Brevi riflessioni ed alcuni auspici sulla derogabilità delle altezze edilizie[1]
- 1. È in questi giorni che è stata sottoposta alla Corte Costituzionale l’occasione di fornire una interpretazione corretta o, meglio, attuale al D.M. 1444/68[2], con particolare riferimento all’art. 8, letto alla luce dell’art. 2 bis del TUE.
La Sovrana Corte[3] è stata infatti recentemente investita della questione dal Consiglio di Stato[4] con riferimento all’art. 9 comma 8 bis (introdotto nel 2013 nel testo) della legge regionale del Veneto 8 luglio 2009 n. 14 (la legge sul Piano Casa), in riferimento all’art. 117, secondo comma lettera l) nonché terzo comma, della Costituzione.
- Andiamo con ordine. Il pronunciamento che si attende ha una sua rilevanza al di là del fatto che la disciplina edilizia regionale all’esame di costituzionalità non sia più in vigore dall’aprile 2019 – essendo in effetti abrogata dall’art. 19 della legge regionale del Veneto n. 14/2019[5]. Tale rilevanza è per un verso fattuale, poiché nell’ipotesi di una declaratoria di incostituzionalità, si porrebbe la questione del destino dei procedimenti definiti ed in corso nei cinque anni di vigenza della norma, involgendo in conseguenza poteri di controllo, sanzione ed autotutela dei Comuni; interessi ed aspettative consolidate di operatori economici; eventuali pretese risarcitorie di terzi. E per altro verso una rilevanza giuridica, per le possibilità che si potrebbero aprire (se lo scrutinio fosse positivo, ovvero che verrebbero meno, se l’esito fosse di incostituzionalità) per il legislatore regionale di disciplinare il proprio territorio con maggiori spazi e garantendo così peculiarità di esso stesso proprie.
- Pare opportuno partire dall’assunto del Giudice remittente in punto di non manifesta infondatezza, secondo cui (cfr. punto 3.2. dell’ordinanza di remissione, indicata nella nota 4) “ritiene il Collegio che la citata disposizione, nella parte in cui consenta le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal noto d.m. n. 1444 cit. sia in contrasto con i principi della legislazione statale, dettati dallo stesso d.m. e dall’art. 2 bis dPR 380\2001, con conseguente violazione dell’art. 117 comma 2 lett. l) e 3 Cost., in specie laddove non si prevede che le consentite deroghe debbano operare nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
Dunque l’ordinanza di rimessione assume che la previsione legislativa in esame contrasterebbe con l’art. 117 Cost. in particolare con il comma 2 lett. l), e con il comma 3. Più esattamente per un verso ritiene che il D.M. n. 1444/68 citato, letto alla luce dell’art. 2 bis del TUE, incida – sì da non consentire deroghe normative regionali – su tutte le grandezze edilizie, compresa l’altezza; per altro verso non colloca nel giusto contesto normativo statale la legge regionale veneta n. 14/09.
- Con riguardo alla prima censura, e cioè alla pretesa violazione dell’art. 117, comma 2, lett. l), sia consentito dissentire dall’assunto del Consiglio di Stato che ha ritenuto di estendere i principi caratterizzanti l’art. 9 del D.M. n. 1444/68 (che disciplina le distanze), al precedente art. 8 del medesimo D.M. (afferente invece le altezze). Il passaggio che opera tale salto logico è il seguente “Inoltre, la stessa giurisprudenza costituzionale ha stabilito, con riferimento alle distanze sebbene con una considerazione che pare potersi estendere anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità della previsione letterale dell’art. 2 bis (ben più ampia della mera rubrica), che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013)”. A dire del Consiglio di Stato, l’aver derogato (la L.R. Veneto n. 14/2009) alla disciplina delle altezze di cui all’art. 8, avrebbe violato il limite costituzionale del divieto per le Regioni di normare in materia di “ordinamento civile”.
4.1. Un assunto erroneo poiché se è vero che la disciplina dei limiti della distanza tra fabbricati, di cui all’art. 9, trova un fondamento nella disciplina codicistica (con l’art. 873 comma 2 c.c.) cosicché ben può ritenersi compresa nella competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, non così la normativa sulle altezze di cui all’art. 8. Quest’ultima non afferisce infatti direttamente a rapporti tra privati, essendo più propriamente riconducibile al governo del territorio e fornisce indirizzi (in parte anche) derogabili semplicemente dagli strumenti urbanistici locali. Del resto se questa non fosse l’interpretazione del dato normativo, non si comprenderebbe come sarebbe possibile per le Regioni derogare normativamente ai principi del D.M., in esatta attuazione dell’art. 2 bis del TUE (profilo su cui torneremo al punto 5 che segue).
4.2. Ed è questo l’altro aspetto da considerare; la genesi della detta disposizione del TUE, consente di leggerne il testo, illuminando contemporaneamente la portata delle distinte disposizioni del D.M. n. 1444/68. La scheda di lettura dei lavori di approvazione della previsione di cui all’art. 2 bis del TUE[6] fa infatti emergere come -per il legislatore nazionale- essa abbia in sé una intrinseca distinzione tra le distanze e le altezze, che pure tratta congiuntamente, per la diversa rispettiva valenza, con diverse conseguenze sulla eventuale loro deroga. A ben vedere infatti: (i) le prime impingono nella proprietà privata e nell’ordinamento civile (come chiaramente affermato dalla Corte sovrana) cosicché ove le Regioni ipotizzassero deroghe normative ed in tal senso legiferassero, la violazione dell’art. 117, comma 2, lett. l) sarebbe configurabile; senza considerare che le stesse deroghe possono essere inserite in strumenti urbanistici ampi e funzionali ad un assetto unitario; (ii) le seconde (le altezze), non importano tali interferenze e dunque non interferiscono con l’ordinamento civile.
Ne deriva che le altezze – anche per l’art. 2 bis del TUE, correttamente letto – hanno un regime complessivo ben differente rispetto alle distanze (ed a ben vedere e non casualmente anche il D.M. n. 1444/68, colloca tali grandezze edilizie in articoli diversi); non impingono nell’ordinamento civile, cosicché le relative deroghe non necessariamente devono essere inserite in una pianificazione attuativa più ampia (come invece il legislatore nazionale dispone per le distanze). In tale contesto, una deroga alle altezze come disciplinata dal Piano casa veneto, consente a ciascun Comune di porre in essere un’analisi edilizia di contesto, cioè più specifica e contestualizzata; e solo se detta analisi supera lo scrutinio comunque volto a verificare la compatibilità dell’intervento con il tessuto edilizio in cui va ad inserirsi, l’intervento può essere attuato.
4.3. Una lettura del testo normativo così come appena illustrata, si auspica possa consentire di superare alla norma regionale il vaglio di costituzionalità. Sembra anche opportuna una considerazione più “pratica”. Ove si volessero assimilare le deroghe alle altezze a quelle delle distanze, sottoponendo anch’esse ad una ampia pianificazione attuativa, si irrigidirebbe il tessuto urbano e si renderebbe difficile modificare lo skyline.
La legge regionale (nell’art. 9, comma 8 bis) prevede poi che l’obiettivo prioritario da perseguire con i prescritti interventi di riordino e di rigenerazione urbana, è quello “di ridurre o annullare il consumo del suolo”, che è obiettivo prioritario delle Nazioni unite[7] nonché nelle intenzioni del legislatore italiano[8] ed euro-unitario. Ebbene: gli interventi edilizi previsti, nell’ottica appena descritta, consentono un certo aumento percentuale della cubatura esistente; una maggiore cubatura che in senso orizzontale trova certamente i limiti sulle distanze sin qui descritte, e che, se trovasse dei limiti di sostanziale inderogabilità anche in altezza, renderebbe vana la previsione normativa.
- Qui subentra la seconda questione di costituzionalità sottoposta al vaglio della Corte sovrana e cioè la presunta violazione dell’art. 117, 3° comma, ritenuta dal Giudice remittente, che -come accennato- deriva dalla mancata contestualizzazione -da parte dello stesso Giudice remittente- della norma regionale nell’ambito del contesto normativo statale.
La L.R. Veneto n. 14/2009 va infatti inserita nell’ambito del più complesso sistema del “Piano–casa”, che trova esplicito fondamento nell’Intesa intercorsa in sede di Conferenza Stato-Regioni e nella relativa disciplina di attuazione. Ed in quest’ottica il criterio di riparto delle competenze tra Stato e Regioni che è delineato nell’art. 117 Cost. appare rispettato.
Tale Intesa [9]dispone che per “fronteggiare la crisi” si attui “un riavvio dell’attività edilizia favorendo altresì lavori di modifica del patrimonio edilizio esistente, nonché prevedendo forme di semplificazione dei relativi adempimenti secondo modalità utili ad esplicare effetti in tempi brevi nell’ambito della garanzia del governo del territorio”. L’Intesa stabiliva quindi la possibilità per le regioni di autorizzare normativamente incrementi volumetrici in deroga al D.M.; il successivo art. 5, comma 9, del d.l. n. 70/2011 ribadiva tale obbligo gravante sulle Regioni di introdurre forme e procedure necessarie al “riconoscimento di una volumetria aggiuntiva”. Successivamente (ed anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del d.P.R. n. 380/2001) sopravveniva l’art. 1, comma 271, della legge n. 190/2014, che prevedeva che gli interventi edilizi di che trattasi, nell’ambito degli obiettivi prioritari del riordino e della rigenerazione del tessuto edilizio urbano consolidato, potessero essere assentiti solo se riducono o annullano il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi; ciò che escludeva la possibilità di nuova costruzione e limita la possibilità tecnica di un aumento volumetrico su un immobile esistente al profilo dell’altezza. Per di più si disponeva che i provvedimenti autorizzativi emanati in attuazione del detto d.l. n. 70/2011 s’impongono (non si conformano) alla pianificazione urbanistica cosicché l’assenso allo sviluppo delle volumetrie in deroga dispiega l’efficacia conformativa tipica di un atto di pianificazione, imponendo ex lege il recepimento diretto ed automatico dell’intervento assentito.
L’intervento regionale in esame giunge nel 2013, a valle delle previsioni qui accennate.
- Attendiamo dunque il pronunciamento della Corte sovrana che -ove fosse di costituzionalità della previsione di legge regionale- potrebbe dare una lettura ed una interpretazione moderna ad uno degli ultimi simulacri esistenti nel diritto urbanistico; una lettura che sia coerente con l’evoluzione della realtà (normativa e fattuale) del nostro Paese, e che consenta al D.M. del 1968 di svolgere una funzione di regolazione delle grandezze edilizie in senso evolutivo e, appunto, attuale, con i limiti e le garanzie che la norma di legge regionale (ma non solo del Veneto) naturalmente impone.
Alberto Gaz
Guglielmo Gattamelata
[1] Ai fini di una corretta imputazione del presente documento, i paragrafi 1, 2, 5 sono riconducibili a A. Gaz, mentre i paragrafi 3, 4 e 6 a G. Gattamelata.
[2] Il Decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 recante “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765”.
[3] Reg. ord. n. 94 del 2019; udienza pubblica del 15 gennaio 2020.
[4] Ordinanza 1° marzo 2019 n. 1431 del Consiglio di Stato, Sezione VI (G.U., I serie, 26 giugno 2019, n. 26).
[5] Nel BUR del 5 aprile 2019 è stata pubblicata la detta legge n. 14/2019 denominata “Veneto 2050: politiche per la riqualificazione urbana e la rinaturalizzazione del territorio e modifiche alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio“. Una legge di sistema, quest’ultima, che supera il periodo emergenziale -che ha visto appunto l’introduzione della legge sul Piano casa- e che oggi regola in modo uniforme il territorio.
[6] Di detta scheda si riporta il testo (enfasi aggiunte) “con l’emendamento 30.2 (testo 2) approvato nel corso dell’esame in sede referente si propone di inserire nel del D.P.R. 380/2001 (Testo Unico in materia di edilizia) l’articolo 2-bis, ove si consente alle Regioni e alle Province autonome – nell’ambito della definizione di strumenti urbanistici – di dettare, anche in deroga al DM n. 1444 del 1968, riguardante i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza fra i fabbricati, una disciplina sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi. Rimane ferma la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà. Si segnalano sul punto due sentenze della Corte Costituzionale (232 del 2005 e 114 del 2012) nelle quali si rileva che “in tema di distanze tra costruzioni, l’assetto costituzionale delle competenze in materia di governo del territorio interferisce con la competenza esclusiva dello Stato a fissare le distanze minime, sicché le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale, potendo, nei limiti della ragionevolezza, fissare limiti maggiori. Le deroghe alle distanze minime, poi, devono essere inserite in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio, poiché la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati”.
[7] cfr. al riguardo l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
[8] Disegno di legge: “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato” (atto Camera 2039, trasmesso dalla Camera al Senato il 13 maggio 2016); disegno di legge “Disposizioni per la rigenerazione urbana e per il contrasto al consumo di suolo” (atto Senato n. 984, in corso di esame in commissione al 23 ottobre 2019).
[9] Intesa, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra Stato, regioni e gli enti locali, sull’atto concernente misure per il rilancio dell’economia attraverso l’attività edilizia, in G.U. Serie Generale n.98 del 29-04-2009. L’Intesa viene poi normata con l’art. 5, commi 9 e 14 del D.L. n. 70/11, conv. in legge n. 106/11.