Il requisito di ultimazione dell’opera in caso di condono, di Fabio Cusano

Con sentenza 22 settembre 2023, n. 8469, il Consiglio di Stato, sez. VI, ha ribadito che in tema di condono edilizio, il legislatore (cfr. art. 39, comma 1, L. 724/1994 in combinato disposto con art. 31, L. 47/1985) prevede due criteri alternativi per la verifica del requisito dell’ultimazione, rilevante ai fini del rilascio del condono: si tratta del criterio “strutturale”, che vale nei casi di nuova costruzione; e del criterio “funzionale”, che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti oppure di manufatti con destinazione diversa da quella residenziale. Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici ultimati, si intendono quelli completi almeno al rustico, espressione con la quale si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili. La nozione di completamento funzionale implica, invece, uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini l’organismo edilizio, non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planivolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno), ma anche una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.

In termini generali, deve osservarsi che è tassativamente impedita la modificazione delle opere oggetto della domanda di condono, se non con l’osservanza delle cautele previste dall’art. 35 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, il quale disciplina le modalità e le condizioni in base alle quali è consentito al presentatore dell’istanza di sanatoria di completare, sotto la propria responsabilità e a proprio rischio, i manufatti abusivi (la disposizione prevede che, «decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda e, comunque, dopo il versamento della seconda rata dell’oblazione, il presentatore dell’istanza di concessione o autorizzazione in sanatoria può completare sotto la propria responsabilità» le opere oggetto della domanda; a tal fine, «l’interessato notifica al Comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione»).

Al di fuori della predetta ipotesi resta fermo che, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (pur se riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche d’illiceità dell’opera abusiva cui ineriscono strutturalmente.

Qualora il soggetto che ha presentato la domanda di condono abbia realizzato opere non di rifinitura ma nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto della richiesta di sanatoria, le stesse andranno considerate, ai fini sanzionatori, come ‘autonomamente’ abusive.

La realizzazione di interventi ulteriori non giustifica, di per sé, il diniego del condono, a meno che, avendo inciso in modo radicale sullo stato dei luoghi, rendano impossibile all’Amministrazione di valutare la consistenza delle opere abusive originarie.

Su queste basi, il presupposto logico-necessario per l’accoglimento dell’istanza di completamento delle opere abusive da condonare, è che queste ultime siano state ultimate, altrimenti si consentirebbe (con la stratificazione dell’intervento successivo e l’occultamento dell’illecito preesistente) la surrettizia elusione della barriera temporale per l’applicazione della sanatoria straordinaria.

Nel caso di specie, la polizia municipale, all’esito del sopralluogo, ha accertato che i lavori eseguiti dall’istante non risultavano congrui rispetto a quanto dichiarato e documentato nella perizia tecnica allegata alla pratica.

In sostanza, i pretesi lavori di completamento tali non erano, perché il manufatto abusivo non era stato neppure ultimato, trattandosi di una struttura in cemento armato senza tamponatura.

Il legislatore (cfr. l’art. 39, comma 1, della legge n. 724 del 1994 in combinato disposto con l’art. 31 della legge n. 47 del 1985) prevede due criteri alternativi per la verifica del requisito dell’ultimazione, rilevante ai fini del rilascio del condono: si tratta del criterio «strutturale», che vale nei casi di nuova costruzione; e del criterio «funzionale», che opera, invece, nei casi di opere interne di edifici già esistenti oppure di manufatti con destinazione diversa da quella residenziale.

Quanto al criterio strutturale del completamento del rustico, per edifici «ultimati», si intendono quelli completi almeno al «rustico», espressione con la quale si intende un’opera mancante solo delle finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma necessariamente comprensiva delle tamponature esterne, che realizzano in concreto i volumi, rendendoli individuabili e esattamente calcolabili (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 16 ottobre 1998, n. 130).

La nozione di completamento funzionale implica, invece, uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini l’organismo edilizio, non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planivolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno), ma anche una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso.

Ricade in capo al proprietario (o al responsabile dell’abuso) l’onere di provare la data di ultimazione delle opere edilizie, dal momento che solo l’interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto.

Nel nuovo codice del processo amministrativo, per quanto permanga un assai ampio potere di intervento del giudice sul materiale di fatto introdotto dalle parti nel processo, la formula del metodo acquisitivo nella formazione del materiale probatorio risulta declinato in termini più rigorosi.

All’onere dell’introduzione della parte non consegue automaticamente (come postulava il metodo acquisitivo nella sua classica formulazione), il dovere di acquisizione del giudice semplicemente perché ne è stato offerto un principio di prova. Il principio dispositivo è mitigato dal metodo acquisitivo soltanto in relazione all’effettiva indisponibilità dei mezzi di prova (articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, del c.p.a.), al fine di evitare la meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova e di equilibrare in tal modo la posizione della parte privata.

Nel presente giudizio l’appellante non ha assolto all’onere probatorio su di lui gravante.

Neppure può essere invocata l’impossibilità giuridica di ultimare le opere nel termine di legge.

L’art. 43, comma 5, primo periodo della legge n. 47 del 1985, prevede che: «Possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità. Il tempo di commissione dell’abuso e di riferimento per la determinazione dell’oblazione sarà individuato nella data del primo provvedimento amministrativo o giurisdizionale».

Tale deroga ‒ dettata in favore di quei contravventori che avendo prestato ossequio ai provvedimenti amministrativi o giurisdizionali che inibivano la prosecuzione dei lavori abusivi, non sono stati posti in grado di ultimare o completare le opere entro il termine ultimo previsto dalla legge ‒ va interpretata in termini strettamente circostanziati.

Sebbene la disposizione utilizzi la più elastica nozione di ultimazione delle «strutture realizzate» ‒ e non quella di un manufatto completo almeno al rustico e privo soltanto delle finiture (come invece l’art. 31, comma 2, della legge n. 47 del 1985) ‒ la stessa non consente certo il completamento delle strutture in qualsiasi stato si trovino realizzate.

Se non si vuole stravolgere il fondamento dell’istituto e la forza prescrittiva dell’attività di repressione degli abusi edilizi (ad opera dell’autorità giudiziaria), il grado di completamento dell’opera abusiva deve essere tale da consentire di percepire la concreta fisionomia e destinazione dell’opera da sanare e da completare. La norma in questione, in altre parole, può essere invocata soltanto per eseguire interventi funzionali e accessori a quanto già costruito, mentre deve ritenersi preclusa la possibilità di sanatoria per opere il cui grado, appena iniziale, di realizzazione non consenta di riconoscerne la funzione e la configurazione generale.

Deve quindi concludersi che i locali abusivi in costruzione non avevano raggiunto un sufficiente grado di ultimazione plano-volumetrica, per entrare nel campo applicativo dell’43, comma 5, primo periodo della legge n. 47 del 1985.

In ragione dell’acclarata abusività del manufatto abusivo, l’ordine di demolizione era atto dovuto e vincolato e non necessitava di motivazione aggiuntiva rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi, dovendosi escludere l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto illecita, che il tempo non può legittimare.

L’appello, pertanto, è stato respinto.