Sull’obbligo di asporto dei manufatti negli stabilimenti balneari fuori stagione di Fabio Cusano

Cons. St. 11699 2022

 

Con la sentenza n. 11699 del 29 dicembre 2022, il Consiglio di Stato ha affermato che l’obbligo di asportare i manufatti negli stabilimenti balneari durante la stagione invernale non ha ragione d’essere ove non sia motivatamente dimostrata la sussistenza dei pericoli per l’ambiente o per il paesaggio, oppure ove la rimozione autunnale, lo stoccaggio invernale e la conseguente ricostruzione primaverile risultino maggiormente dannose o pericolose o comunque invasive per l’ambiente rispetto al mantenimento in situ del manufatto.

La Società appellata gestisce uno stabilimento balneare e ha richiesto il rilascio della autorizzazione paesaggistica volta ad ottenere il mantenimento annuale delle strutture già in essere e l’autorizzazione per la realizzazione di piccole opere, dotate di autonoma utilizzabilità rispetto al servizio di balneazione vero e proprio.

Il funzionario responsabile del Comune, a seguito del parere istruttorio favorevole sotto l’aspetto urbanistico-edilizio, ha acquisito anche il parere favorevole della locale Commissione per il paesaggio e ha inviato alla Soprintendenza belle arti e paesaggio la propria proposta di autorizzazione paesaggistica e l’attestazione di conformità dell’intervento progettato alla disciplina urbanistico-edilizia.

Tuttavia, la Soprintendenza ha espresso un parere interlocutorio e solo parzialmente favorevole. Di conseguenza, il Comune, in ragione del parere negativo della Soprintendenza, ha emanato un provvedimento di autorizzazione paesaggistica parziale configurante, in sostanza, un diniego dell’autorizzazione paesaggistica richiesta.

Pertanto, la Società appellante ha impugnato il parere della Soprintendenza e l’autorizzazione parziale rilasciata dal Comune innanzi al TAR Puglia-Lecce, il quale ha accolto il ricorso; conseguentemente la Soprintendenza ha proposto appello avverso la sentenza.

Secondo l’appellante, la normativa di riferimento consente solo la realizzazione di manufatti facilmente rimovibili e ne richiede la rimozione fuori stagione.

Ad avviso del Collegio, gli ampi riferimenti all’art. 8 della LR Puglia n. 17/2015 ed all’art. 45 delle NTA del PPTR, atti peraltro non inclusi né dalla Soprintendenza quale motivazione ai fini del sostanziale diniego, né dal TAR ai fini del percorso logico motivazionale della sentenza di annullamento appellata, non risultano dirimenti ai fini della definizione del giudizio, che deve, al contrario, essere deciso applicando alla specifica fattispecie le generalissime regole del procedimento amministrativo.

Viene, dunque, in rilievo la necessità che l’esercizio di qualunque potestà pubblica, ovvero di un potere autoritativo suscettibile di conformare l’attività privata a un interesse pubblico (così come accade con il nulla-osta rilasciato dalla Soprintendenza), debba parametrare la ragionevolezza del sacrificio imposto al privato (che in questo caso è costretto a un’onerosa attività di rimozione stagionale dei manufatti) in relazione alla sua utilità per l’interesse pubblico (l’interesse ambientale e paesaggistico all’integrità della costa) istituzionalmente perseguito dalla Soprintendenza.

Infatti, i parametri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità sono certamente valutabili dal giudice amministrativo anche nella fattispecie in esame, in quanto non entrano nel merito della discrezionalità tecnica sottesa alle modalità dell’intervento autoritativo e quindi ai contenuti tecnici del parere in esame, e restano invece ancorati al percorso logico compiuto dalla Soprintendenza nella ponderazione fra l’interesse privato e l’esigenza di tutela sopraindicati. Si tratta, quindi, di una tipica espressione di discrezionalità amministrativa, che il giudice deve valutare nella sua complessiva ragionevolezza rispetto alle disposizioni normative (e non tecniche) applicabili alla fattispecie.

Ai fini della decisione il Collegio deve quindi procedere alla ricostruzione del regime giuridico dei manufatti in questione e della relativa area di sedime.

In particolare, il regime concessorio delle aree demaniali marittime a fini di sfruttamento commerciale per attività balneari costituisce una espressa e tassativa eccezione, del tutto temporanea, al generale principio della libera fruibilità del bene pubblico da parte dell’intera comunità, conseguendone al termine l’obbligo di restituzione in pristino del bene, con esclusione di ogni modifica strutturale permanente o non inerente all’uso pattuito; la concessione neppure può in alcun modo vanificare o comunque alterare il regime di tutela previsto per la medesima area in ragione del suo pregio ambientale e paesaggistico, di modo che è vietata al concessionario, così come a chiunque altro, la realizzazione di manufatti permanenti o non facilmente amovibili o comunque suscettibili di pregiudicare la conservazione del bene, conseguendone la sottoposizione di tali attività ad un peculiare regime amministrativo.

Tali considerazioni valgono, evidentemente, anche per le aree di proprietà contigue a quelle demaniali, oggetto del caso in esame, per la duplice ragione della condivisione dei medesimi pregi ambientali e paesaggistici e della strumentalità rispetto al regime concessorio dell’arenile marittimo pubblico.

Le predette premesse, dunque, danno conto di come le strutture balneari, per essere autorizzate, debbano essere direttamente connesse all’uso a fini balneari dell’area in concessione e debbano evitare ogni alterazione permanente dello stato dei luoghi, includendo tale preclusione tutte le opere ed i manufatti non facilmente rimovibili, ovverosia non rimovibili senza lasciare ferite o alterazioni permanenti, implicanti un ripristino, ovvero una innovazione e non una mera conservazione comunque suscettibili di pregiudicare la conservazione di un bene ambientale, ovvero di un bene pubblico di cui è necessario garantire, anche alla luce della recente riforma costituzionale, la trasmissione alle future generazioni.

Nella fattispecie considerata, dunque, il concetto di “temporaneità” dei manufatti è direttamente connesso, da un lato, alla strumentalità rispetto alla temporanea e non irreversibile destinazione commerciale dell’area alle attività balneari (di modo che possa essere rimosso alla cessazione di tali attività) e, dall’altro, a quello di “facile amovibilità” (ovvero di una futura amovibilità senza conseguenze per l’ambiente). In altri termini, il vincolo opera sul preminente “lato pubblico” della preservazione del bene per il futuro e non sul “lato privato” del suo attuale e contingente utilizzo commerciale, e non è pertanto direttamente connesso al carattere stagionale dell’attività balneare, che peraltro risulta sempre più estesa nel corso dell’anno solare, in ragione dell’evoluzione del mercato turistico con lo scaglionamento delle ferie in più periodi e dell’espansione dei servizi ricreativi marinari e di quelli connessi, ma anche a causa dell’inesorabile e progressivo surriscaldamento climatico.

È in tale quadro che si collocano i manufatti in esame, conseguendone l’obbligo di procedere alla loro rimozione stagionale in tutti i casi in cui (ma solo nei casi in cui) la loro persistenza nella stagione invernale possa essere motivatamente ritenuta pregiudizievole per la conservazione e la trasmissione alle future generazioni dei valori ambientali e paesaggistici che caratterizzano l’area costiera interessata.

Una tale valutazione concerne, dunque, il complessivo pregio ambientale e paesaggistico dell’area secondo la definizione dell’ambiente data dalla Corte Costituzionale (fin dalla sentenza n. 641 del 1987) come un “bene immateriale unitario”, intangibile e da dover preservare, e non solo la tutela del paesaggio, che configura invece un singolo e parziale profilo ambientale ed in cui la natura dei luoghi rileva solo in relazione a un percorso culturale di apprezzamento della loro universale bellezza o singolarità, consentendo variazioni del giudizio in relazione al contesto di antropizzazione della costa, contemplando un concetto di universalità che non può essere legato alla fruizione della sola comunità locale presente nel periodo invernale e non ammettendo “deroghe stagionali” della protezione per il periodo estivo (imponendosi casomai una maggiore tutela proprio nel periodo di massimo afflusso dei potenziali fruitori del bene paesaggistico).

Una tale valutazione deve, inoltre, confrontarsi con il reale contesto di riferimento, risultando l’obbligo di rimozione stagionale pienamente giustificato qualora la persistenza invernale del manufatto risulti specificamente dannosa per il paesaggio o per l’ecosistema, impedendo il ripascimento dell’arenile con le mareggiate invernali, o per la biodiversità, ostacolando la diffusione della macchia mediterranea spontanea sulle dune o la riproduzione della flora e della fauna selvatica, ad esempio mediane la deposizione delle uova delle testuggini lungo la spiaggia, ovvero sia in grado di alterare la percezione del paesaggio al di fuori dell’area balneare incidendo significativamente sul profilo della costa, e comunque quando sia in grado di ostacolare la fruizione pubblica “fuori stagione” (passeggiare, pescare) dell’arenile marino al di fuori delle esigenze connesse allo sfruttamento commerciale della concessione balneare.

Il predetto obbligo non ha, viceversa, ragione di essere (e non può pertanto costituire un onere economico indebitamente imposto al concessionario, alla stregua del principio di sussidiarietà orizzontale legato al favor libertatis per il quale tutto ciò che non viene vietato è consentito) ove non sia motivatamente dimostrata la sussistenza dei predetti pericoli per l’ambiente o per il paesaggio, oppure ove la rimozione autunnale, lo stoccaggio invernale e la conseguente ricostruzione primaverile (con il trasporto dei materiali e dei lavoratori e le lavorazioni in loco) risultino maggiormente dannose o pericolose o comunque invasive per l’ambiente rispetto al mantenimento in situ del manufatto.

In conclusione, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello.