Sull’apposizione del vincolo culturale, di Fabio Cusano

Con sentenza 7 febbraio 2024, n. 1245, il Consiglio di Stato, sez. VI, ribadisce che gli atti che accertano la sussistenza di un interesse culturale particolarmente importante di un immobile, tale da giustificare l’apposizione del vincolo e del conseguente regime ex art. 10, comma 3, D. Leg.vo 42/2004, rappresentano l’esplicazione di un potere di apprezzamento tecnico, proprio dell’amministrazione dei beni culturali nell’esercizio della funzione di tutela del patrimonio; tali atti devono essere supportati da una adeguata attività istruttoria aderente allo stato oggettivo dei luoghi, da cui emergano la sussistenza dei presupposti della meritevolezza dell’impronta storico-architettonica dell’immobile e l’effettiva esigenza di tutela.

La società appellante impugnava la sentenza del Tar Lombardia recante rigetto dell’originario gravame, proposto dalla stessa società al fine di ottenere l’annullamento del decreto di dichiarazione di interesse culturale della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, emesso ai sensi dell’art. 10, comma 3, lettere a) e d) del D. Lgs. 42/2004.

L’appello è fondato sotto l’assorbente profilo del difetto di istruttoria.

In linea generale, le valutazioni di un interesse culturale particolarmente importante di un immobile, che siano tali da giustificare l’apposizione del vincolo e del conseguente regime ex art. 10, comma, d.lg. n. 42/2004, rappresentano l’esplicazione di un potere di apprezzamento tecnico, proprio dell’amministrazione dei beni culturali nell’esercizio della funzione di tutela del patrimonio; tali valutazioni possono essere sindacabili in sede giurisdizionale soltanto in presenza di oggettivi aspetti di incongruenza, travisamento di fatti e illogicità (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 25/03/2022, n. 2181).

A fronte dell’omogeneità delle censure, in termini di critica all’estensione del sindacato giurisdizionale della sentenza di rigetto impugnata ed alla correttezza della determinazione negativa impugnata, occorre ribadire un breve inquadramento (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 27 dicembre 2023 n. 11204). In linea di diritto, in considerazione della natura delle contestazioni mosse avverso le decisioni applicative dell’interesse culturale tutelato dall’amministrazione competente, connotata da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, va richiamato l’orientamento, ancora di recente ribadito dalla sezione, a mente del quale le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. «discrezionalità tecnica») ‒ a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. «discrezionalità amministrativa»), rispetto alle quali il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ‘ragionevole’ ponderazione di interessi non previamente selezionati e graduati dalle norme ‒ vanno vagliate dal giudice con riguardo alla loro specifica ‘attendibilità’ tecnico-scientifica. Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale.

In tale ottica, a fronte dell’esercizio di un tale peculiare potere, in specie dinanzi ad una diversa prospettazione basata su elementi parimenti tecnici, il sindacato – analogamente ad altri ambiti di carattere tecnico e specialistico – non si può più fermare alla verifica della mera attendibilità estrinseca, dovendo cercare più avanti il punto di caduta, in coerenza al bilanciamento – da un canto – fra poteri e – da un altro canto – fra interessi, pubblici e privati nonché alla delimitazione del nucleo di merito rimesso all’amministrazione.

In generale, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici e specialistici dell’amministrazione può oggi svolgersi non in base al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro coerenza e correttezza, quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo.

Va evidenziato, in tale ottica, che il controllo giurisdizionale, teso a garantire una tutela giurisdizionale effettiva, anche quando si verta in tema di esercizio della discrezionalità tecnica di un’autorità dotata di competenze specialistiche, non può essere limitato ad un sindacato meramente estrinseco, estendendosi al controllo intrinseco, anche mediante il ricorso a conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza applicata dall’amministrazione, sulla attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti, in specie rispetto ai fatti accertati ed alle norme di riferimento attributive del potere.

In tale contesto, in tema di esercizio della discrezionalità tecnica, se per un verso il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, per un altro parallelo verso deve stabilire se la valutazione operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia nel complesso che nell’articolazione dei diversi passaggi, oltre che sotto il profilo delle regole tecniche applicate.

Sul versante tecnico, in relazione alle modalità del sindacato giurisdizionale, quest’ultimo è volto a giudicare se l’Autorità pubblica abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica, attraverso la verifica dei passaggi sopra indicati, in coerenza ai fatti accertati, alle regole tecniche e procedimentali predeterminate, senza che sia invece consentito, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali. In particolare, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5559).

Tali generali coordinate vanno adeguate alla peculiarità delle valutazioni di valenza culturale, prima, ed al caso di specie, a seguire.

Sul primo versante, l’apprezzamento da parte dell’amministrazione ai fini dell’imposizione di scelte di vincolo legate a poteri ed obiettivi di valenza culturale si atteggia come un apprezzamento ampio dell’interesse pubblico a tutelare cose che, attenendo direttamente o indirettamente alla storia, all’arte o alla cultura, per ciò che esprimono e per i riferimenti con queste ultime, sono reputate meritevoli di conservazione. Tuttavia l’interesse pubblico alla tutela della cosa che attenga direttamente o indirettamente alla storia, all’arte o alla cultura è direttamente collegato con una valutazione in termini di particolare interesse della cosa per i propri pregi intrinseci o per il riferimento della medesima alle vicende della storia dell’arte o della cultura, sicché l’espressione precipua dell’attività tecnico-discrezionale dell’amministrazione si ha nel momento della formulazione del giudizio di particolare rilevanza del bene, discendente a sua volta o dal riconoscimento di un peculiare pregio del medesimo, o dal riconoscimento di un particolare collegamento di esso con le vicende della storia, della cultura e dell’arte.

La circostanza che tale attività dell’amministrazione, volta ad esprimere il giudizio di rilevanza, pur implicando un apprezzamento di conformità della cosa valutata ad un modello astratto alla stregua di criteri estetico-culturali, sia sostanzialmente di carattere ricognitivo e conoscitivo (in quanto volta ad accertare l’esistenza della peculiare qualità della cosa da sottoporre a tutela), e non, invece, di carattere volitivo, come quando l’amministrazione è chiamata ad operare, per il perseguimento di un determinato interesse, una scelta fra due diverse soluzioni possibili, non esclude, ovviamente, che il margine di apprezzamento si basi su elementi tecnici, che restano di carattere peculiare e specialistico.

In tale contesto, sul versante di tutela gli spazi sono garantiti, analogamente agli altri ambiti specialistici sebbene adattati alle peculiarità del settore coinvolto. Pertanto, se è ben possibile per l’interessato ‒ oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali ‒ contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, in tal caso emerge contemporaneamente l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica; se tale onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato; ciò in quanto prevale la scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 23 settembre 2023 n. 8167).

Il potere ministeriale di vincolo richiede, quale presupposto, una valutazione basata non sulle acquisizioni delle scienze esatte, bensì su riflessioni di natura artistica, storica e filosofica, spesso strettamente legate al contesto culturale e territoriale di riferimento, per loro stessa natura in continua evoluzione, anche solo per il notorio dato che trattasi di materie soggette a continuo studio e ricerca, nel perseguimento di analoghi interessi pubblici culturali, di istruzione e di crescita individuale e collettiva; in tale ottica non a caso lo stesso art. 9 della Costituzione afferma che lo Stato tutela lo “sviluppo” della cultura, da intendersi in termini quindi ampi, quale evoluzione in sé oltre che nei singoli. L’esigenza di oggettività e uniformità di valutazione dei tecnici del settore (storici dell’arte, antropologi, architetti, ecc.) non può non risentire del predetto limite di sindacato.

Sul secondo versante, applicando le coordinate predette al caso in esame, l’atto in contestazione – motivato in parte per relationem attraverso il rinvio alla relazione storico-artistica ivi allegata ed in parte in risposta alle osservazioni formulate dalla proprietà incisa – non risulta accompagnato da una adeguata istruttoria da cui trarre la sussistenza dei presupposti della meritevolezza dell’impronta storico-architettonica che si vorrebbe posseduta dall’immobile; anzi, la mancanza di sopralluogo e la mancata adeguata valutazione di elementi di fatto relativi allo stati attuale del contesto e dell’immobile evidenziano il dedotto profilo sintomatico di eccesso di potere indicato.

Il percorso argomentativo deve essere, in primo luogo, aderente allo stato oggettivo dei luoghi ed è ciò che manca nella specie.

Al riguardo, come già evidenziato dalla giurisprudenza consolidata della sezione, se lo stato di abbandono di un bene di per sé non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico – potendo un manufatto in condizione di degrado ben costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l’ulteriore decadimento – tuttavia è onere dell’Amministrazione dei beni culturali prendere in considerazione le puntuali obiezioni sollevate parte circa la realistica possibilità di conservazione e valorizzazione dell’immobile. Diversamente, è concreto il rischio che si persegua una concezione del tutto astratta (e quindi vuota) del bene che si vorrebbe tutelare.

Tali vizi risultano confermati, in termini tradizionali di profili sintomatici di eccesso di potere, laddove i funzionari dell’organo ministeriale abbiano, come nella specie, omesso di effettuare una ricognizione dei luoghi.

A fronte di ciò, la stessa relazione invocata finisce con il contenere una di affermazioni stereotipate, in cui non è possibile rintracciare le ragioni che attestano la singolarità del bene che si assume avere valore di testimonianza, ovvero la mera descrizione dei luoghi, neppure precisa come evidenziato dagli elementi – descrittivi e fotografici – prodotti da parte appellante.

Come già evidenziato dalla sezione, la mera e generica circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una testimonianza di un tipo di costruzione di un particolare periodo storico non è di per sé elemento sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento individuale e concreto, quale quello in questione.

Qualsiasi fabbricato è di per sé testimonianza di un tipo di costruzione del proprio periodo nella zona in cui si trova.

Al tempo stesso, un apprezzamento basato sulla mera valenza documentaria non è sufficiente per individuare giuridicamente un bene culturale: in questa operazione non si può infatti prescindere da un elemento valutativo concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento specifico agli elementi che questo pregio (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10 dicembre 2012, n. 6293, e 18 dicembre 2017 n. 59050).

Stato di fatiscenza ed assenza sopralluogo finiscono con il confermare l’assenza di una istruttoria adeguata alla rilevanza ed incisività del potere esercitato, in quanto emerge un travisamento dei fatti posto all’interno del perimetro di sindacato giurisdizionale in oggetto; in proposito, ad esempio, laddove nella risposta alle osservazioni puntuali sullo stato di fatto attuale il provvedimento afferma che l’immobile sia sostanzialmente intatto, dall’analisi della documentazione versata in atti lo stesso risulta diruto in alcune rilevanti parti.

Parimenti, anche la affermata condizione di isolamento è discutibile, dall’esame della documentazione in atti, prodotta da parte appellante e non adeguatamente valutata se non attraverso formule e considerazioni generali.

Ancora priva di adeguato riscontro è la oggettiva constatazione, posta a base delle articolate osservazioni presentate, dell’esistenza di due corpi edilizi adiacenti, non esaminati né valutati dagli atti impugnati in prime cure, evidente parte integrante dell’immobile attuale ed aggiunti rispetto alla struttura originaria, ormai del tutto crollati e pericolanti.

Il difetto di istruttoria emerge anche dalla manifesta illogicità e sproporzione rilevata laddove si dichiara di voler arrestare una possibile crescita del sistemo insediativo del contesto.

Invero, se per un verso – fattuale e di contesto – le controdeduzioni e la documentazione fotografica allegata evidenziano la ormai avvenuta crescita insediativa, per un altro verso – giuridico e finalistico – quello dichiarato costituisce un obiettivo diverso dalla tutela culturale del singolo bene. Infatti, a quest’ultimo riguardo, un conto è la verifica culturale del bene, collocato nel contesto di riferimento, un altro conto è la critica ad un sistema edilizio posto al di fuori delle competenze dell’amministrazione. Quest’ultima, al dichiarato fine di fermare uno sviluppo edilizio non condiviso ma che è posto al di fuori degli ambiti di propria competenza, finisce con applicare il potere di vincolo culturale ad un immobile diruto ed ormai privo di caratteristiche peculiari, non facilmente riconoscibili, quantomeno sulla scorta della carente istruttoria svolta.

Carenza istruttoria evidenziata dalla incomprensibile assenza di un sopralluogo, correttamente invocato anche in sede procedimentale dalla parte privata; infatti, proprio la peculiarità del contesto rappresentato dalla parte privata avrebbe imposto un accertamento diretto dei luoghi, anche in relazione alla consistenza (i due manufatti diruti annessi) ed allo stato reale dell’immobile.

Invero, in tale situazione le affermazioni di cui alla relazione storico artistica risultano un esercizio teorico senza il necessario collegamento diretto con la realtà.

A parte la ricostruzione della storia burocratica dell’immobile, dalla realizzazione alla descrizione, tratta peraltro indirettamente da materiale digitale, la relazione storico artistica contiene questo solo passaggio relativo all’effettiva valenza culturale rilevata: “Esempio di “archeologia industriale” ottocentesca, in cui alla ricerca di funzionalità organica delle strutture si associano soluzioni distributive e tipologiche razionali tipiche delle architetture produttive dell’epoca, costituisce un unicuum nel suo genere per destinazione (cantina per la lavorazione del vino) e per impiego di tecniche costruttive con uso di materiali locali (conglomerato glaciale locale), di cui non esiste altro riscontro, se non nei pezzi riciclati della ex-chiesa romanica di Olgiate del secolo XI.”

Peraltro tale valutazione sconta i due vizi predetti, in termini di travisamento dei fatti e di manifesta illogicità, integrando quel difetto di istruttoria e di motivazione compiutamente dedotto da parte appellante. Per un verso la definizione di “archeologia industriale” non appare precisa, in merito ad una azienda vinicola, e quindi in prevalenza agricola; per un altro verso, anche la valutazione come unicum appare priva di effettivo riscontro pratico.

È quindi mancata anche la dovuta valutazione istruttoria di elementi dedotti nelle osservazioni di parte, elementi peraltro coerenti alle risultanze fattuali: “pessimo stato di conservazione in cui versa l’immobile”; “alterazioni effettuate sulla struttura originaria per consentire usi e funzioni diverse (successivamente alla cessazione dell’attività vitivinicola)”; “trasformazione del contesto abitativo circostante (connotato dalla presenza di edilizia residenziale di scarsa qualità)”.

In definitiva, nel caso di specie, lungi dal sostituirsi alla valutazione dell’amministrazione la deduzione di parte appellante ne evidenzia carenze istruttorie e, di conseguenza, motivazionali, legate al reale contesto e stato dell’immobile, nonché alla effettiva sussistenza dei pregi culturali posti a base della relazione storico artistica; in termini coerenti ai principi in tema di limiti ed estensione del sindacato giurisdizionale, sopra riassunti.

Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va pertanto accolto; per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado.