INCONDONABILITÀ DELLE COSTRUZIONI ABUSIVE IN ZONE VINCOLATE E INTERFERENZE CON IL DIRITTO ALLA CASA FAMILIARE di Luigi Aniballi.

-Cass. Pen., Sez. III, 20 gennaio 2021, sent. n. 2282- Sentenza

Con la sentenza numero 2282 del 20 gennaio 2021 la Terza Sezione della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in merito ai limiti di applicabilità del c.d. “Terzo Condono” (Legge n. 326 del 2003) ed al rapporto tra il diritto alla inviolabilità del domicilio, sancito dall’art. 8 della CEDU, e l’ordine di demolizione di un immobile abusivo.

Nella fattispecie in esame era stato proposto ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale di Velletri – in funzione di giudice dell’esecuzione – di rigetto dell’istanza di revoca e/o sospensione della ingiunzione a demolire emessa nei confronti del ricorrente dalla competente Procura della Repubblica in applicazione della pena relativa al precedente processo per i reati di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. c); L. n. 64 del 1974, artt. 17, 18 e 20; L. n. 1086 del 1971, artt. 2, 4, 7, 13, 14 e 17; D. Lgs. n. 490 del 1999, art. 163 e art. 349 c.p., comma 2.

In particolare, con il primo motivo di gravame il ricorrente aveva dedotto la mancanza di motivazione e la violazione dell’art. 117 Cost. e dell’art. 32, co. 25 e 26, L. n. 326 del 2003 (c.d. Terzo Condono). A sostegno di ciò, aveva addotto la perdurante pendenza della richiesta di condono edilizio che era stata formulata ai sensi dell’art. 9 della L. R. Lazio n. 12, recante i criteri per il recupero urbanistico degli insediamenti edilizi abusivi sorti spontaneamente. Secondo la tesi di parte, sul punto il giudice dell’esecuzione si sarebbe limitato a rilevare la presenza del vincolo paesaggistico e ambientale nell’ambito territoriale di riferimento.

Con il secondo motivo di ricorso, invece, aveva eccepito che l’ordine di demolizione violava palesemente l’art. 8 della Convenzione EDU e i principi affermati dalla Corte di Strasburgo con la sentenza 21 aprile 2016, Ivanova e Cherzekov contro Bulgaria poiché avrebbe privato il ricorrente della propria casa familiare, interferendo illegittimamente con il suo diritto all’abitazione.

Nessuno di tali motivi è stato ritenuto meritevole di accoglimento da parte del Collegio poiché riscontrati come manifestamente infondati alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi in merito ad entrambe le questioni di diritto sollevate dal ricorrente.

In primo luogo, infatti, la Terza Sezione ha rilevato che l’operato del Tribunale si era svolto in piena conformità con l’orientamento giurisprudenziale che, in presenza di domande di sanatoria, riconosce al giudice dell’esecuzione un ampio potere-dovere di controllo sulla sussistenza dei presupposti di forma e di sostanza ai fini del corretto esercizio del potere di condono. Pertanto, l’ordinanza impugnata trovava legittimo fondamento nella non-condonabilità dell’abuso edilizio perché insistente in zona vincolata.

Inoltre, tale ultima determinazione teneva conto di un ulteriore indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato e condiviso dal Collegio, richiamato nei relativi passaggi essenziali. In particolare, con riferimento al condono edilizio introdotto con la l. n. 326 del 2003, si è ripetutamente affermato in via pretoria che la realizzazione di nuove costruzioni prive di titolo edilizio in aree assoggettate a vincolo paesaggistico non è suscettibile di sanatoria (v. tra le più recenti, Sez. 3 n. 26524 del 24/6/2020, Carbone, non massimata; Sez. 3, n. 40676 del 20/5/2016, Armenante, Rv. 268079; Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, Rv. 246759, nonché ex. pl. Sez. 3, n. 35222 del 11/4/2007, Manfredi e altro, Rv. 237373; Sez. 3, n. 38113 del 3/10/2006, De Giorgi, Rv. 235033; Sez. 4, n. 12577 del 12/1/2005, Ricci, Rv. 231315).

Il filone in questione – nell’ambito del quale la Corte ha anche avuto modo di confutare dettagliatamente le posizioni dottrinarie che avevano prospettato una interpretazione più permissiva delle disposizioni di interesse – trova inequivocabile riscontro anche nella Relazione governativa al D.L. n. 269 del 2003, a discapito delle diverse circolari interpretative di segno opposto (nella specie, la circolare ministeriale n. 2699 del 7 dicembre 2005 con la quale veniva riconosciuta la condonabilità delle nuove costruzioni a destinazione non residenziale, esclusa invece dalla L. n. 326 del 2003, art. 32). Ha ricordato il Collegio, infatti, come “la circolare interpretativa sia atto interno alla pubblica amministrazione e si risolva in un mero ausilio interpretativo, non esplicando, quindi, alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo”.

Un ulteriore ed autorevole avallo della tesi propugnata dagli ermellini è nel tempo giunto anche da parte della Corte costituzionale, che – con ordinanza n. 150 del 2009 – ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 32, comma 26, lett. a), sollevata dal Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, riguardo alla condonabilità limitata ai soli “abusi minori” nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico secondo l’interpretazione, criticata dal giudice remittente, data con la menzionata sentenza n. 6431/2007 della Corte di Cassazione. Nel testo dell’ordinanza del giudice costituzionale si legge, infatti, che “l’interpretazione tracciata dalla Corte di cassazione, nelle molteplici sentenze in materia (e non nella sola sentenza considerata), appare del tutto conforme alle lettera della disposizione impugnata”.

Esclusa pertanto ogni possibilità di sanatoria ai sensi della legislazione statale, il Collegio ha, poi, ritenuto priva di rilievo l’argomentazione del ricorrente secondo cui la richiesta di condono era stata presentata anche con riferimento alla Legge Regionale del Lazio n. 12 del 2004. La disciplina regionale, infatti, vieta parimenti la condonabilità degli abusi edilizi ricadenti in zona vincolata, allineandosi perfettamente a quella nazionale (cfr. Tar Lazio, Sez. II-bis, 9 marzo 2020, sent. n. 3057, con richiami anche ai precedenti); inoltre, “secondo quanto, in maniera condivisibile, è stato affermato dalla giurisprudenza amministrativa, la L. n. 47 del 1985, art. 29 nella parte in cui comprende l’adozione e l’approvazione di varianti agli strumenti urbanistici finalizzate al recupero urbanistico degli abusi, si riferisce agli insediamenti abusivi, con ciò intendendosi i nuclei di espansione di edilizia abitativa di una certa consistenza, cui si correla la difficoltà sociale di un ripristino generalizzato, e non alle situazioni di diffusione sul territorio rurale di piccoli abusi, ciò in quanto, la ratio della norma non è quella di imporre alle Regioni e alle Amministrazioni comunali, in sede di adozione e approvazione delle varianti generali agli strumenti urbanistici, l’obbligo di considerare gli insediamenti abusivi a fini del recupero, bensì quella di affiancare una speciale tipologia di variante a quelle già contemplate dall’ordinamento urbanistico, demandando alle Regioni la disciplina di dettaglio (così T.A.R. Puglia – Lecce Sez. 3, n. 625 del 12/4/2012)”.

Analogo giudizio di inammissibilità ha, poi, sortito anche il secondo motivo ricorso. La questione posta dal ricorrente, infatti, non è affatto nuova, essendosi la Terza Sezione già pronunciata in casi sostanzialmente identici ed affermando principi che il Collegio ha ritenuto di condividere e ai quali ha dato continuità (in particolare, Cass. pen. Sez. III 06 maggio 2016, n. 18949; id. 24 marzo 2017, n. 14484; id 08 aprile 2019, n. 15141; id 20 agosto 2019, n. 36257; id 26 novembre 2019, n. 48021; id 13 gennaio 2020, n. 844; id 24 febbraio 2020, n. 7232, tutte diffusamente richiamate nel corpo della sentenza).

In effetti, con le richiamate pronunce la stessa Corte di Cassazione aveva già marcato i confini operativi della decisione della Corte EDU nel caso Ivanova e Cherkezov contro Bulgaria citata nel ricorso.

Al riguardo, la Sezione è ferma nel sostenere che l’art. 8 CEDU non riconosce alcun diritto assoluto ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare; né tantomeno può ritenersi che un simile diritto sia desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In vero, l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato ed a ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio violato e non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio tutelato dalla convenzione EDU.

Ciò che, invece, è stato dichiarato indefettibile dai giudici di Strasburgo è una valutazione, caso per caso, circa la possibilità che un provvedimento possa ritenersi giustificato in considerazione delle ragioni espresse dal destinatario al fine di bilanciare il diritto del singolo alla tutela dell’abitazione contrapposto all’interesse dello Stato ad impedire l’esecuzione di interventi edilizi in assenza di regolare titolo abilitativo.

In altri termini, ha precisato il Collegio, il corretto precipitato della pronuncia in questione è che “deve essere il giudice a dover stabilire, tenuto conto delle circostanze del caso concreto dedotte dalle parti, se demolire la casa di abitazione abusivamente costruita sia “proporzionato” rispetto allo scopo, riconosciuto peraltro legittimo dalla Corte EDU, che la normativa edilizia intende perseguire prevedendo la demolizione”.

Nella specifica vicenda esaminata, considerato che il ricorrente si era limitato a sostenere di aver realizzato la costruzione abusiva e di averla destinata a sua unica residenza fin dalla sua costruzione (peraltro palesemente smentita da quanto affermato nell’ordinanza impugnata), il Tribunale ha correttamente ritenuto non adeguatamente dimostrato l’asserito stato di necessità sotteso all’abuso edilizio.