Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana. Elementi per una riflessione. di Marcello Capucci

di 16 Gennaio 2019 Articoli, Rivista

Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana. Elementi per una riflessione. di Marcello Capucci*

in: L’analisi multicriteria tra valutazione e decisione, E. Fattinanzi, G. Mondini (a cura di), 2015, DEI Tipografia del Genio Civile

 

INTRODUZIONE 

Il prefisso ri- nell’urbanistica contemporanea è quanto mai vivace: quali che siano i termini scelti, l’idea che il prossimo futuro ci impegnerà nel “rimetter mano” alla città esistente è ormai ampiamente condivisa. E’ un diverso paradigma, che pone una delle sfide più ricche e stimolanti per la disciplina: soprattutto perché richiede una revisione sostanziale di molte pra-tiche che hanno fino ad oggi rappresentato il sistema di riferimento, per nulla scalfite dal dubbio di essere ancora la giusta risposta a mutati problemi. 

Una riflessione che riguarda in particolare gli standard urbanistici, che sono l’urbanistica mo-derna, e che da ormai mezzo secolo costituiscono il principale strumento di governo delle trasformazioni. Se dovessi indicare un motivo di tale longevità, punterei alla loro straordinaria semplicità: una scarna quanto banale applicazione aritmetica, a presunta salvaguardia della qualità delle città. Una abitudine che ha ridotto lo spazio urbano alla sua misura, e l’Urbani-stica alla tecnica urbanistica; che è ben altra cosa. 

La letteratura e le esperienze più recenti evidenziano i limiti degli approcci meramente quan-titativi, e la ricerca verte su modi e metodi finalizzati ad una produzione di “qualità” urbana in senso lato. Il vero limite della qualità, in urbanistica e non solo, è che essa è difficilmente misurabile e facilmente opinabile. 

Sarebbe interessante allora poter immaginare una nuova generazione di strumenti (penso in particolare al livello del regolamento urbanistico ed edilizio) fondata su una lettura profonda e colta della città (dei suoi quartieri, dei suoi ambiti) ed orientata alla ricerca ed alla produ-zione di qualità: ove gli standard non siano banalmente ridotti all’accoppiata verde-parcheggi, ma piuttosto siano componenti di un più organico progetto di città. 

Qualità riconducibile ad una idea più generale di rendimento urbano, inteso come misura della prestazione di un luogo o di un servizio, in termini, per esempio, di rispondenza alle esigenze degli abitanti o degli utenti, o di suo reale ed efficiente utilizzo. 

Per definire metodi, criteri o standard qualitativi, occorre evidentemente definire rispetto a cosa viene espresso un giudizio, ed è proprio in questo passaggio che i metodi multicriteria possono dare interessanti contributi. Possono in altre parole divenire il metodo attraverso cui costruire, misurare, valutare. Non solo nella fase finale, ma anche e soprattutto nella lettura di un contesto (che è propedeutica alla formazione delle norme): cosa caratterizza l’identità di un quartiere o di un ambito specifico di città? Quali criticità principali si leggono? E di con-seguenza, quali prestazioni attendersi da un progetto di trasformazione, dalla ricerca di stan-dard in quel contesto? e quali standard, per ottenere cosa? 

Domande all’apparenza banali, e che invece potrebbero essere poste alla base di processi par-tecipativi: perché chi meglio di un abitante conosce vizi e virtù del territorio che abita? Ma al Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 2 

di là della conoscenza, su questi aspetti pare assai sensata e produttiva una seria e profonda partecipazione, perché questi sono aspetti fondativi del piano, e quelli meno tecnici (quindi più comprensibili a non addetti ai lavori). Quelli che peraltro più incidono sulla vita e sull’esperienza quotidiana della città. 

Partecipazione che potrebbe rivelarsi molto feconda unita a modalità e strumenti multicrite-riali: per definire meglio le categorie rispetto cui esprimersi e per valutare le priorità; ma anche per tenere la discussione entro limiti definiti e per costringere la partecipazione a misurarsi con risorse e tempi disponibili. 

IL CONTESTO 

Le nostre città, oltre a confrontarsi con una crisi profonda i cui morsi non accennano ad allen-tarsi, vedono oggi sempre più pressante il tema della trasformazione a partire da se stesse. Quali che siano i termini usati – riqualificazione, rigenerazione, riuso, recupero – il leit motiv ricorrente è sempre più connesso all’idea che il futuro non stia più in una fase di crescita, quanto piuttosto in una opportunità di revisione e di rielaborazione dei tessuti e degli spazi urbani a partire da quanto già esiste. 

Letto nella giusta dimensione temporale, questo passaggio non è per nulla rivoluzionario, anzi. L’anomalia piuttosto è da ricercare nei lunghi anni di una espansione urbana di dimen-sioni straordinarie (nella città europea si è forse costruito di più nell’ultimo secolo che nel millennio precedente), connessa a un ciclo economico che, come la storia ci insegna, prima o poi inevitabilmente cambia verso, e non sempre può farlo in meglio. 

Letto in una logica di processo, la città moderna comincia oggi ad uscire da quella dimensione di città “nuova” che fin’ora l’ha contraddistinta: a ben guardare infatti la struttura urbana è rimasta, dal ‘900 in avanti, pressoché immutata. La città è certo cresciuta e si è espansa, ma molto poco ha prodotto in termini di sua ristrutturazione profonda: al suo interno si sono ri-costruiti prevalentemente episodi – qualche lotto e qualche casa – ma, fatte salve alcune grandi operazioni assimilabili più a “nuovo” che a “recupero”, poche energie sono state utilizzate nella rielaborazione della città su se stessa. 

Ciò per svariate ragioni, razionali e legittime: la più immediata delle quali che semplicemente non se ne sentiva il bisogno: il consumo di suolo non era certo un problema, e le dimensioni urbane non erano così disfunzionali da porre il problema in maniera evidente. Non ci sarebbe stato peraltro alcun vantaggio economico nel riuso (molto più semplice usare terreno vergine: il che è ancora vero), e soprattutto non erano mature condizioni culturali tali da avviare una riflessione in tal senso. 

Oggi, la questione comincia a porsi con prospettive diverse e più articolate, e che si rivelano anche molto interessanti dal punto di vista dei significati della città stessa: la quale, per essere pienamente tale, deve portare addosso i segni del tempo trascorso. Così come un vecchio muro in pietra, tolti gli intonaci, comincia spesso a raccontare storie nelle tracce di antiche pilastra-ture e di finestre tamponate, così la città moderna può cominciare ad essere luogo di sovrap-posizione di storie e di significati, arricchendo così immensamente se stessa, ed i propri abi-tanti. 

La strada che le nostre città stanno quindi per intraprendere in maniera oggi più netta, richiede lo sviluppo di un pensiero adeguato e rinnovato, e non può essere affrontata con gli stessi Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 3 

strumenti e gli stessi presupposti propri di una tecnica urbanistica che fu attrezzata per affron-tare un problema del tutto diverso – quello dell’espansione – e che ha operato dentro ad un modello sociale ed economico ormai lontanissimo da quello odierno. 

Si pone quindi, in premessa, un problema di profonda revisione del pensiero e della disciplina urbanistica nel governo della trasformazione urbana: tema che evidentemente eccede gli obiettivi di questo contributo. Una riflessione, seppur non organica, può e deve tuttavia essere avviata: nel tentativo di verificare se le modalità di lettura, di analisi, e di gestione dei territori urbani possano essere terreno di espressione di strumenti ed approcci che sono storicamente lontani da questi contesti. 

Il riferimento è in particolare alla ampia categoria delle analisi multicriteria, ed a loro possibili campi di interesse ed applicazione al problema della trasformazione urbana. 

Con l’obiettivo di capire se vi siano spazi per un utilizzo organico e non episodico di queste tecniche: perché loro applicazioni a questioni specifiche non sono certo una novità, dal mo-mento che le AMC nascono come strumenti di supporto decisionale a problemi complessi. Ma un conto è affrontare un progetto ben definito, sia pure esso di trasformazione o di riqua-lificazione urbana; altra cosa è verificare se le AMC abbiano potenzialità effettive come stru-menti di costruzione dei criteri e delle regole per la trasformazione urbana. 

Proviamo a procedere con ordine. 

Uno dei granitici baluardi della tecnica urbanistica è l’idea di standard, o di dotazione terri-toriale stando alle più recenti evoluzioni del linguaggio (ma molto meno del concetto). Tal-mente resistente, questo baluardo, da potersi quasi affermare che, nei fatti, esso sia la tecnica urbanistica tout court. Se osserviamo infatti la realtà quotidiana, quella vissuta negli uffici tecnici comunali o nelle mille esperienze dei professionisti, la valutazione di un progetto passa quasi esclusivamente attraverso la maglia del rispetto di quantità predeterminate di alcune “cose” (verde, parcheggi, strade od altro), ed un esito positivo di tale verifica consente di licenziare un progetto come “ammissibile” o meno, con buona pace della qualità complessiva del progetto stesso. 

Agli standard urbanistici si aggiungono poi gli aspetti più propriamente edilizi (molti dei quali ancora ancorati a valutazioni igienico-sanitarie sulle quali pure varrebbe la pena aggiornare qualche riflessione) e, in tempi più recenti, il complesso universo delle valutazioni di carattere ambientale prima, ed energetico poi. Limitandosi però a rimanere nei confini della dimensione urbanistica, l’impianto rimane ancora oggi quello delineato nel DM 1444/1968: regole che da ormai mezzo secolo costituiscono il principale strumento di governo delle trasformazioni ur-bane. 

E’ pur vero che negli anni ’60 il problema della “rigenerazione” urbana non era propriamente all’attenzione pubblica: se c’era qualcosa da ri-fare, era allora una intera collettività, un’idea stessa di Paese, che doveva ripartire dalle macerie di una guerra. Alla straripante espansione nel primo dopoguerra, a molti tessuti storici che stremati dai bombardamenti vivevano anche il saccheggio di una violenta speculazione edilizia, la cultura dell’epoca ha tentato di porre un rimedio, seppure con notevole ritardo, attraverso diversi provvedimenti legislativi il più “ope-rativo” dei quali, certamente, fu il decreto citato1. Il quale ha prodotto un set di regole che non potevano essere che naturale esito della sensibilità e della cultura disciplinare del tempo: fon-data su un’idea di rigida segmentazione della città per parti (lo zoning) e su una percezione di 

1 Senza dimenticare il carattere di provvisorietà che – allora- si riteneva che questi interventi dovessero avere. Del 1967 è la legge “ponte” (verso una riforma urbanistica che stiamo ancora attendendo), del 1968 il DM 1444: un decreto ministeriale per l’appunto, e non una legge organica. Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 4 

quello che oggi definiamo centro storico, ed ergiamo a simbolo stesso della nostra identità, come luogo di miseria, sporcizia e fatica, da cui affrancarsi rapidamente nella ricerca di un futuro diverso. 

Riferiti a quel contesto, gli standard urbanistici erano una risposta magari perfettibile, ma certamente efficace alle esigenze ed ai problemi di allora. Ciò che colpisce è come tali logiche siano rimaste sostanzialmente immutate, congelate in sé stessi ed impassibili davanti a muta-menti epocali della società, e delle sue naturali e conseguenti esigenze. 

Se dovessi indicare la ragione principale della longevità di questi metodi, guarderei certa-mente alla loro straordinaria semplicità: una scarna quanto banale applicazione aritmetica, con la premessa – rivelatasi in seguito molto fragile – che ad una faticosa ricerca di quantità dovesse corrispondere, quale logica conseguenza, una qualche forma di superiore qualità ur-bana. Negli anni, l’applicazione di queste semplici regole ha probabilmente contribuito a pro-durre una città forse migliore di quella che avremmo avuto in loro assenza: ma a questo dubbio non esiste in realtà risposta, e comunque non sta qui il punto, né qui interessa discutere nel merito sugli effetti della loro applicazione. 

Su un paio di punti piuttosto vale la pena fare una annotazione: soprattutto per il futuro, che è il vero terreno di lavoro della pianificazione. 

La prima osservazione è sul metodo: l’abitudine a questo strumento semplice ha ridotto lo spazio urbano alla sua misura, e l’Urbanistica alla tecnica urbanistica; che è ben altra cosa. Ha cioè assuefatto tutti all’idea che la misura dello spazio, la sua determinazione numerica, potesse essere sinonimo di una città migliore, più equa, più vivibile, forse anche più bella. Declassando, nella pratica, le capacità e le potenzialità di un approccio progettuale organico. 

Non è certo un caso se statistiche e graduatorie sulle città, proclami di sindaci, attacchi di minoranze vertono quasi immancabilmente sulla presenza o assenza di sufficienti standard, espressi nella gran parte dei casi in amichevoli “metri quadrati”. La ragione è evidente: è più semplice, ed è molto più comprensibile. 

La seconda considerazione ha invece più valore di merito: perché al di là di una valutazione storica sull’efficacia di questi strumenti, appare ormai condivisa la presa d’atto di una loro strutturale inadeguatezza davanti a una città, e soprattutto una società, radicalmente mutata. 

Da tempo, in effetti, nel dibattito disciplinare emerge la percezione della limitatezza degli approcci quantitativi rispetto al problema del “fare città” (e ancor più del fare “bella” città): limiti che parte della letteratura ed alcune esperienze hanno messo in evidenza, con argomen-tazioni ed esempi vari. 

La discussione verte piuttosto su come sia possibile ricercare modi e metodi finalizzati ad una produzione di “qualità” urbana in senso lato: laddove però il vero limite della qualità, in ur-banistica e non solo, è che essa è difficilmente misurabile e facilmente opinabile. 

Una inadeguatezza che è riscontrabile a più livelli: sicuramente è cambiata radicalmente la società a cui questi strumenti si rivolgevano originariamente. Una società in cui ai bisogni di allora si affiancano oggi desideri alquanto articolati: forse meno necessari, ma altrettanto ri-levanti. A voler guardare bene, sarebbero dovuti cambiare anche i requisiti prestazionali degli stessi standard: basti pensare ad esempio al parco auto circolante oggi rispetto a quello dei primi anni ’70, ed alle incidenze di questo anche ben oltre il problema della sosta. Ma questo non ha molta importanza, ai fini del nostro ragionamento. Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 5 

Piuttosto, sono sostanzialmente cambiati gli scenari che la città, quella di pietra, si trova ad affrontare. Al di là degli slogan che affollano la discussione ed il dibattito politico (sulla so-stenibilità, sul consumo di territorio, sulla rigenerazione), una seria affermazione secondo cui il futuro prossimo delle nostre città passi attraverso una loro profonda revisione, a partire da un serio confronto con quanto è già manifesto, ha ripercussioni fondamentali. 

Trasformare, rigenerare, riusare non significa banalmente ricostruire un edificio tecnologica-mente più avanzato in luogo di quello che c’era. Quello è solo un aspetto del problema, edili-zio se vogliamo, e tutto sommato relativamente modesto. 

La vera sfida, complessa, è assumere che la città esistente pone condizioni alla trasformazione estremamente vincolanti: la città che c’è già ha una forma, ha rapporti dimensionali, ha una fisicità con cui fare i conti. Racchiude storie, è luogo fruito ed abitato da persone. Ha un valore, testimoniale ed identitario, ma anche patrimoniale. 

Possono essere vincoli valicabili, con maggiore o minore difficoltà, ma non sta qui il cuore della questione: che è piuttosto nel saperli individuare, interpretare e valutare; perché a cia-scuna condizione data (morfologica, ma anche sociale) corrispondono vizi e virtù che vanno in primo luogo conosciuti. Il danno peggiore che potremmo fare è quello di considerare “ina-deguato” il vecchio con la semplice giustificazione che “non è a norma”, senza neppure avere avuto l’avvertenza minima di capire se la “norma” abbia pieno significato rispetto ai bisogni. 

Con grande fatica, un passaggio simile fu fatto con i nostri Centri Storici: e fu proprio negli anni in cui si producevano, su altri tavoli, i ragionamenti alle fondamenta della Legge Ponte e del DM 1444/68. Lacerati da molti maldestri interventi, dal dopoguerra in poi (quando al centro era ancora associata una idea di riscatto sociale) la riflessione culturale degli anni se-guenti è stata capace di leggere e di trasmettere, al senso diffuso, le straordinarie qualità di quell’ambiente urbano. 

Riflessioni che tuttavia non hanno portato, nella disciplina, né ad un ragionamento organico, né al dubbio che qualcosa di analogo potesse valere anche “un po’ più in là” del centro storico. Motivo per il quale, oggi, ci troviamo nella curiosa situazione in cui i centri storici sono luoghi cui viene riconosciuta una qualità intrinseca straordinaria ed irrinunciabile (lo certifica il pro-cesso imitativo: outlet in primis), ma l’intero set di regole e strumenti che ci siamo dati vieta, categoricamente, di fare qualunque cosa di simile. 

Eppure, nessun centro storico ha sufficienti metri quadri di spazi pubblici rispetto alla norma, nessun centro storico vive su una rigida compartimentazione delle funzioni, in nessun centro storico valgono i dieci metri di distanza tra pareti finestrate. 

Allora, forse, è venuto il tempo di cominciare ad affrontare con serietà la questione, che sta fortemente ampliando la sua sfera di influenza. Perché il problema che ci pone oggi la città dei villini anni ‘30, dei condomini degli anni ’60, dei primi quartieri “verdi” degli anni ’80, non è molto diverso da quello che poneva allora il centro storico. 

Certo, sono parti di città giovani: non hanno addosso i segni del tempo. Sono certamente più povere di significati, e certamente anche di bellezza semplicemente intesa. Ciò nonostante, sono per la maggior parte degli abitanti la città, cioè il palcoscenico quotidiano della loro esperienza di vita, rispetto al quale, proprio per la abitudine che abbiamo degli spazi, non siamo particolarmente attenti né abituati a riconoscerne valori, specificità, caratteristiche. Esattamente come normalmente accade per le cose di cui si ha profonda consuetudine. 

Eppure, queste parti di città sono portatrici di significati: dei quali, a prescindere da giudizi di valore, bisogna innanzitutto prendere atto. Perché altrimenti il rischio è quello di una valuta-zione affrettata e superficiale, che confonde la qualità di un contesto con quella, ad esempio, Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 6 

scadente dei suoi edifici, o di urbanizzazioni bisognose di manutenzioni, o di un tessuto so-ciale problematico. 

Eppure, nel bene o nel male, queste parti di città sono “fatte” in un certo modo, e ciò rappre-senta una condizione fondamentale di partenza. La loro forma, i vincoli fisici che esse ci rap-presentano, disegnano modi d’uso e condizioni che rappresentano come “si sta” in quegli spazi. Ciò significa quindi che azioni di trasformazione possono tendere a farci stare meglio, o in modo diverso: ma ciò che conta, nella rigenerazione urbana, è capire da dove si parte, comprendere quali condizioni questa partenza ponga, e valutare il sistema di reazioni che la trasformazione produce: in una logica crescente di adattamento, miglioramento, adegua-mento, che va subordinata a obiettivi specifici, dopo averli definiti, vagliati e condivisi. 

In altre parole, una porzione di città (non un singolo edificio, o men che meno un abuso edi-lizio: ben inteso) non può essere qualificata d’emblée come “fuori norma”: per il solo fatto che la sua esistenza la legittima. E se su di essa si vuole intervenire, ciò è senz’altro possibile, ma a patto di valutare le reazioni conseguenti a ciascuna azione messa in campo. 

Basti un esempio per capire ciò di cui stiamo parlando: Jane Jacobs (1961), in un testo che dovrebbe essere una lettura dovuta nella scuola dell’obbligo, ci ricorda come nella città ci vogliano le case vecchie. Perché – dice – essendo vecchie e un po’ malmesse, possono essere accessibili a classi sociali che altrimenti non potrebbero avere un tetto sulla testa: magari non eccezionale, ma pur sempre un tetto. Ma il ragionamento non finisce qui: perché la presenza di case vecchie, sparse qua e là, significa un mix sociale che è fondamentale nella vita della città. Perché, come scriveva Michele Sernini (1994), obbliga tutti ad una faticosa sopporta-zione quotidiana dell’altro, che è la vera lezione che la città ci lascia, in una sorta di valvola di sfogo utile a prevenire scoppi più deflagranti (ricordiamo tutti le banlieu parigine di qualche anno fa, o la attualissima questione romana). 

Eppure, oggi, la sostituzione di una casa vecchia con una moderna “soluzione abitativa” in classe A, in grado magari di produrre energia per ricaricare di notte le batterie delle auto elettriche custodite nei garage, è da tutti portata ad esempio. Il che è anche giusto: però mi pare lo potrebbe essere di più se prima si fossero capite e valutate le reazioni conseguenti, per poi deliberatamente accettarle. 

Il tema in realtà è molto più profondo e difficile quando lo si apre ai tessuti urbani. Le nostre città, soprattutto quelle tra gli anni ’50 e gli anni ’70, sono fatte molto semplicemente di strade, con case o giardini di case su di esse aggettanti. Strade spesso strette, ove la convivenza con le auto è difficile; ed un rimedio, da tipica applicazione normativa, è quasi banale: caso per caso, lotto per lotto, quando si può, si creano spazi per qualche posto auto in più: perché ad una trasformazione edilizia corrispondono parcheggi, ormai anche secondo il senso comune. Ma è questo veramente un obiettivo aggiornato? Ne siamo davvero e pienamente convinti? Due posti auto in più in una strada di mezza periferia risolvono un problema, senza crearne altri? se per fare quei due posti è stato spostato un edificio dal filo strada, dove prima potevano esistere piccole attività e negozi, è stato creato o distrutto valore urbano, in quel contesto? 

Oppure potremmo fare un’altra ipotesi, seppure di scuola, in cui una stretta strada residenziale potesse ampliarsi pian piano a seguito delle trasformazioni dei vari lotti, fino a produrre suf-ficienti parcheggi “di norma”, ma magari perdendo, per questa alterazione morfologica, le condizioni per mantenere le relazioni di vicinato che da sempre la connotavano: come giudi-cheremmo l’esito, positivo o negativo? Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 7 

POSSIBILI LINEE DI AZIONE PER LE AMC 

E’ a questo punto che, pur con qualche cautela, avanzerei l’ipotesi di trascinare nella discus-sione le potenzialità ed i metodi delle Analisi Multicriteria. 

Con l’avvertenza, per il lettore, che chi scrive ha una grande passione ed una discreta padro-nanza dei fatti urbanistici, ma è assolutamente neofita rispetto alle AMC: dalla cui scarsa pratica potranno derivare possibili inesattezze, di cui mi scuso fin d’ora. Ma d’altra parte lo scopo di questa riflessione non è certo quello di discutere nel merito dei metodi delle analisi multicriteria, quanto piuttosto di interrogarsi se vi possano essere utili e feconde possibilità di sovrapposizione e commistione con terreni (e questioni) apparentemente lontani. 

Io credo ve ne possano essere, delineando tre possibili linee di azione: 

– le AMC come strumento di costruzione degli standard; 

– le AMC come strumento di misura del rendimento; 

– le AMC come luogo della partecipazione. 

La prima ipotesi mi pare la più stimolante, ed è quella dove ricercare parziali risposte ad alcune delle questioni prima riportate. 

Se si condivide l’idea che gli standard siano inadeguati, il problema non sta nella definizione dei livelli di prestazione, ma prima di tutto in una nuova possibile ridefinizione dello standard stesso. 

La prima questione è, quindi, in che misura problemi nuovi (la trasformazione della città) determinano categorie di riferimento diverse, rispetto alle quali esprimere valutazioni poten-zialmente assai lontane da quelle cui siamo storicamente abituati. Semplificando, per fare un esempio: il problema non è tanto nel definire quanti posti auto o verde servano ogni tanti metri quadri trasformati, ma se lo standard siano effettivamente, ed ancora, e solo, i posti auto o il verde: o piuttosto se qualcos’altro, alternativo o complementare, possa entrare – oggi – nella valutazione. 

Dal momento che è assai rara, anche tra gli addetti ai lavori, una adeguata sensibilità in grado di comprendere e di trasmettere quel sistema di azioni e reazioni che ciascuna scelta produce sul corpo della città, le AMC potrebbero dare in questa direzione un interessante contributo. 

I metodi multicriteriali, infatti, consentono di strutturare percorsi di selezione articolati e più fini, sicuramente più adatti ad affrontare la complessità della città esistente, e soprattutto ad accettarla come parte del problema. Complessità rispetto alla quale la risposta non può essere acriticamente una radicale semplificazione (che è in realtà una ammissione di incapacità di gestirla) quanto piuttosto un percorso il cui esito è di mettere in ordine le priorità, pure par-tendo da situazioni fortemente entropiche, all’interno di metodi e pratiche codificate. 

Una applicazione di questo tipo, potrebbe appunto aiutare a “tenere assieme” il problema della trasformazione urbana, evitando di affrontarlo “per parti”, ciascuna delle quali inevitabil-mente si dimentica dei confini, e talvolta dell’esistenza, dell’altra, con il risultato di avere porzioni di norme tra loro sovrapposte e spesso contrastanti. 

Da un certo punto di vista, perciò, l’obiettivo potrebbe essere quello, attraverso le tecniche delle AMC o con loro eventuali e specifici affinamenti, di affrontare le complessità della città esistente con un approccio differente. Molto distante dalle valutazioni tipiche della tecnica urbanistica classica, che, data un’area o un progetto, esprime valutazioni sulla base di criteri Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 8 

(parcheggi, verde, servizi, distanze, ecc.) e di conseguenti unità di misura (densità, metri qua-drati, ecc.) riferite a livelli di prestazione dati quasi per assunto, ma di fatto mai veramente contestualizzati o valutati nel merito. Qual è l’origine, ad esempio, dei 18 mq di servizi pro capite previsti inizialmente dal DM 1444? E perché non 19? Oppure ancora: perché non 15 in determinati contesti, e 30 in altri? 

Un confronto sulla complessità è certamente più articolato, ma consentirebbe un notevole salto di qualità. Ciò è ancora di più vero quando riferito al confronto con la città che c’è: per la quale mi pare sia fondamentale partire dalle differenze e dalle peculiarità intrinseche, che spesso costituiscono l’unico vero elemento di identità dei luoghi e di riconoscibilità dei con-testi. Quando invece la prassi si muove in direzione contraria: assumendo l’idea di un target unico, valido sempre e comunque, con l’obiettivo di una normalizzazione delle situazioni, di un appiattimento delle differenze, di un ricondurre ogni fatto ad un sistema codificato. 

Per non cadere in questa trappola, ci sono due strade. Una è quella che agisce “per progetto”: quella cioè che affida la risoluzione del caso ad una riflessione specifica, puntuale e non re-plicabile: che è per l’appunto la soluzione del progetto, anche ragionevolmente libero dai lacci di eccessive predeterminazioni di norma. Soluzione che può essere più o meno soddisfacente in funzione delle capacità del progettista e/o delle condizioni al contorno; e che purtuttavia si può assumere valida limitatamente ad alcune casistiche: diciamo per quelle più rilevanti, o aventi carattere di unicità. Più difficile immaginare di validare l’idea che la soluzione per progetto sia applicabile all’universo delle trasformazioni semplici e diffuse: il che però non preclude di investigare altre strade. 

La seconda delle quali potrebbe proprio essere nell’utilizzo delle AMC: non tanto per valutare gli esiti, ma per costruire i criteri rispetto ai quali orientare le scelte. Perché, se in un contesto di periferia esistente c’è un problema di scarsità di spazi pubblici, è certo molto più proficuo che questo emerga da una osservazione che analizzi la complessità del problema e faccia emergere quella come priorità, piuttosto che la stessa cosa sia affermata per una asettica va-lutazione aritmetica. Anche perché, all’interno di una AMC, il dato meramente quantitativo viene ridimensionato nei suoi significati, a favore di una valutazione comunque di origine qualitativa che ha tutt’altro valore e rilevanza. 

Ammesso e non concesso di riuscire a fare questo passaggio, che mi pare il più complesso ma anche il più innovativo, una volta che ne siano derivati i criteri (gli standard “rinnovati”), si pone il problema di definirne il livello di prestazioni attese, e quindi di valutarne il rendi-mento: cioè, potremmo dire, il grado effettivo di rispondenza alle esigenze ed ai bisogni espressi dalla collettività, da verificare anche in relazione all’effettivo uso che ne viene prati-cato. 

Le due questioni vanno in effetti affrontate congiuntamente: perché la definizione del “quanto” va monitorata rispetto al rendimento che esso rende alla città: perché in assenza di questo tipo di riflessione la tendenza naturale è quella secondo cui il “di più” è comunque “meglio”. 

Chi ha una qualche esperienza di amministrazione della cosa pubblica, sa bene quanto spesso nella interazione con i cittadini alcune questioni siano ricorrenti: più verde per i bambini, più negozi lungo le strade, più piste ciclabili, ecc. Poco importa se di ciò che già c’è, tra quello che viene richiesto, non vi sia uso pieno, e talvolta neppure esperienza o conoscenza. 

Nel senso che ad un livello prestazionale richiesto corrisponde spesso una valutazione pura-mente soggettiva, non di rado anche emotiva, spesso strumentale. Ragionare in una logica di Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 9 

rendimento, costringe anche in questo caso ad un processo di sintesi: dove domanda (cittadini) ed offerta (spazi o servizi) in qualche modo si devono incontrare, e dove si devono confrontare con valutazioni di costo/opportunità. 

In un contesto dato (ad esempio un quartiere della città), ridefiniti gli standard di riferimento, un processo multicriteria può aiutare a definire i livelli di prestazione attesi in funzione dei loro effettivi rendimenti; ad esempio introducendo nel processo altre condizioni al contorno: fra tutte, la effettiva disponibilità di risorse per la realizzazione, o i costi di gestione nel tempo. 

Ma quali sono i principali attori effettivi in questi passaggi? Chi è cioè chiamato ad esprimersi nell’ambito di questi processi, ad individuare criteri e relativi pesi, a definire i bisogni? Evi-dentemente, lo sono gli abitanti e gli utenti (della città, come di specifici servizi), ma lo sono anche gli amministratori, i tecnici, ed altri numerosi stakeholder. Si tratta cioè dell’esito di un lavoro corale: ed in questo senso l’analisi multicriteriale può essere vista come luogo e strumento della partecipazione. 

Anche sotto questo profilo si possono individuare alcuni profili di innovazione. 

Senza entrare nel merito di questioni più profonde, che esulano dai contenuti di questa rifles-sione e che richiederebbero ben altri spazi, credo si possa affermare che uno dei limiti più evidenti delle pratiche partecipative è che esse si svolgano in un’arena spesso priva di chiare regole del gioco, in cui il risultato più frequente è la produzione di aspettative a forte rischio di delusione, per varie ragioni. 

Ad esempio, perché quando la discussione è troppo ampia, si corre il rischio che si alimenti a dismisura, perdendosi nell’affrontare di tutto un po’e dimenticando gli obiettivi prioritari. Op-pure, perché non si tiene il confronto con i limiti dati, anche su temi molto concreti e pratici, in particolare rispetto al problema delle risorse o dei tempi disponibili. 

In realtà, anche più spesso di quanto si possa immaginare, l’inefficacia del percorso parteci-pato non è detto che sia un risultato indesiderato: perché in fondo ciascuno ha potuto portare il proprio punto di vista (cosa che già di per sé può essere considerata un primo risultato); e perché nessuno si sente davvero impegnato a trovare una soluzione che il percorso stesso – spesso appunto per assenza di regole – alla fine ha decretato essere quasi irraggiungibile. 

Le analisi multicriteria, codificando in modo chiaro il processo, possono viceversa costituire un ottimo “manuale di istruzioni” nella conduzione del gioco. 

All’interno di un percorso multicriteriale si può, con relativa semplicità ed efficacia comuni-cativa, affrontare problemi di rilevante complessità con diverse variabili in gioco, e con inte-razioni tra le variabili stesse. E lo si può fare anche con un pubblico di non addetti ai lavori, al quale non viene certo richiesto di entrare nel merito della costruzione dell’algoritmo, quanto di esprimere giudizi su aspetti molto più quotidiani e più tangibili. 

In effetti, a pensarci con un po’ più di attenzione e senza alcuna forma di demagogia, chi più di un abitante di un quartiere ha diritto ad esprimersi sugli spazi e sulle situazioni urbane di cui ha esperienza continua? 

Nelle ipotesi di lavoro affrontate in questo contributo, quel cittadino è chiamato ad esprimersi sulla sua città, sul suo quartiere, è portato ad interrogarsi e ad esplicitarne pregi e difetti, ed è aiutato a metterli in relazione ed a comprendere che certe risposte ne negano necessariamente altre. 

Perciò è anche chiamato esso stesso a scegliere ed a mediare: contribuendo così anche a ri-portare un po’ di politica tra gli abitanti. Sulle analisi multicriteria nella rigenerazione urbana 10 

* Ingegnere, PHD, Dirigente del Servizio di pianificazione territoriale del Comune di Modena – email: marcello.capucci@gmail.com 

BIBLIOGRAFIA 

Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, Random House, New York, 1961 

Michele Sernini, La città disfatta, FrancoAngeli, Milano, 1994