LA COMPLESSIVA RIDUZIONE DEL POTERE DI AUTODETERMINAZIONE IN ORDINE ALL’ ASSETTO E ALL’ UTILIZZAZIONE DEL PROPRIO TERRITORIO IN CAPO AI COMUNI TRA NUOVI ISTITUTI (ACCORDI CON I PRIVATI), NUOVI PRINCIPI (PRINCIPIO DI COMPETENZA) E RAFFORZAMENTO DEL RUOLO DEGLI “ENTI TECNICI” di Federico Gualandi

di 14 Aprile 2020 Articoli, Rivista

LA COMPLESSIVA RIDUZIONE DEL POTERE DI AUTODETERMINAZIONE IN ORDINE ALL’ ASSETTO E ALL’ UTILIZZAZIONE DEL PROPRIO TERRITORIO IN CAPO AI COMUNI TRA NUOVI ISTITUTI (ACCORDI CON I PRIVATI), NUOVI PRINCIPI (PRINCIPIO DI COMPETENZA) E RAFFORZAMENTO DEL RUOLO DEGLI “ENTI TECNICI”.

 

Prof.Avv.Federico Gualandi

 Avvocato in Bologna

 Docente a contratto presso l’ Università degli Studi di Venezia.

 

La presente riflessione si propone di indagare vari aspetti apparentemente diversi tra loro, ma che hanno un “comune denominatore” e cioè il sostanziale indebolirsi del ruolo del Comune nel “governo del territorio” con il trasferimento del potere decisionale in altre Sedi, che non hanno uguale rappresentatività e legittimazione democratica.

In effetti nonostante le enfatiche ricostruzioni della recente giurisprudenza del Giudice amministrativo, che (a partire dalla nota sentenza relativa al PRG di Cortina d’ Ampezzo), afferma che l’urbanistica rappresenta:

l’ intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo (…) in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi – sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti, sia delle esigenze economico – sociali della comunità radicata sul territorio, sia, in definitiva, del modello di sviluppo che si intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione “de futuro” sulla propria stessa essenza, svolta – per autorappresentazione ed autodeterminazione – dalla comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora , attraverso la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio

pare di assistere ad un fenomeno del tutto inverso e cioè ad una progressiva e costante erosione dei poteri delle Collettività Locali (e dei suoi Organi rappresentativi) circa l’ uso del proprio territorio, come nel presente articolo si cercherà di dimostrare.

1) La “consensualità necessaria” come implicita abdicazione di una <quota parte> di esercizio della funzione e l’ introduzione del cd. “principio di competenza”.

Il primo fattore, come abbiamo già evidenziato in un precedente intervento, è rappresentato dalla scelta propria delle Leggi regionali più recenti (si veda la L.R. Emilia – Romagna n. 24/2017) di sostituire un “pezzo” della pianificazione comunale (e forse il pezzo più importante) con uno strumento nuovo, l’ Accordo con i privati.

In effetti, ciò che è concretamente avvenuto, è la sostituzione di una parte importante (e forse della parte più significativa) del Piano, con uno strumento diverso, l’ Accordo, che – a differenza del Piano – è basato su di un confronto e su di un dialettica tendenzialmente “binaria”, tra parti sostanzialmente uguali e poste sullo stesso piano (1).

Nella Legge emiliano – romagnola questa scelta è particolarmente significativa, perché la Legge sceglie (in modo fortemente innovativo) il modello dell’ Accordo “obbligatoriamente sostitutivo”,  che è assai diverso dal modello “sostitutivo/alternativo” previsto dall’ art. 11 della L. n. 241/1990, dove l’ accordo è sì previsto, ma come solo come possibile alternativa all’ esercizio della funzione mediante il provvedimento autoritativo.

Non vi è dubbio che questo nuovo assetto decisionale trova la propria giustificazione in una sorta di crisi nell’ esercizio autoritativo ed autonomo della funzione, come avveniva con la pianificazione tradizionale.

E’ importante comprenderlo, perché questo implica una implicita, ma significativa “abdicazione” ad una considerevole quota di regolazione autoritativa, con un’ evidente riduzione dello stesso potere urbanistico “conformativo”.

In sostanza, la scelta operata da queste Leggi pare muovere da considerazioni estremamente pragmatiche: siccome si deve intervenire su di un territorio già edificato e nei confronti di un diritto di proprietà già “conformato” e non ci sono strumenti efficaci per intervenire autoritativamente (se non ipotizzando ciò che oggi costituirebbe una strada impercorribile e cioè una sorta di “rigenerazione coattiva” attuata mediante provvedimenti autoritativi ed ablatori), non si può che “scendere a patti” con i proprietari dei beni, usando la “negozialità” (ma anche la premialità) per cercare di indirizzare il privato verso un uso “sociale” dei propri beni.

In effetti, come rileva acutamente un’ Autorevole dottrina (2):

Il Piano regolatore ha un potere (ancorchè non esclusivo) di conformazione delle proprietà relativamente alle parti non edificate del territorio, ma non ne ha alcuno relativamente a quelle già edificate: il potere conformativo della proprietà privata cessa là dove inizia l’ abitato (…)”.

Ma se questo è vero, ci si può chiedere quanto abbia ancora senso parlare di “governo del territorio”, se questo “governo” necessita della indispensabile ed ineludibile condivisione del soggetto privato con il quale occorre “accordarsi” e che non ha alcun obbligo giuridico di farlo, se ciò non risponde al suo “personale” interesse (che, spesso, potrebbe essere – quantomeno all’ origine – antitetico rispetto all’ interesse della Collettività).

Un necessario corollario di quanto sopra evidenziato e che discende dalla necessità di allentare una regolazione fortemente regolativa, autoritativa e gerarchica, è l’ introduzione di un principio del tutto nuovo nell’ambito della pianificazione territoriale ed urbanistica e cioè del principio <di competenza>.

Si tratta di un principio che si differenzia nettamente da quello tradizionale, gerarchico: infatti mentre quest’ultimo opera secondo lo schema della rigida legalità/conformità, in base al quale le scelte attuative della pianificazione devono essere conformi a quanto stabilito dal livello di pianificazione sovraordinato, per poter essere considerati legittime, il principio di competenza opera secondo un rapporto molto più flessibile, di coerenza/compatibilità tra le scelte effettuate e gli obiettivi (o la strategia) delineata dalla Legge e dall’  Amministrazione Comunale.

Nella Legge emiliano-romagnola, il principio di competenza si salda fortemente con il principio di consensualità e il passaggio dal principio di gerarchia a quello di competenza segna allora un passaggio di grande importanza: come si è detto, si sostituisce lo schema legalità/conformità tipico del sistema di pianificazione gerarchica con lo schema compatibilità/coerenza delle scelte di pianificazione urbanistica, assumendo oggi molta più importanza non tanto il rispetto formale delle prescrizioni del livello della pianificazione sovraordinata (che forse non è più corretto definire tale) quanto il rispetto dei criteri, delle condizioni, degli obiettivi e delle strategie che il Legislatore regionale in generale e i Comuni nei territori di rispettiva competenza intendono raggiungere (3).

L’adozione del criterio della compatibilità/coerenza e la valorizzazione del principio di consensualità tramite l’introduzione dell’istituto dell’Accordo consentono inoltre di evitare il ricorso allo strumento della “Variante”, permettendo così di disciplinare l’utilizzo del territorio, tenendo conto delle esigenze reali di trasformazione urbanistica ed edilizia.

Con l’ adozione di questi nuovi principi, il ruolo stesso del Comune è destinato a mutare: esso è oggi chiamato ad un ruolo meno di “governo” e di “regolazione autoritativa” delle trasformazioni (come avveniva con la pianificazione tradizionale), a favore di un ruolo più di “promotore” e di “regista” delle trasformazioni stesse, ovvero a stabilire se ed in quale misura una proposta di Accordo (Operativo) presentata dal privato possa ritenersi conforme ai criteri, alle condizioni, agli obiettivi da esso fissati nel PUG.

Un ruolo diverso, a cui i Comuni dovranno farsi trovare preparati.

  1. La cd. discrezionalità tecnica e il nuovo ruolo degli Enti tecnici. Il ridimensionamento del ruolo degli Enti “politici”.

Nel quadro normativo delineato dalle nuove Leggi regionali, l’introduzione del principio di competenza e del sistema di pianificazione territoriale ed urbanistica per obiettivi viene accompagnato da un indubbio aumento dell’importanza delle cd. <valutazioni tecniche>.

Basti pensare, con riferimento all’ esperienza dell’ Emilia – Romagna, all’importanza delle valutazioni tecniche rese in sede di Strategia Regionale di Sviluppo Sostenibile, di Strategia per la qualità urbana ed ecologico-ambientale del PUG e, soprattutto alla VAS/Valsat dei singoli Piani e Accordi Operativi.

In quest’ottica si giustificano altresì, nel procedimento unico di approvazione del PUG e dei Piani Territoriali, la consultazione preliminare di ARPAE, da parte della Regione, Città Metropolitana e Province per la valutazione ambientale del PTR, PTM e dei PTAV (cfr. art. 19, c. 3, L.R. n. 24/2017). e dei soggetti competenti in materia ambientale, nonché l’espressione del parere di sostenibilità ambientale e territoriale da parte del Comitato Urbanistico (CU) a norma degli artt. 46, c. 2 e c. 4, e 47 della L.R. n. 24/2017.

Tali elementi consentono di introdurre un ulteriore elemento di rilievo e cioè l’aumento del “peso” delle valutazioni tecniche in materia, che ha determinato il parallelo accrescimento dell’importanza del ruolo assunto dalle Autorità tecniche chiamate a fornirle.

Nel sistema della L.R. Emilia- Romagna n. 24/2017 questo fenomeno può essere osservato in particolare in merito alla composizione dei “Comitati Urbanistici” (CU), ai quali è assegnato il compito di realizzare un controllo preventivo di coerenza e compatibilità del Piano particolarmente penetrante dal momento che il parere che il Comitato ha il potere-dovere di esprimere, oltre ad essere vincolante, è anche in grado di condizionare l’approvazione e la conseguente entrata in vigore del Piano, producendo l’effetto di costringere l’Organo consiliare ad apportare le dovute revisioni.

Rinviando al paragrafo successivo per la disamina del ruolo e delle competenze di detti Comitati, va subito evidenziato che all’interno dei diversi Comitati Urbanistici sono chiamati a partecipare i <rappresentanti unici> di diverse Amministrazioni dotate di discrezionalità tecnica quali l’Agenzia per la prevenzione, l’ambiente e l’energia (ARPAE), l’Ausl, le Soprintendenze, le Autorità distrettuali di Bacino, gli enti di gestione dei parchi regionali od interregionali ed altri ancora.

Tra le amministrazioni indicate, l’ARPAE pare svolgere un ruolo di primo piano nell’ambito della pianificazione territoriale ed urbanistica (4).

L’art. 44 della L.R. Emilia – Romagna n. 24/2017 prevede infatti l’obbligo per l’ARPAE di partecipare alla consultazione preliminare, nella quale il suo apporto non si esaurisce nel mettere gratuitamente a disposizione dell’amministrazione procedente i dati e le informazioni conoscitive in suo possesso, ma giunge sino al punto di formulare “proposte” in merito ai contenuti di piano illustrati e alla definizione della portata e del livello di dettaglio delle informazioni da includere nel documento di VAS/Valsat.

Inoltre bisogna considerare che l’ARAPE può incidere anche nella fase finale del procedimento di approvazione dei Piani, dal momento che essa partecipa – sia pure con voto consultivo – ai lavori del Comitato Urbanistico (CU) competente (5), deputato ad esprimere un parere motivato sui Piani oggetto del procedimento d’approvazione avente natura vincolante (cfr. art. 6 della D.G.R. n. 954/2018).

Questo significa che ARPAE è in grado di poter verificare se ed in quale misura l’amministrazione procedente ha recepito gli apporti collaborativi e le proposte da essa formulate in sede di consultazione preliminare.

Diviene quindi fondamentale interrogarsi su quale sia il peso del voto consultivo che ARPAE può esprimere nell’ambito del CU.

Come la concreta esperienza dei primi tempi evidenzia, esso è destinato a condizionare fortemente le scelte che devono essere espresse dai membri dei Comitati Urbanistici (e cioè dai rappresentanti unici che devono esprimere l’intesa sul piano a norma degli artt. 47, c. 1, lett. d), 51, c. 4, 52, c. 4, della L.R. n.. 24/2017): infatti gli aspetti sui quali il parere deve vertere non riguardano soltanto profili di discrezionalità amministrativa, ma richiedono altresì competenze, conoscenze e valutazioni di natura tecnico-scientifica che difficilmente sono possedute – quantomeno in misura analoga – dagli altri componenti del CUR, CUM, CUAV i quali, stando alle delibere di nomina sinora approvate, sono generalmente individuati tra coloro che fanno parte degli Organi d’indirizzo politico delle amministrazioni interessate (6), con la conseguenza che le valutazione dell’ ARPAE finiscono inevitabilmente per influenzare in maniera significativa le scelte dei membri dei CU.

Se tale osservazione è fondata, ciò pone un ulteriore problema e cioè quello della <legittimazione> di ARPAE allo svolgimento della funzione consultiva ad essa attribuita dalla L.R. n. 24/2017, dal momento che essa riveste un ruolo all’interno del Comitato Urbanistico di importanza tale da porsi potenzialmente in contrasto con l’esigenza di garantire che le scelte che costituiscono espressione di discrezionalità amministrativa siano assunte dagli (e prerogativa degli) Enti che traggono la propria legittimazione direttamente dal Corpo elettorale.

Ciò finisce per attribuire ad ARPAE un ruolo in seno al Comitato Urbanistico così rilevante e potenzialmente suscettibile, per mezzo del voto consultivo, di condizionare fortemente gli aspetti di discrezionalità amministrativa del parere motivato che il CU deve rendere (7).

Non si può nascondere allora che tale scelta pone qualche dubbio circa il rispetto dell’ art. 118 Cost., a norma del quale le funzioni amministrative che tipicamente richiedono valutazioni di carattere discrezionale, come quelle in materia di pianificazione territoriale ed urbanistica, devono essere affidate agli Enti territoriali in quanto deputati a rappresentare tutti gli interessi della Collettività da essi amministrata.

Basandosi proprio su questo assunto, la Corte Costituzionale ha recentemente (cfr.la importante pronuncia della Corte Cost. n. 132/2017) riconosciuto l’illegittimità costituzionale di una legge regionale che aveva previsto il coinvolgimento di un’Agenzia (anch’essa un’ARPA), originariamente titolare soltanto di attività di natura tecnico-scientifica, anche in attività di “amministrazione attiva”.

Infatti esse, costituendo espressione di discrezionalità amministrativa in senso proprio, comportano una ponderazione degli interessi coinvolti e devono quindi essere riservate esclusivamente alla competenza degli Enti facenti parte del circuito politico-rappresentativo, in quanto soltanto questi sono in grado di rappresentare tutti gli interessi riferibili al territorio.

D’altronde occorre tenere presente che le Agenzie si caratterizzano per il fatto di godere (giustamente) di un’autonomia dagli Enti ai cui poteri d’indirizzo e di vigilanza sono sottoposte (di regola un Ministero od una Regione) volta a garantire il rispetto dei criteri operativi di carattere tecnico-scientifico ai soli quali devono attenersi nello svolgimento delle proprie funzioni, mettendole al riparo da indebite interferenze e/o influenze da parte degli Organi politici.

Non vi è dubbio però che, anche sotto questo versante, il ruolo fondamentale che le valutazioni tecniche operate da queste Agenzie svolgono nel processo decisionale e l’ influenza dominante che esse finiscono per rivestire, finiscono per svuotare significativamente  la concreta possibilità  che le scelte rappresentino (come vorrebbe il Giudice amministrativo) l’ “autorappresentazione ed autodeterminazione – della Comunità medesima, attraverso le decisioni dei propri organi elettivi

  1. Il ruolo dei Comitati Urbanistici e la (opinabile) lettura “paritaria” dei loro compiti e funzioni.

Va inoltre evidenziato che – nonostante la nuova Legge regionale Emilia – Romagna n. 24/2017 affermi che il sistema della pianificazione è ora retto dal nuovo principio di “competenza” – una nuova (e celata) “gerarchia” rischia di (ri)emergere profondamente (e surrettiziamente) nella disciplina dell’ operato dei Comitati: nel Comitato Urbanistico Metropolitano (CUM) e nel Comitato Urbanistico di Area Vasta (CUAV).

La Regione (in un recente parere) (8) afferma che si tratta di un Organo collegiale (con ciò che ne potrebbe conseguire in termini di alterazione nel sistema delle <competenze>) e che, nonostante la Legge regionale lo qualifichi come “parere”, la sua manifestazione di volontà avrebbe natura “provvedimentale”.

In sostanza come si afferma nel parere della Regione già citato:

(il Comitato) “concorre in una posizione di pari-ordinazione a determinare il contenuto del piano in itinere”.

L’ affermazione, nella sua sinteticità, è estremamente chiara.

Il Comitato (in cui è bene ricordarlo, il Comune è in una posizione di “minoranza”, dato che è solo uno dei tre soggetti) concorre in una posizione di “pari-ordinazione” a determinare “il contenuto” (tutto il contenuto, e non solo gli aspetti di rilievo sovracomunale) del Piano in itinere.

Ciò significa che il potere di pianificazione – anche per aspetti esclusivamente di rilievo “comunale” – viene sottoposto al previo vaglio di un Organo collegiale, di cui il Comune costituisce uno solo (ed in posizione di minoranza) dei componenti.

Si tratta di comprendere se tale ricostruzione (dei poteri, delle funzioni e delle competenze) risulti legittima.

Il Giudice Amministrativo, in una recente sentenza (la nota sentenza n.  5711/2017) ha affermato chiaramente che:

non è consentito all’ente titolare del potere di approvazione del piano regolatore, al di fuori delle ipotesi connotate dalla prevalenza di tutela di interessi superiori, modificare in modo sostanziale i contenuti della disciplina urbanistica, frutto della scelta della comunità di riferimento e, per questo, espressione della riserva di attribuzione democratica assistita dal principio di sussidiarietà.(…)

Ed ancora:

i limiti del potere regionale di approvazione risiedono nella evidenza per cui una scelta di pianificazione di segno diametralmente opposto a quella voluta dal Comune in sede di variazione dello strumento urbanistico generale non può che competere all’Ente locale, prevedendo la legge invece, in capo alla Regione, potestà più ridotte, mera espressione del potere regionale di partecipazione alla formazione dell’atto a complessità diseguale di pianificazione generale” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20 maggio 2014, n. 2563).

Pertanto, il Giudice amministrativo conclude affermando che:

Sarebbe quindi illegittimo un atto amministrativo di matrice regionale che si sostituisse alle determinazioni comunali con riferimento a scelte discrezionali” (Cds., sez. IV, 5711/2017).

Si tratta, in realtà, di quello che rischia concretamente di verificarsi nell’ esperienza dell’  Emilia – Romagna, con il Comitato legittimato a co-decidere (e, per di più, trattandosi di un Organo collegiale, “a maggioranza”) quale debba essere il contenuto del Piano e non solo con riferimento alla tutela di aspetti di rilievo sovracomunale, ma anche con riferimento ad aspetti che – da sempre – sono risultati di esclusivo appannaggio dell’ Ente esponenziale della Comunità locale di riferimento, in quanto “espressione della riserva di attribuzione democratica assistita dal principio di sussidiarietà.”.

  1. Il ruolo del Comune nelle conferenze di servizi e nei cd. “procedimenti speciali”

La scelta di comprimere oltre il dovuto le prerogative degli enti territoriali appare ancora più preoccupante se si considera che questa tendenza è stata recentemente fatta propria da una decisione di portata nazionale.

La Sezione Prima del Consiglio di Stato, con l’ importante Parere del 25 settembre 2019,  n. 2534, ha risposto alla richiesta proveniente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri  (9), relativa alla legittimazione dei Comuni partecipanti a conferenze di servizi e che avessero espresso il loro dissenso, a proporre <Opposizione> avverso la determinazione conclusiva della conferenza di servizi, ai sensi dell’art. 14-quinquies della l. 241/1990, giungendo ad escludere che l’ Ente Locale possa avvalersi di questo particolare mezzo di tutela.

Come noto, l’art. 14-quinquies della l. 241/1990 stabilisce che:

Avverso la determinazione motivata di conclusione della conferenza, entro 10 giorni dalla sua comunicazione, le amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini possono proporre opposizione al Presidente del Consiglio dei ministri a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza”.

A prima vista, secondo il Consiglio di Stato, si potrebbe essere indotti a pensare che il Comune rientri pacificamente all’interno di questo genere di amministrazioni; tuttavia esso precisa che un siffatto potere di opposizione non può rinvenire un adeguato fondamento nella generale competenza del Comune, quale Ente esponenziale della collettività rappresentata, a “tutelare” tutti gli interessi ad essa facenti capo.

Il Consiglio di Stato ritiene infatti, mediante un’interpretazione letterale e logico-sistematica della Legge, che sia necessaria un’apposita “preposizione”, con norma speciale, all’esercizio di funzioni eminentemente tecnico-scientifiche di tutela di quegli interessi sensibili indicati dall’art. 14-quinquies della l. 241/1990. Questa conclusione si legittimerebbe anche dalla lettura dell’art. 17, c. 2, della l. 241/1990, relativo alle valutazioni tecniche, laddove viene utilizzato il medesimo participio (“preposte”) impiegato dall’art. 14-quinquies.

Inoltre il Consiglio di Stato osserva che di regola i Comuni non sono titolari nella legislazione “di settore” di funzioni di tutela di tali interessi sensibili, essendo queste devolute a livelli superiori di governo, in base ai criteri di differenziazione ed adeguatezza sanciti dall’art. 118 Cost. al fine di assicurarne l’esercizio unitario.

Peraltro questa “preposizione” è tale da non essere soddisfatta da una mera norma di attribuzione o di delega di funzioni di tutela in quanto tali, occorrendo invece che tali funzioni si concretizzino ed esprimano attraverso la pronuncia di pareri tecnici, potenzialmente ostativi e non surrogabili, o di atti di assenso comunque denominati potenzialmente impeditivi dell’approvazione del progetto di intervento in conferenza di servizi.

Com’è facile comprendere la decisione del Consiglio di Stato è destinata inevitabilmente a fare discutere, dal momento che essa comporterebbe l’impossibilità per il Comune, quale livello di governo più vicino al Cittadino, di poter attivare il particolare meccanismo di “opposizione” sopra indicato.

Lo stesso Consiglio di Stato sembra essere ben consapevole dell’importanza di questo parere, avvertendo che occorre comunque verificare caso per caso se la legge nazionale o regionale (a seconda della materia considerata) non attribuisca alcune competenze di tutela ai Comuni per poter escludere la legittimazione a proporre l’opposizione e ricordando che il Comune, quale partecipante alla conferenza di servizi, è comunque legittimato ad agire in giudizio per l’annullamento della conclusione favorevole della conferenza di servizi qualora la ritenga affetta da illegittimità per violazione di legge e/o per eccesso di potere causato dall’erroneo uso della discrezionalità tecnica.

Al di là delle conseguenze di questa specifica questione, ciò che preme sottolineare è il fatto che essa dimostra come anche a livello nazionale si assista ad un costante ed inesorabile rafforzamento del ruolo e dell’importanza degli enti deputati a fornire valutazioni di natura tecnico-scientifica, ciò che suscita più di una perplessità circa la legittimazione democratica dell’azione dei medesimi soprattutto quando, come in questo caso, le loro valutazioni sono considerate più rilevanti e destinate ad imporsi rispetto a quelle che derivano da Enti (come i Comuni)  che hanno invece un’investitura popolare diretta.

Il Consiglio di Stato presuppone infatti che la discrezionalità tecnica che le amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili esprimono mediante i propri pareri od atti di assenso comunque denominati sia da ritenere dotata di una dignità e/o di un’importanza sostanzialmente superiore alla discrezionalità amministrativa espressa invece da Enti “politici” come i Comuni, tale per cui la prima dovrebbe prevalere sulla seconda.

Tale impostazione viene esplicitamente manifestata dal Consiglio di Stato, laddove esso afferma che:

“tali poteri sindacali e comunali (…), in presenza di competenze statali e regionali fondate su titoli speciali di attribuzione normativa di tutela ambientale, devono ritenersi recessivi rispetto ai pareri e agli atti di assenso o di diniego provenienti dalle autorità tecniche”, riconoscendo “la prevalenza della competenza tecnica rimessa dalla norma speciale all’autorità decidente o ad altre autorità tecniche chiamate ad esprimersi in sede di conferenza di servizi (ARPA, ASL, Vigili del fuoco)” ad esempio rispetto alle competenze attribuite al Sindaco del Comune dagli artt. 216-217 del Testo unico delle leggi sanitarie (10).

Nell’Ordinamento tuttavia manca una regola di carattere generale, sia essa un principio fondamentale dell’Ordinamento od una norma costituzionale od europea che imponga di “preferire” la discrezionalità tecnica alla discrezionalità amministrativa.

Né tale conclusione può legittimarsi per il fatto che le principali ipotesi legislative richiamate dal parere del Consiglio di Stato (art. 17 della L. n. 241/1990; art. 29-quater del D. Lgs. n. 152/2006) sembrano suscettibili di poter confortare un simile assunto, dal momento che esse dimostrerebbero soltanto il rispetto del principio di legalità (11).

Inoltre – e questa costituisce la vera ragione per la quale si ritiene di non condividere la posizione espressa dal Consiglio di Stato – il ragionamento compiuto dal supremo giudice amministrativo comporta sostanzialmente l’attribuzione di un ruolo di “amministrazione attiva” alle autorità tecniche che intervengono nell’ambito della conferenza di servizi, dal momento che le valutazioni che costituiscono espressione di discrezionalità amministrativa fornite dai Comuni sono destinate invariabilmente a soccombere davanti ai pareri resi dalle prime, che costituiscono quindi l’unico reale fondamento delle determinazioni conclusive.

A tale proposito si può ulteriormente obiettare che una ricostruzione di questo genere non tiene affatto in considerazione che proprio nelle conferenze di servizi che hanno ad oggetto impianti od opere da autorizzare le amministrazioni partecipanti fanno esercizio di discrezionalità “c.d. mista”, la quale implica tanto apprezzamenti tecnici quanto valutazioni comparative tra due o più scelte, tecnicamente corrette, al fine di scegliere quella che massimizza l’interesse pubblico primario determinando il minor sacrificio possibile agli altri interessi, pubblici o privati, coinvolti.

E’ infatti evidente, ad esempio nel caso dell’autorizzazione all’apertura di un impianto di trattamento di rifiuti, che sono compiuti sia giudizi tecnici sia scelte discrezionali, come quella relativa al luogo, tra quelli tecnicamente idonei, destinato ad ospitare l’impianto medesimo.

Come si evince da quest’esempio, tali scelte non sono irrilevanti ai fini della tutela degli interessi sensibili indicati dall’art. 14-quinquies potendo determinare una maggiore o minore compromissione dei medesimi.

Se tuttavia la <determinazione conclusiva> della conferenza deve basarsi solo sui pareri tecnici resi dalle competenti Autorità, allora ne consegue che viene meno lo spazio per una ponderazione comparativa dell’interesse primario da curare con tutti gli altri interessi pubblici e privati ad esso collegati.

L’interpretazione dell’art. 14-quinquies della l. 241/1990 resa dal Consiglio di Stato pare allora profilare una irragionevole disparità di trattamento tra gli Enti ammessi ad opporre il dissenso ed i Comuni, che si pone probabilmente in violazione dell’art. 118 Cost.

Questo non solo perché essa implicitamente riconosce ad Autorità tecniche un ruolo di “amministrazione attiva”, ma soprattutto perché, nell’escludere la possibilità per i Comuni di esprimere il proprio dissenso attivando il particolare procedimento delineato dalla norma sopra indicata, non considera che gli interessi sensibili da essa elencati possono essere in concreto tutelati anche mediante valutazioni frutto di discrezionalità amministrativa.

  1. Conclusioni.

Come si ritiene di aver dimostrato – con riflessioni forse non del tutto organiche e talvolta frammentarie – non pare però dubbio che lo spazio decisionale riservato all’ Ente esponenziale della Comunità locale insediata sul territorio (e cioè il Comune) appare progressivamente destinato a ridursi ed assottigliarsi, per la concomitante azione di più fattori.

La cd. “consensualità necessaria”, il rinnovato ruolo della Regione nel farsi “garante” del contenimento del consumo di suolo, il crescente peso assegnato alle valutazioni tecniche e di “sostenibilità” e, infine, potremmo dire, un certo qual grado di insofferenza nei confronti di tutto ciò che può rallentare l’ operatività dei nuovi meccanismi decisionali come la conferenza di servizi, ritenuti oggi lo strumento più idoneo per garantire decisioni celeri ed efficaci, sono tutti “indicatori” di tale innegabile tendenza.

Tutto ciò però a scapito del ruolo fondamentale che da sempre (e giustamente) il nostro Ordinamento assegna al Comune, Ente “esponenziale” delle Comunità locali, posto che il tratto veramente distintivo e qualificante (anche sotto il profilo storico) del nostro Paese è quello di essere l’ “Italia dei Comuni” (degli quasi ottomila Comuni), come dimostra  anche l’ importanza e la “legittimazione” dei Primi cittadini, eletti direttamente dai cittadini e il radicamento ed il legame dei cittadini nei confronti del proprio Comune di appartenenza.

Anche sotto un profilo squisitamente giuridico, tale tendenza appare non corretta ed in palese violazione di più norme della nostra Costituzione, perché rischia di intaccare quel <nucleo minimo> di potestà amministrativa che dovrebbe risultare incomprimibile come stabilito dagli art. 114, 117, 118 e 128 della Costituzione, ma anche dalla Legge n. 135/2012, in tema di “Funzioni fondamentali” dei Comuni .

D’ altronde, in numerose pronunce della Corte Costituzionale (si veda, ad esempio, la sentenza 83/1997), si afferma chiaramente che:

il potere dei Comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le Regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica, siano libere di compiere. Si tratta invece di un potere che ha il suo diretto fondamento nell’art. 128 della Costituzione, che garantisce, con previsione di principio, l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse Regioni, la cui competenza nelle diverse materie elencate nell’art. 117, e segnatamente nella materia urbanistica, non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei Comuni”.

Ci sembra che oggi, questo potere di autodeterminarsi sia in gran parte minacciato e/o vanificato, per essere “ricollocato” in Sedi decisionali diverse, che non hanno la medesima legittimazione né sotto il profilo storico, né sotto quello politico/democratico né (infine) sotto quello giuridico.

 

 

1)  Come abbiamo già scritto, nel Piano, le relazioni sono “multipolari” (essendo molteplici gli interessi implicati), ma l’ interesse pubblico è sempre destinato a prevalere. Infatti mentre il Piano è un’ “ordinata spaziale e temporale” di un oggetto (in questo caso il territorio), al fine del raggiungimento di un obiettivo  stabilito dall’ Amministrazione (attraverso gli Organi a ciò deputati), l’ Accordo è l’ incontro di due volontà, una pubblica e una privata, che hanno scopi e obiettivi profondamente diversi (la volontà privata è – per definizione – “egoistica”, cioè orientata al profitto).  Il Piano è uno strumento di razionalizzazione e di garanzia di imparzialità, perché dispone in modo preventivo e generalizzato, ma con un “fine”, un obiettivo. E’ anche uno strumento che offre (sempre in un’ ottica di imparzialità, trasparenza, parità di trattamento) – in via generale e preventiva – lo “status” del territorio, cioè le regole delle trasformazioni. Presenta molte analogie con il <procedimento amministrativo>, perché è lo strumento che – fino ad ora – il Legislatore nazionale ha individuato come strumento ottimale per operare la “sintesi” e il “contemperamento” dei molteplici interessi implicati nel governo del territorio.  Pertanto, senza enfasi, si può dire che il Piano è la traduzione concreta del principio di “democraticità” nel governo del territorio, nel senso che tutti i diversi interessi vengono raccolti e il Piano ne fa sintesi in vista di un obiettivo che è stabilito dalla maggioranza consiliare democraticamente eletta.  L’ Accordo, viceversa, si fonda su di una struttura che è sostanzialmente paritaria e bilaterale, su di un preciso “sinallagma” (cioè su di un rapporto di interdipendenza tra una prestazione ed una controprestazione) ed ad esso sono applicabili, in quanto compatibili, i principi in materia di obbligazioni e contratti (la disciplina dell’ inadempimento, ad esempio).  Parafrasando un celebre proverbio cinese, si tratta, cioè di istituti che vivono sotto “Cieli diversi”, dove gli orizzonti e le regole di riferimento sono notevolmente diversi.

2) STELLA RICHTER P., I principi del diritto urbanistico, Giuffrè, 2002, p. 144-145

3) Questi criteri, condizioni, obiettivi vanno esplicitati in particolare nella “Strategia per la qualità urbana ed ecologico-ambientale”, contenuta all’interno del PUG; ovviamente quanto maggiore sarà la specificazione degli obiettivi all’interno della strategia tanto più saranno vincolate le amministrazioni nel valutare la compatibilità della proposta di Accordo Operativo proveniente dal privato con i medesimi ed in definitiva con l’interesse pubblico. La Valsat, la Strategia e gli Accordi Operativi concorrono quindi a delineare un quadro di riferimento delle trasformazioni possibili.

4) Il ruolo dell’ARPAE sembra poter rafforzare anche l’impressione per cui, nonostante l’introduzione del principio di competenza, il peso della Regione nella formazione dei piani territoriali ed urbanistici sia particolarmente importante. L’ARPAE è infatti un’Agenzia che, sebbene dotata di autonomia, resta comunque un ente strumentale della Regione, sottoposta quindi al potere d’indirizzo e di controllo proveniente dalla Regione stessa.

5) L’art. 47, c. 2, L.R. n. 24/2017 istituisce tre diversi Comitati Urbanistici: il Comitato Urbanistico Regionale (CUR), il Comitato Urbanistico della Città Metropolitana di Bologna (CUM), il Comitato Urbanistico di Area Vasta (CUAV)

6) Si tratta dell’Assessore regionale con delega alla Programmazione territoriale e urbanistica, del Consigliere metropolitano con delega alla Pianificazione territoriale, e dei Presidenti o dei Consiglieri delegati per la Pianificazione territoriale delle Province.

7) Cfr. art. 46, c. 4, della L.R. 24/2017, dove ad esempio con riferimento alla sostenibilità ambientale e territoriale del piano il parere deve spiegare come si è tenuto conto degli obiettivi di protezione ambientale e di qualità urbana pertinenti al piano, stabiliti dalla disciplina sovraordinata e motivare la ragionevolezza delle scelte effettuate, rispetto alle alternative individuate dal documento di VAS/Valsat.

8) Cfr. il parere della Regione Emilia-Romagna, PG/2019/0580539 del 04/07/2019.

9) Nota del Dipartimento per il Coordinamento amministrativo (DICA) 12889 del 5 luglio 2019.

10) Le affermazioni riportate sono riferite al secondo quesito sottoposto al Consiglio di Stato, relativo alla possibilità per i Comuni di manifestare il proprio dissenso ex art. 14-quinquies nel procedimento volto al rilascio dell’A.I.A., il quale “rappresenta un esempio applicativo degli indirizzi sopra formulati e può agevolmente risolversi alla stregua di tali criteri interpretativi”.

11) E a tale proposito occorrerebbe chiedersi se sia sufficiente il mero rispetto del principio di legalità (e cioè che una legge attribuisca alle valutazioni frutto di discrezionalità tecnica rese da un’amministrazione una forza maggiore rispetto alle valutazioni frutto di discrezionalità amministrativa espresse da un altro ente), per ritenere rispettato anche il principio democratico e le norme costituzionali più volte richiamate.