In questi giorni, diversi quotidiani nazionali riportano la notizia di un possibile sfratto per alcuni locali storici di Piazza San Marco, a Venezia. A repentaglio, sarebbero almeno otto locali di proprietà del demanio pubblico. Tra questi, si annoverano il famoso Caffè Florian, fondato nel 1720 e frequentato da Casanova, il Gran Caffè Chioggia, la Gelateria Todaro, la vetreria Bottega dell’Arte e la Gioielleria Nardi, nota per aver servito regine e star di Hollywood.
La disciplina in materia di locazioni di beni immobili dello Stato (DPR. 296/2005) prevede, infatti il rinnovo del contratto ogni sei anni (art.14), attraverso una procedura a evidenza pubblica. Sebbene le ultime gare indette non siano state interessate da particolari innovazioni procedurali, le prossime saranno assoggettate alla nuova normativa del codice dei contratti pubblici e alla digitalizzazione delle relative procedure: i bandi, dunque, pubblicati sul web riusciranno a raggiungere un numero più ampio di eventuali candidati rispetto al passato. La conseguenza di questa più larga diffusione è quella di attrarre offerenti dotati di maggiori risorse finanziarie e che più facilmente possono aggiudicarsi il contratto. Da qui, il rischio, denunciato dall’Associazione dei commercianti, di vedere al posto delle botteghe storiche, le insegne di negozi di souvenir o di brand di lusso.
La vicenda, qui descritta, offre l’occasione per una più attenta riflessione sugli interessi coinvolti nel delicato intreccio tra libertà di iniziativa economica e salvaguardia dei centri storici. Nello specifico, mette in evidenza l’evoluzione del concetto di “bene culturale” e di come la relativa disciplina richieda un’armonizzazione con le normative di altri settori dell’ordinamento giuridico.
Nonostante i diversi disegni di legge approdati in Parlamento (A.S. 885 – XVI LEGISLATURA, A.C. 3808 – XVII LEGISLATURA), ad oggi non vi è alcuna norma statale che annoveri le botteghe storiche e le attività aventi carattere storico-culturale, tra i “beni culturali” di cui all’art.10 D.Lgs.42/2004. In assenza di un riferimento normativo, è necessario quindi muovere dall’analisi della giurisprudenza. Nella ricostruzione della Corte costituzionale (sent. 28 marzo 2003, n.94, sent. 17 luglio 2013, n.194), l’esercizio di attività commerciali o artigianali aventi carattere di testimonianza storico o artistica è ascrivibile alla categoria dei cd. beni culturali minori: si tratterebbe cioè di entità materiali di rilevanza minore, non annoverabili tra i beni culturali in senso proprio, ma pur sempre meritevoli di interesse.
Tale orientamento sembrerebbe confermato dalla stessa giurisprudenza amministrativa, la quale in più sentenze (Cons. St. VI Sez. n.5004/2006; Cons. St. VI Sez. N.1003/2015) ha negato la possibilità di imporre, sotto le apparenze di vincoli strutturali o architettonici, vincoli culturali di mera destinazione, specie per attività commerciale o imprenditoriale, anche se attinente a valori storici e culturali.
Come già indicata dai giudici della Consulta, la «circostanza che una specifica cosa non venga classificata dallo Stato come di “interesse artistico, storico, archeologico, e dunque non venga considerata come “bene culturale”, non equivale a escludere che essa possa presentare sia pure residualmente un qualche interesse “culturale”»¹.
Da questo contesto ne discende, in capo alle Regioni, una «diversa e aggiuntiva» potestà di valorizzazione rispetto a quella ordinaria statale, volta a predisporre strumenti normativi che, oltre a rivolgersi ai “beni culturali” identificati dallo stato, e rilevanti a livello nazionale, si indirizza «eventualmente (e residualmente) ad altre espressione di una memoria “particolare”»².
A tale riguardo, sono numerose le normative emanate dalle Regioni con l’intento di valorizzare antiche botteghe e mestieri. Con riferimento alla Regione Veneto, si può citare la legge regionale 28 dicembre 2012, n.50 “ Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto”, che istituisce un albo regionale dei luoghi storici del commercio. Va detto tuttavia, che la ratio sottostante tali discipline è perlopiù mirata a fornire finanziamenti destinati alla valorizzazione e al sostegno economico delle attività commerciali storiche (ad es. art.15 Interventi di agevolazione per l’accesso al credito).
Lo stesso codice dei Beni culturali prevede all’art.52 co. 1 bis la possibilità per i Comuni, sentito il soprintendente, di individuare i locali, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva. In quest’ottica si è mossa la giurisprudenza amministrativa, la quale in una nota sentenza del Tar Lazio (Tar Lazio, Roma, sez. II-quater, 3 febbraio 2017, n. 1822), ha disposto limitazioni alla libertà di iniziativa economica privata al fine di tutelare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, previa intesa tra la Sovrintendenza, la Regione ed il Comune.
Malgrado la presenza di questa disciplina di protezione, essa non è sufficientemente idonea a fronteggiare le regole del mercato. Tale risultato è ulteriormente confermato dalla difficoltà per i locatori di poter soddisfare i requisiti necessari per l’applicazione del diritto di prelazione sugli immobili demaniali. In effetti, nel caso oggetto di analisi, troverebbe applicazione la disciplina sulla prelazione sui beni demaniali di cui all’art.3, comma 5, del D.L. 351/2001, la quale restringe i casi di diritto di prelazione a due sole ipotesi: 1) per il caso di vendita degli immobili ad un prezzo inferiore a quello di esercizio dell’opzione 2) nel caso di vendita frazionata degli immobili.
Per quanto attiene alla normativa sul federalismo demaniale, l’opzione di un possibile trasferimento della proprietà degli immobili alla Regione o al Comune, risulta essere in parte risolutiva del problema, stante la possibilità di addivenire ad una migliore valorizzazione dei beni e delle relative attività insistenti su di essi. Forse però, si potrebbe pervenire al medesimo risultato attraverso una maggiore intesa tra Stato e enti locali.
Il tema di fondo, tuttavia, rimane inevaso e evidenzia l’aspro conflitto tra due diverse realtà giuridiche ed il loro difficile contemperamento: da un lato, il bene pubblico, che pur presentando i requisiti per essere considerato “bene culturale”, resta assoggettato a procedure di evidenza pubblica, e dall’altro l’esercizio di una attività di interesse storico e culturale, difficilmente scindibile dal luogo in cui essa viene svolta.
Lorenzo De Poli
¹. Sent. Corte Cost. 17 Luglio 2013, n.194
². Ibidem.