanto, diritti suscettibili di una fruizione collegiale che, nel caso dei beni privati, non può essere compressa dal proprietario, conformemente al dettato costituzionale che, all’ art. 42, co. 2, Cost., subordina l’esercizio individuale della proprietà a limitazioni atte ad assicurarne la funzione sociale[12].

  1. Amministrazioni pubbliche e beni comuni urbani. L’oggetto del contendere.

Riassumendo i termini della questione, la vicenda dei beni comuni urbani coinvolge in primo luogo ruolo e funzioni della pubblica amministrazione. Quale amministrazione? In primis le amministrazioni comunali ma in qualche caso anche amministrazioni centrali o enti pubblici funzionali, regioni, province, proprietari dei beni immobili. A ciò possono aggiungersi – in forma residuale – anche beni immobili privati.

La caratteristica di tali beni è quella di rientrare nel patrimonio di tali enti ma di restare inutilizzati alla funzione, in molti casi abbandonati e in stato di degrado e di pericolo per la pubblica incolumità. Altro elemento è quello di essere radicati nel territorio di riferimento, inseriti spesso in un contesto fortemente urbanizzato.

Dai casi posti all’attenzione[13] emerge che spesso si tratta di stazioni ferroviarie, caserme, scuole, ospedali dismessi, edifici residenziali, beni culturali, parchi abbandonati, aree destinate alla realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria oggetto di vincoli espropriativi ma eseguiti. In questi casi, beni pubblici che, per le più diverse ragioni, sono fuori dal contesto programmatorio dell’azione di quella pubblica amministrazione e dalla loro finalizzazione ad assolvere una funzione pubblicistica.

Già l’appartenenza del bene a soggetti pubblici diversi pone un problema relativo alla diversità degli interlocutori pubblici.

L’apparenza a un territorio, se riunifica le categorie di tali beni in un unico contesto, mantiene tuttavia la diversità della titolarità di tali beni e la loro originaria destinazione.

2.1. La difficile trasformazione dei beni privati in beni comuni.

 

Venendo al tema dei beni privati, la questione riguarda prevalentemente il “non uso del bene immobile” e gli effetti negativi che ciò può comportare per la collettività. Tuttavia, il legislatore non può garantire che la proprietà usi le risorse in modo irresponsabile. A tal fine, già il Codice civile del 1942 – art.838[14] – ha previsto un necessario bilanciamento degli interessi in gioco, non potendosi permettere al proprietario la completa libertà del non uso, che dev’essere bilanciato alla luce degli interessi della collettività. Articolo quasi mai applicato che oggi assume una grande attualità specie quando l’abbandono del bene privato possa “nuocere gravemente al decoro delle città o alle ragioni dell’arte, della storia o della sanità pubblica”. In questi casi, tuttavia, la disponibilità del bene per fini pubblicistici comporta l’esproprio del bene, e – se del caso – l’assegnazione alla collettività locale per garantirne un uso pubblico.

Ovviamente è molto complesso sindacare le scelte del proprietario in ordine all’utilizzo del proprio bene e/o alla sua destinazione, tanto più che è comunemente accettato che il proprietario possa differire nel tempo l’uso dei propri beni e, di talché, il loro non utilizzo non può essere aprioristicamente condannato. Un limite alle facoltà di utilizzo o meno del bene può discendere dagli impatti eventualmente negativi prodotti sulla collettività, non potendo essere accettato che il proprietario scarichi su di essa i costi delle proprie scelte.

Recentemente anche una legge speciale (l. n. 158 del 2017) ha trattato del tema degli immobili abbandonati, prevedendo all’art. 5[15] una particolare ipotesi di acquisizione dell’Ente locale, valido solo per i piccoli Comuni, al fine di riqualificazione, così da contrastarne l’abbandono.

Già questi casi mettono in evidenza come sia molto più complesso ampliare il campo dei beni comuni anche a quelli privati, poiché l’assegnazione eventuale alle collettività locali di tali beni comporta non solo l’accertamento delle condizioni di degrado e di abbandono e di pericolo per la pubblica incolumità, ma anche l’avvio del procedimento espropriativo e dell’acquisizione del bene in mano pubblica.

Ne discende, per il tema che ci riguarda, la residualità dei casi di uso collettivo di tali beni privati e la complessità del processo di riappropriazione pubblica. Questo aspetto assume una certa rilevanza se inserito nei processi urbanistici di rigenerazione urbana [16].

  1. Il nodo della pianificazione urbanistica e l’utilizzazione dei beni comuni urbani.

 Stante l’eterogeneità delle categorie dei beni pubblici lasciati all’abbandono, tra i casi più comuni oggetto di “patti di collaborazione” o comunque di coinvolgimento delle collettività locali nell’assumerne la riutilizzazione o riqualificazione, una posizione rilevante è assunta dalla pianificazione urbanistica che determina l’assetto dei suoli e mira all’ordinato assetto del territorio, garantendo un rapporto equilibrato tra edificabilità delle aree e “città pubblica”. E’ noto infatti che fin dalla legge 765 del 1967, che intervenne per correggere i vuoti normativi della legge urbanistica n 1150 del 1942, furono introdotti gli standard urbanistici per zone omogenee finalizzati a garantire per ogni insediamento – residenziale, produttivo, terziario, agricolo – una quantità minima di spazi pubblici destinati a essere utilizzati per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (le reti) ma soprattutto quelle secondarie ( verde pubblico attrezzato,  asili nido, scuole dell’obbligo, mercarti rionali, luoghi di culto, strutture sanitarie).

La disponibilità delle aree è oggetto o di cessione gratuita da parte dei proprietari premiati dall’edificabilità delle loro aree mediante convenzioni urbanistiche collegate a piani attuativi di interi ambiti, od oggetto di vincoli espropriativi, in caso di interventi diretti da parte di ciascun proprietario, che tuttavia comportano, per garantire lo standard urbanistico, l’acquisizione di aree da parte della mano pubblica dietro congruo indennizzo espropriativo.

Ma, mentre nel primo caso il modello dell’urbanistica consensuale[17] prevede che i privati siano tenuti anche a realizzare a loro carico le conseguenti oo.uu. secondarie, pena l’impossibilità di edificare sui propri beni immobili, nel secondo caso l’amministrazione pubblica non solo deve acquisire l’area ma realizzarvi anche le conseguenti opere pubbliche previste dal piano.

La vicenda dei beni comuni urbani in gran parte si situa proprio in questo specifico secondo contesto e le carenze del sistema di pianificazione urbanistica ne sono la diretta conseguenza.

Lo stretto collegamento tra beni comuni e territorio di riferimento mette infatti in evidenza proprio la mancanza di quei servizi di prossimità (verde pubblici attrezzato, asili nido, scuole dell’obbligo) che caratterizzano molte aree, urbanizzate negli anni ’60, senza prevedere adeguati spazi per la città pubblica.

È proprio in questi casi, allora, che nei quartieri ove vi sono aree o beni pubblici lasciati all’abbandono, emerge con forza la richiesta dei residenti che si domandano se questi beni possano essere riutilizzati a fini comuni, rendendo visibile il rapporto tra questi e la prossimità territoriale.

 La fotografia di tali situazioni, al di là delle esperienze consolidate dei patti di collaborazione diretti alla gestione condivisa dei beni pubblici/beni comuni[18], muta sensibilmente nel caso in cui tale filosofia s’inserisce nei processi di rigenerazione urbana o di riqualificazione che sempre più assumono rilevanza all’interno di programmi urbanistici che vedono proprio nel dialogo tra amministrazioni, ruolo dei privati e collettività locali una nuova frontiera di più ampio respiro ove la questione dell’utilizzo dei beni comuni è parte integrante di procedimenti partecipativi e pianificatori.

  1. Le terapie e i rimedi per la Città Pubblica.

Quanto ci accingiamo a descrivere mostra come – in rapporto al tema dei beni comuni – esistano modalità di approccio che, in qualche modo, tendono a superare la vicenda consolidata dei cosiddetti regolamenti dei patti di collaborazione[19] per allargare lo sguardo ad altri strumenti finalizzati a colmare la carenza di servizi e di spazi comuni nella città consolidata favorendo la partecipazione dei cittadini.

4.1. Il rinnovo, la rigenerazione, la riqualificazione, la riconversione in funzione della prossimità urbana.

 

Il primo esempio attiene alle vicende della sdemanializzazione dei beni immobili appartenenti originariamente alle Ferrovie dello Stato che, sulla base della legge del 201 del 1985, ha assunto il carattere di azienda autonoma e successivamente di società per azioni. Tali beni secondo il cc art. 822 appartengono al demanio accidentale, e come tali inalienabili, mentre oggi sono considerati beni patrimoniali indisponibili, e come tali alienabili dal gestore delle ferrovie, qualora questo ritenga non siano più funzionali al servizio pubblico.

Ebbene, è noto da tempo che si tratta di aree di notevole dimensione situate al centro della città consolidata, lì dove, secondo l’idea dello Stato unitario, le ferrovie dovevano essere un mezzo di comunicazione per arrivare al centro delle aree urbane. Beni immobili per anni abbandonati e non più necessari allo svolgimento delle attività di trasporto e che man mano nel tempo hanno assunto un valore economico e strategico di inaudita portata.

La loro riutilizzazione all’interno del territorio urbano è al centro di varie esperienze pianificatorie in varie città italiane, ove si è proceduto alla realizzazione di progetti urbani nei quali, al riconoscimento dell’edificabilità di tali aree,  ha corrisposto la realizzazione di interventi pubblici che hanno permesso di “bilanciare” la trasformazione edilizia con la dotazione di aree e servizi alla cittadinanza, colmando in gran parte le carenze esistenti della città pubblica.

Un caso recente, e ancora in corso, è quello della stazione di Porta Nuova a Milano. Il maxi-intervento sui 290.000 mq di aree dismesse riallaccia alla città i 3 quartieri Garibaldi – Repubblica, Varesine e Isola. Prima tappa del focus sull’uso del calcestruzzo nei 3 progetti è il Bosco Verticale dell’Isola.

Dalle notizie di stampa – ma anche dal sito del comune[20]–  la trasformazione urbanistica dell’area oltre alle connessioni viabilistiche e pedonali è caratterizzata dall’elevata qualità dei progetti architettonici, esito di concorsi di progettazione internazionali, quali il masterplan dell’Unità U1 a cura dell’arch. Cesar Pelli e la nuova sede della Regione Lombardia del raggruppamento guidato da Pei Cobb Freed & Partners Architects con Paolo Caputo Partnership. Elementi unificanti e di connessione dell’intero Piano sono gli spazi pubblici, rappresentati da Piazza Gae Aulenti e dal nuovo Giardino Urbano “Biblioteca degli Alberi” dello studio olandese Inside-Outside, quest’ultimo esito di un concorso internazionale di progettazione.[21] La complessa operazione urbanistica comporterà una variante al PGT vigente approvato nel 2020.

E questo un caso nel quale, da un lato, la riconversione di beni pubblici immobiliari di amministrazioni statali viene in parte riconsegnato alla città e, dall’altro, l’amministrazione locale  si fa carico, con un comportamento attivo, di riconvertire tali beni a fini pubblicistici. Anche qui, tuttavia, nonostante il progetto preveda la realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria – giardini pubblici, scuole, edifici pubblici – che migliorano l’assetto della città consolidata, è noto che è in corso un contenzioso giustiziale di fronte al Consiglio di Stato[22] sollevato dalle associazioni dei cittadini, Italia Nostra, ed altri comitati,  ove è stata rimarcata al di là della scelta di merito la carenza di standard urbanistici e edilizi in rapporto agli interventi di trasformazione ed alle loro destinazioni d’uso.

4.2. Cooperative di comunità

 

Il caso riguarda un profilo assai problematico della vicenda dei patti di collaborazione, ovverosia quello dell’individuazione delle forme di gestione e della individuazione del soggetto gestore, rappresentato spesso da comitati, forme associative che mal si rapportano, per la loro precarietà, agli impegni che si assumono nel recuperare e gestire il bene immobile (giardini attrezzati ma anche edifici da risanare destinati all’uso pubblico).

Con lr n.2 del 2019 “disciplina delle cooperative di comunità”  la Regione Umbria è intervenuta per dare una risposta al problema poiché si prevede che la Regione (art.1) riconosce e promuove il ruolo e la funzione delle “cooperative di comunità”, che abbiano come obiettivo la produzione di vantaggi a favore di una comunità̀ territoriale definita alla quale i soci promotori appartengono o eleggono come propria nell’ambito di iniziative a sostegno dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà̀ sociale volte a rafforzare il sistema produttivo integrato e a valorizzare le risorse e le vocazioni territoriali e delle comunità̀ locali nonché́ a favorire la creazione di offerte di lavoro. In particolare (art.2) queste perseguono l’interesse generale della comunità̀ in cui operano, promuovendo la partecipazione dei cittadini alla gestione di beni o servizi collettivi.

In particolare, tra le diverse funzioni che tali cooperative svolgono quali il conferimento di lavori e servizi, la legge regionale, per quel che qui interessa, prevede, (art.5 1 co. lett.f) la messa a disposizione di edifici o aree non utilizzate per il raggiungimento degli scopi sociali, tramite le procedure previste dalla legge promuovendo presso le altre amministrazioni pubbliche l’impiego del patrimonio immobiliare per le medesime finalità̀.

La struttura della forma cooperativa ai sensi dell’art.2511 e 2512 cc. permette quindi l’individuazione di un interlocutore “affidabile” cui conferire – anche tramite finanziamenti pubblici – la gestione di beni comuni[23].

 4.3. Dal mecenatismo allo “scambio” edificatorio.

Da ultimo, sempre nell’ambito dei processi di rigenerazione urbana la cui disciplina indotta soprattutto dalla legislazione statale (l.133/2008, l.106/2011) è disciplinata dalla legislazione regionale più recente[24], emergono esperienze nelle quali si legittimano le proposte di privati in merito alla riconversione di aree dismesse o da rigenerare, anche in contrasto con le disposizioni del piano urbanistico, il cui accoglimento è tuttavia ancorato alla realizzazione di opere di “mecenatismo” dirette a garantire la realizzazione di ulteriori opere di urbanizzazione secondaria, o la cessione di beni privati alla collettività ai fini della dotazione di beni pubblici nel territorio considerato. È fenomeno ormai dilagante in molte città, ove l’amministrazione autoritativa cede il passo all’amministrazione per accordi ai sensi dell’art.11 della legge 241 del 1990 sul procedimento amministrativo. Procedimenti urbanistici che si basano essenzialmente sugli accordi sostitutivi di provvedimento, nei quali il ruolo del contratto assume valenza centrale nel determinare i contenuti dello “scambio edificatorio” tra interessi privati e interessi pubblici[25].

 

  1. conclusioni

 

La vicenda dei beni comuni – e in particolare dei beni comuni urbani – pone al centro le insufficienze delle amministrazioni pubbliche – in questo caso specie degli enti locali – ad assolvere le funzioni dirette a soddisfare adeguatamente la convivenza civile sociale ed economica e la garanzia di servizi di prossimità relativi al territorio di riferimento. Le “reti” organizzate dei cittadini spingono per partecipare alle decisioni pubbliche attraverso forme e modalità che mirano o a supplire alle defaillance dell’azione pubblica o a instaurare forme organizzate di collaborazione pubblico/ privato.

Mai come in questo caso assume rilevanza il logo del diritto alla città, titolo di un famoso libro di Henri Lefebvre scritto negli anni Settanta. [26]

L’esperienza dei patti di collaborazione mostra come si sia alla ricerca di forme di organizzazione delle comunità territoriali che diano stabilità ai processi partecipativi e gestionali.

Nel caso, tuttavia, dei beni comuni urbani, lo strettissimo rapporto con il territorio si collega inevitabilmente con la mission della pianificazione urbanistica, volta a dotare i territori di beni fruibili dalla collettività, obiettivo molto spesso fallito nella fase di attuazione di scelte urbanistiche risalenti.

Tema che pone il problema – alieno da queste riflessioni – di un ripensamento degli strumenti di governo del territorio. In questo caso la ricerca si muove lentamente verso un ripensamento del contenuto dello strumento urbanistico, che agisca come rimedio alle carenze della città pubblica.

Nel mentre dello sviluppo di tali processi, assistiamo all’emergere della partecipazione attiva dei cittadini nella gestione della città. E da quanto descritto, vediamo che esistono forme sempre più complesse di tale partecipazione, strettamente legate all’organizzazione degli usi “solidali” del territorio urbano.

Resta comunque – ad avviso di chi scrive – qualche perplessità circa gli obiettivi di tali processi, che non pongono in realtà in risalto le profonde modificazioni che dovrebbero informare l’azione pubblica che da Autorità dovrebbe trasformarsi in “amministrazione servente” per riprendere le affermazioni di un grande amministrativista come Feliciano Benvenuti.

Favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini – come recita l’art.118 4 co. Cost. – lascia comunque aperto il problema della riforma dell’azione amministrativa, specie di quella locale, per cui concentrarsi solo sul ruolo di “supplenza” delle collettività locali, nel garantire il risultato della città pubblica, è come se invece di eliminare le fonti del virus ci si limitasse a curare il paziente!

[1] Si veda per tale espressione S.SETTIS Com’è bella la città di qualità, in Il Sole 24 ore, 3 giugno 2018.

[2] Art.118 4 co  Stato regioni citta metropolitane province comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività d’interesse general sulla base del principio di sussidiarietà.

[3] Auby J.B. (2013), Droit de la ville. Du fonctionnement juridique des villes au droit à la Ville, LexisNexis.

[4] Nitrato Izzo V. (2017), Gli spazi giuridici della città contemporanea. Rappresentanza e pratiche, Editoriale scientifica.

[5] Camera dei deputati, XVII legislatura, doc. XXII bis, n. 19, Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie. La relazione sull’attività svolta dalla Commissione a cura dell’on.R.Morassut, costituisce il primo vero contributo d’indagine sul degrado urbano e materiale documentario prezioso per l’avvio di una seria riflessione sul tema.

[6] Riprendendo le illuminanti affermazioni di G. Campos Venuti, Città senza cultura, intervista sull’urbanistica, Laterza 2010.

[7] G. F. Cartei, Rigenerazione urbana e governo del territorio in in Istituzione del Federalismo. Rivista di studi giuridici e politici, n.3/2017, p. 603.; A.GIUSTI (2018), La Rigenerazione Urbana. Temi, questioni e approcci nell’urbanistica di nuova generazione, Editoriale scientifica, p. 18 e seg.; H. LEFEBVRE (1968), Le droit à la ville, Verona 2014., p. 113. E.OLIVITO, Lediseguaglianze fra centro e periferie: lo sguardo miope sulla città in Costituzionalismo.it 2/2020.

[8] Si tratta del governo protempore presieduto da Paolo Gentiloni.

[9] DPCM 25 maggio 2016 “Approvazione del Bando con il quale sono definiti le modalità e la procedura di presentazioni dei progetti per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane, dei comuni capoluogo, di provincia e dalla città di Aosta.

Va segnalato tuttavia che a selezioni effettuate tra le proposte dei vari comuni i finanziamenti pari a un miliardo e seicento milioni hanno subito uno slittamento al 2020. L’emendamento contenuto nel cosiddetto decreto mille proroghe (DL n. 91 del 25 luglio 2018) si è reso necessario a seguito della sent.n.74 del 2018 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 140, della legge 11 dicembre 2016, n. 232 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2017 e bilancio pluriennale per il triennio 2017-2019), nella parte in cui non prevede un’intesa con gli enti territoriali in relazione ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri riguardanti settori di spesa rientranti nelle materie di competenza regionale. Per molti dei progetti approvati si ripropone quindi, a sanatoria, il problema dell’intesa con la regione interessata nelle materie di competenza regionale.

 

[10] Le più recenti formulazioni di beni comuni, tracciate dalla dottrina o contenute nei regolamenti comunali, sono esplicitamente influenzate dalle conclusioni del 2008 della Commissione Rodotà per la modifica delle norme del codice civile, istituita presso il Ministero della Giustizia nel 2007, conclusioni mai approvate. Sul punto S. Rodotà. (2012), Il diritto di avere diritti, Laterza.

[11] Si veda Nervi A. (2014), Beni comuni e ruolo del contratto, in “Rassegna di diritto civile”, n. 1, pp. 195-196. Il tema si è posto altresì all’attenzione della dottrina amministrativista: si veda Boscolo E. (2013), Beni pubblici, beni privati e beni comuni, in “Rivista giuridica dell’urbanistica”, n. 2; IDEM (2015), Beni comuni e consumo di suolo. Alla ricerca di una disciplina legislativa, in Politiche urbanistiche e gestione del territorio. Tra esigenze del mercato e coesione sociale, a cura di Urbani P., Giappichelli, pp. 78-81.

[12] Non è questa la sede per approfondire tali tematiche sulle quali si sono espressi da tempo vari filosofi della politica e giuristi come A. Lucarelli,La democrazia dei beni comuni Laterza 2013; E.Vitale, Contro i beni comuni , una critica illuminista, Laterza 2013; P.Maddalena , Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Donzelli (2014; V.Cerulli Irelli, Diritto pubblico della proprietà e dei beni Giappichelli 2022.

[13] Vedi F. Di Lascio F.Giglioni La rigenerazione  di beni e spazi comuni Il Mulino 2017.

[14] Art. 838 c.c. “Salve le disposizioni delle leggi penali [499 c.p.] e di polizia e le disposizioni particolari concernenti beni determinati, quando il proprietario abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interessano la produzione nazionale, in modo da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa, può farsi luogo all’espropriazione dei beni da parte dell’autorità amministrativa, premesso il pagamento di una giusta indennità.

La stessa disposizione si applica se il deperimento dei beni ha per effetto di nuocere gravemente al decoro delle città o alle ragioni dell’arte, della storia o della sanità pubblica.”

La disciplina è completata dall’art. 56 delle disposizioni attuative del c.c.: “il provvedimento dell’autorità amministrativa con il quale si dispone che si proceda all’ espropriazione a norma dell’art. 838 del codice e dato con decreto motivato del ministro competente. Il decreto deve contenere la designazione precisa del bene soggetto a espropriazione deve essere notificato all’ interessato, il quale può impugnarlo con ricorso al consiglio di Stato. Si osservano nell’espropriazione, in quanto applicabili, le norme della legge generale sull’espropriazione per pubblica utilità.” Su questi profili A Gambaro, La proprietà. Beni, proprietà e comunione, Milano Giuffrè Editore, 2017, p. 97

 

[15]  Art. 5 l. n. 158/2017: “I piccoli Comuni, anche avvalendosi delle risorse di cui all’articolo   3, comma   1, possono   adottare   misure    volte all’acquisizione e alla riqualificazione di immobili al fine di contrastare l’abbandono:

  1. a) di terreni, per prevenire le cause dei fenomeni di dissesto idrogeologico e la perdita di biodiversità e assicurare l’esecuzione delle operazioni di gestione sostenibile del bosco, anche di tipo naturalistico, nonché’ la bonifica dei terreni agricoli e forestali e la regimazione delle acque, compresi gli interventi di miglioramento naturalistico e ripristino ambientale;
  2. b) di edifici in stato di abbandono o di degrado, anche allo scopo di prevenire crolli o comunque situazioni di pericolo.”

[16] Il WWF nel 2013 ha proposto un’interessante classificazione delle manifestazioni dell’abbandonode facto, tramite il report “Riutilizziamo l’Italia”. Ha individuato diversi tipi di abbandono di attesa speculativa “in cui il proprietario punta la sostituzione di una funzione obsoleta con funzioni più redditizie, al fine di incrementare il valore di aree o edifici in vista di una sua alienazione, oppure nella prospettiva di investirvi capitali per operazioni immobiliari”; l’abbandono per disinteresse vigile, “una patologia che riguarda soprattutto i patrimoni pubblici a vario titolo in cui il proprietario non usa il bene ma nel contempo non intende in alcun modo cederlo ed i costi di gestione del bene sono coperti da risorse pubbliche”; l’abbandono per incapacità gestionale ed infine l’abbandono per mancanza convenienza economica al riutilizzo.

 

[17] Rinvio a P.URBANI Urbanistica consensuale Bollati Boringhieri 2000;IDEM Urbanistica solidale, alla ricerca della giustizia perequativa tra proprietà privata e interessi pubblici, Bollati Boringhieri 2011.

[18] Vedi i contributi …….in questo volume

[19] ’art 23-quater del DL 76/29020 conv. nella l.120/2020 s’inserisce proprio in questa logica e mira a rendere praticabile la destinazione di tali beni da riutilizzare a fini sociali, culturali, di recupero ambientale anche “per usi diversi da quelli previsti dal vigente strumento urbanistico”. L’uso temporaneo, infatti, in questi casi, non comporta il mutamento della destinazione d’uso dei suoli e delle unità immobiliari interessate. Questo il motivo del termine “uso temporaneo” che mira a rendere più̀ flessibile l’uso di tali beni a fini sociali e conferma ancora una volta la “degradazione” dei poteri prescrittivi del piano. In sostanza, la norma mette in evidenza la precarietà o la temporaneità dell’utilizzo del bene, che potrebbe subire nel tempo altre destinazioni, in rapporto alla disponibilità dei “gestori “. Ecco perché la norma esprime un favor, anche se la destinazione d’uso impressa dall’affidamento del bene possa essere in contrasto con le norme di piano. Sul punto vedi P.Urbani, L’edilizia. Analisi della semplificazione amministrativa in GdA 6/2020.

[20] https://www.comune.milano.it/-/urbanistica.-scalo-di-porta-romana-il-team-guidato-da-outcomist-con-il-progetto-parco-romana-vince-il-bando-per-il-masterplan-preliminare-di-rigenerazione-urbana

[21] Gli isolati e i tessuti che circoscrivono l’ambito evidenziano una sovrapposizione di regole e giaciture diverse, tracciati preesistenti e disegni interrotti di piano, che hanno trovato nel Giardino urbano di 90.000 mq. l’elemento unificante e di connessione, coinvolgendo anche le riqualificazioni integrate del PII Isola De Castillia e dell’area dell’ex- Varesine, che hanno interessato complessivamente una superficie di circa 290.000 mq. Il Giardino urbano ospita e mette in relazione funzioni pubbliche o di interesse pubblico, quali la Casa della Memoria, destinata alla conservazione e fruizione pubblica di patrimoni culturali, bibliotecari e archivistici e allo svolgimento di attività culturali, l’Incubatore per l’Arte e la Fondazione Riccardo Catella destinati ad attività socioculturali. Sono inoltre in fase di progettazione definitiva da parte dell’Amministrazione ed esito di concorsi internazionali di progettazione, il futuro Padiglione Infanzia, ludoteca destinata a tutti i bambini e in particolare a bambini con disabilità, il Centro Civico del quartiere Isola e la riqualificazione e rifunzionalizzazione del Cavalcavia Bussa. Quest’ultimo in particolare amplierà la dotazione di attrezzature pubbliche e spazi pedonali dell’ambito, oltre al miglioramento e potenziamento della rete ciclabile esistente.

 

[22]Vedi ordinanza N. 01344/2020 CdS sez IV ove il giudice amministrativo ha disposto una verifica tecnica sui seguenti motivi:

  1. a) se vi sia, all’interno del Programma di Governo del Territorio (ivi compresi i documenti allegati) del Comune di Milano approvato il 22 maggio 2012, una precisa e completa determinazione degli standard urbanistici (intesi come spazi pubblici o riservati alle attività̀ collettive, a verde pubblico o a parcheggio, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie) con riferimento sia all’intero territorio comunale sia con riguardo allo specifico Ambito di Trasformazione Urbana denominato “scalo Farini” e, in caso di risposta affermativa, quale sia il loro dimensionamento;
  2. b) quale sia, nell’ambito dell’Accordo di Programma, l’entità̀ del dimensionamento degli standard, come definiti al punto a), con riferimento al singolo Ambito di Trasformazione Urbana denominato “scalo Farini”;
    c) se il dimensionamento degli standard, come definiti al punto a), previsto dall’Accordo di Programma risulti comprensivo della “popolazione fluttuante e degli addetti”, ai sensi dell’art. 9, comma 5, della l.r. 11 marzo 2005, n. 9, e in quali termini;
  3. d) se via una discrasia nel dimensionamento degli standard, come definiti al punto a), tra il PGT e l’Accordo di programma in relazione allo “scalo Farini.

[23] Sull’impugnazione della legge regionale da parte del Governo per violazione della competenza esclusiva in tema di ordinamento civile ai sensi dell’art 117 lett.l) vedi la sent. Corte Cost.131/2020 vedi in questo volume V.Cerulli Irelli.

[24] Sul tema P.URBANI Istituzioni economia e territorio. Il gioco delle responsabilità nelle politiche di sviluppo  pp.98 ss.Giappichelli 2020.

[25] Rinvio a P.URBANI Ripensare la città o la città contemporanea? Note a margine,in  Diritto e processo amministrativo 4/2021.

 

[26] H. Lefebvre ll diritto alla città, Ombre Corte 2014., Le droit à la ville, Éditions Anthropos, 1968.