Paolo Urbani intervistato da Giorgio Santilli per il Diario Infrastrutture e Ambiente Costruito, 18.11.2024

di 18 Novembre 2024 Articoli, Senza categoria

Urbani: “Il piano urbanistico resta lo strumento per un ordinato sviluppo delle città. I Comuni devono uscire dal ruolo debole nelle grandi trasformazioni pubbliche e private”

“Le riflessioni sulla pianificazione urbanistica che ho scritto nel mio ultimo libro partono dalla necessità che il piano urbanistico continui a costituire l’elemento fondamentale della conformazione dei suoli, ai fini dell’ordinato assetto del territorio. È quello che ci ricorda da tempo la Corte costituzionale e il problema fondamentale è che ci troviamo oggi di fronte al cosiddetto declino del piano urbanistico, che non è più in grado di essere una profezia credibile”. A parlare è Paolo Urbani, ordinario di diritto amministrativo alla Sapienza, oggi docente di diritto urbanistico alla Facoltà di Architettura e alla Luiss, avvocato. Accetta di rispondere alle domande di DIARIO DIAC per fare una riflessione a tutto campo su “Lo stato dell’urbanistica” che è il titolo del suo libro appena uscito, edito da Giappichelli. “Abbiamo assistito negli ultimi quindici anni – dice Urbani entrando subito nel merito – a uno spostamento delle questioni dall’hardware, cioè, il piano, al software, ovverosia l’edilizia. Questo succede dal 2009, da quando cioè Berlusconi varò il Piano casa e il premio di volumetria nella demolizione e ricostruzione. Il problema non è più, da tempo, l’espansione, ma la riconversione di una parte della città costruita. E il Piano casa l’affronta con una serie di norme derogatorie”.

Le semplificazioni.

Sono state chiamate semplificazioni ma in realtà sono proprio deroghe al quadro normativo che hanno consentito cose impensabili venti anni fa: per esempio con le eccezioni al testo unico dell’edilizia si è potuto fare demolizione e ricostruzione con premio di volumetria nelle parti più consolidate della città senza una linea guida del piano. Questo ha permesso di concentrare capitale immobiliare su queste aree. Ma il problema fondamentale che non ha avuto risposte e non può essere lasciato senza una soluzione è che in queste aree esiste già una collettività insediata, cittadini che vengono scombussolati da interventi che non hanno nessun collegamento con quel quartiere. Questo produce in molte città interventi completamente difformi da quella che è l’area nella quale si collocano e naturalmente questa questione finisce per lasciare in default il piano perché il piano di queste cose non si occupa sostanzialmente.

Nel suo libro lei insiste molto anche sulle valorizzazioni dei beni pubblici, ferroviari, militari, demaniali, che non servono più a svolgere quelle loro funzioni. Che importanza hanno?

Soggetti come Ferrovie, Cassa Depositi e prestiti, Agenzia del Demanio, Fondi di investimento, Sgr, che sono i detentori di questi beni pubblici, hanno acquisito un ruolo crescente perché la legge prevede un’obbligatoria valorizzazione di questi beni. Naturalmente questi beni sono collocati sul territorio dei Comuni ma, specialmente nelle grandi città, questo obbligo di valorizzazione si traduce immediatamente in nuova edificabilità o in modifica di destinazione d’uso. L’irruzione di questi beni all’interno del territorio consolidato non incontra nessun limite di piano e il processo che si instaura tra il Comune e l’ente pubblico evidenzia il confronto di due interessi pubblici divergenti, con la tendenza alla prevalenza dell’interesse forte dell’attore proponente dell’operazione immobiliare. Messo di fronte a questa situazione, il Comune diventa un contraente debole che non è in grado di contrattare questa trasformazione a favore della città pubblica, con il risultato di avere una trasformazione della città consolidata che risulta carente di servizi e di standard. E qui vediamo un altro esito della legislazione statale di questi anni: gli standard vengono monetizzati con il risultato che questi introiti del Comune possono essere spesi altrove, non necessariamente nella stessa area che quindi subisce un forte carico aggiuntivo senza che siano offerti adeguati servizi e standard per farvi fronte.

Si riferisce al caso Milano?

Non solo, ma certo Milano mi sembra emblematico di una situazione di questo genere. Dove accade questo fenomeno la città consolidata si gonfia a scapito della città pubblica. E qui c’è quella fake news che in questo modo si riduce il consumo di suolo. Se il consumo di suolo lo intendiamo come città di espansione, oggi non ha una domanda. Mentre la grande domanda è tutta sulla città consolidata con il risultato di comprometterla pesantemente.

C’è un riferimento alla discussione sulla città verticale?

Esatto, la città alta è una delle direzioni in cui si compromette la città consolidata. Nel libro ho evidenziato questa specie di trilemma che si crea in queste situazioni. Abbiamo i soggetti che promuovono i progetti, privati o pubblici che siano e che chiedono la variazione rispetto al piano; abbiamo il Comune che ha come strumento un piano che non è assolutamente in grado di prevedere quel che succede; e poi abbiamo una terza figura che emerge sempre più chiaramente ma incontra grandissima difficoltà: sono gli interessi diffusi che non fanno riferimento a un soggetto specifico, ma piuttosto a una comunità indifferenziata che evidenzia l’esigenza di partecipazione.

A legittimare il premio di volumetria c’è il fatto che il costo di una demolizione e ricostruzione è più alto della semplice nuova costruzione.

Questa lo potrei capirlo in periferia ma non certo in situazioni appetibilissime come il centro di Milano e Roma. Spesso queste trattative, che stanno portando alla città alta, non sono frutto di una contrattazione leale e trasparente ma favoriscono solo il vantaggio dell’attore proponente, privato o pubblico che sia.

L’esigenza di partecipazione e la rappresentanza di interessi diffusi delle comunità fanno fatica a trovare una rappresentanza.

Certamente questa rappresentanza non emerge nel processo di formazione del piano. Quindi diventa ancora più importante che vi sia una modalità di espressione nel momento in cui il Comune deve rappresentare, nelle operazioni di valorizzazioni degli immobili, l’interesse fondamentale del miglioramento delle condizioni di vita di quel quartiere.

Il punto mi pare proprio questo: abbiamo strumenti efficienti per dare una rappresentanza efficace e peso a questa partecipazione?

Ottima domanda perché, come ho messo in evidenza in un capitolo del libro, la legge urbanistica del 1942 prevede che sia tutelato l’interesse pubblico (che chiama “interesse nazionale”) già nella formazione del piano e via via a cascata altre leggi nazionali e regionali prevedono che sia il Comune a trovare accordi e compensazioni per migliorare le condizioni di questo o quell’intervento. Ma il risultato concreto qual è?

Ce lo dica citando qualche caso concreto.

Nel libro cito esempi come la città della giustizia di Bari che, come altre cittadelle giudiziarie, comporta come interesse pubblico prevalente la razionalizzazione del patrimonio giudiziario presente in città. Oppure, ancora più significativo, il caso del Poligrafico di Roma. Sono stati ristrutturati 40.000 metri quadri per varie funzioni, con mutamento di destinazione d’uso e premi di volumetria su un edificio storico, ma alla collettività rappresentata non sono stati regalati nemmeno 100 metri quadri per fare un asilo nido o una sala per anziani.

Torno alla domanda: quali strumenti per favorire la rappresentanza degli interessi diffusi della comunità?

Bisognerebbe introdurre una legge 241 sulla trasparenza del procedimento amministrativo in materia urbanistica, una disciplina che regoli la necessaria partecipazione dei cittadini nelle zone in cui si trasforma la città esistente. La partecipazione non può è vincolante nelle scelte ma l’ascolto è un contributo a riportare il conflitto nel procedimento, è un vantaggio per la collettività e per il Comune che accresce la sua legittimazione. Alcune leggi regionali, per esempio della Regione Toscana, si sono spinte a prevedere l’applicazione del débat public – nato per le grandi infrastrutture – all’urbanistica. È un’iniziativa molto interessante, ma il punto centrale mi sembra un altro, ed è sostanziale, non formale o di strumenti.

Qual è?

L’illustre amministrativista degli anni ’60 Felice Benvenuti diceva che l’urbanistica governa l’economia, mentre oggi assistiamo alla perdita di sostanza e importanza del rapporto fra autorità e libertà che è il fondamento della pianificazione, con la conseguente rinuncia a un assetto ordinato della città.

Molta libertà, poca autorità. Colpa delle liberalizzazioni, quindi.

Le porto un caso che forse rende più chiaro il concetto. Si è deciso di liberalizzare totalmente le destinazioni d’uso nei centri storici, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti: l’invasione di B&B che mettono in crisi la città consolidata e le sue esigenze primarie, a partire dalla funzione abitativa. Ora i Comuni provano tardivamente a correre ai ripari con alcune regolamentazioni di questo aspetto specifico, perdendo però ancora una volta di vista il punto fondamentale che è il disegno pubblico della città. Appunto, il piano. Stesso discorso sulla mancanza degli standard.

Quindi lei non è d’accordo con quell’ampio partito che chiede l’abolizione o la sostanziale modifica del decreto del 1968 sugli standard.

Io sono assolutamente contrario perché quelle norme sono state un baluardo negli anni della legge ponte. L’indebolimento di questa linea ha portato alla monetizzazione degli standard che il comune incassa per realizzare spazi pubblici e servizi in quella parte della città, in quel quartiere, ma spesso li usa altrove. Se va in Germania non troverà niente di tutto questo, non trova né il premio di volumetria per la demolizione e ricostruzione né la monetizzazione degli standard: il rapporto fra vuoti e pieni viene garantito e la città decide il proprio futuro. Anche l’ultimo testo fatto dall’ex ministro Giovannini sulla base del lavoro di una commissione di cui facevo parte, e poi ripreso nella proposta dell’onorevole Morassut, tiene fermo questo punto. E aggiungo che anche la Corte costituzionale, nella sentenza sull’autonomia differenziata di tre giorni fa, li considera un punto fermo perché tra i LEP, i livelli essenziali delle prestazioni, vengono proprio riconosciuti gli standard urbanistici.

Il baricentro, come lei dice e ha scritto, si è spostato, di liberalizzazione in liberalizzazione, dalla legge urbanistica al testo unico dell’edilizia. Ora il ministro Salvini annuncia una nuova riforma del testo unico dell’edilizia ancora in chiave di semplificazione e liberalizzazione. Che ne pensa?

Non so se le cose stanno così. Penso che il ministro Salvini, più che una riforma del testo unico, voglia presentare una proposta di legge delega per intervenire sul testo unico. Se è così sarà fondamentale vedere quali saranno i principi alla base della delega.

Lei cosa auspicherebbe?

Se ci dovessero essere ulteriori elementi di liberalizzazione, come dice lei, sarebbe per me negativo. Mentre credo ci sia effettivamente bisogno di un riordino complessivo della materia.

Leggendo il suo libro ho appuntato varie volte provocatoriamente l’osservazione “nostalgico del piano” segnalando una divergenza, che lei non nega affatto, fra le sue idee e le esigenze dominanti oggi. In particolare, vorrei capire come risponde all’accusa che proprio il piano ingessa, rallenta e frena lo sviluppo della realtà urbana e metropolitana.

Cominciamo con il rispondere che il piano mantiene un suo ruolo ancora oggi, per legge: resta la base della determinazione dell’assetto dei suoli, anche quando i suoli devono essere rigenerati. Il problema è semmai nell’uso che se ne fa, soprattutto da parte dei Comuni. Fin dal Piano casa del 2009, il legislatore disse che i Comuni avrebbero dovuto individuare le aree nelle quali si potevano operare le riconversioni e perimetrare quelle in cui non si potevano operare, stabilendo le condizioni della trasformazione, dicendo dove è ammessa la demolizione e ricostruzione, stabilendo quali sono evidentemente le destinazioni d’uso ammesse. I Comuni non l’hanno fatto, se non in casi rari. Il Comune può creare le condizioni e dettare le prescrizioni per la trasformabilità all’interno della città consolidata. La città si può rinnovare secondo le regole che fissa. Se questi poteri non vengono esercitati, è evidente che poi la disciplina dell’edilizia permette demolizioni, ricostruzioni, valorizzazioni, ristrutturazioni, con gli sbandamenti che abbiamo visto. A Roma, a perimetrare l’intero quartiere Trieste, che aveva palazzine del Novecento da tutelare, non ci ha pensato il Comune, ci ha dovuto pensare la Sovrintendenza. Quindi il piano opera ancora.

Ma c’è una carenza di azione dei Comuni, quindi, anche a legislazione vigente.

Esatto, i Comuni sono inerti anche quando in realtà avrebbero tutti gli strumenti per poter intervenire. Anche il progetto urbano, che è una sorta di predeterminazione delle condizioni di trasformazione della città, è in mano ai Comuni che dovrebbero usarlo per fissare le condizioni, come nel caso dei beni pubblici di cui ho detto. Se non lo fa va a una contrattazione sul singolo intervento in cui il Comune è il contraente debole. Questo produce la variazione del Piano e non uno scambio leale ma uno scambio sleale, in cui non c’è nessuna compensazione tra il dare e l’avere e la città si trasforma senza gli standard, senza che sia resa partecipe delle trasformazioni. Aggiungo che, per una legislazione molto restrittiva, c’è una difficoltà anche a riconoscere la legittimazione a ricorrere di questi interessi diffusi della comunità.

Il coordinatore delle regioni sull’urbanistica, Bruno Discepolo, assessore della Regione Campania, e l’Istituto nazionale di urbanistica sostengono che la legge sulla rigenerazione urbana in discussione al Senato potrà risultare inutile o dannosa e che bisognerebbe avere invece il coraggio di intervenire sulla legge urbanistica. Lei come la vede?

Al Senato ci sono tredici proposte di legge e un testo unificato che tenta di tenerle insieme ma che alla fine risulta assolutamente vago, un’elencazione un po’ retorica di principi che non arrivano mai a una vera regolamentazione. Si creano nuovi piani di intervento che prescindono dal piano e da un disegno generale della città. Sono piani che dispongono come se il piano generale non esistesse. Ci sono regioni che stanno proponendo una legge urbanistica di principi. C’è in Parlamento il testo di Morassut che citavo prima e mi auguro che anche il governo e il ministro Salvini si muovano in questa direzione di una legge di principi per una riforma nazionale della legge urbanistica.

Mi ha meravigliato che nel suo libro siano contenute molte critiche alle Regioni per come hanno legiferato, mentre a mio avviso le Regioni, fin dalla legge 5 del 1995 della Toscana, hanno svecchiato l’apparato normativo e lo strumentario dell’urbanistica in Italia rispetto allo Stato immobile.

Certamente le Regioni hanno svolto un lavoro importante recependo molti aspetti del nuovo modello di piano, più flessibile, meno rigido, proposto in origine da Giuseppe Campos Venuti: la maggiore flessibilità del piano con lo sdoppiamento fra piano strutturale e piano operativo, la compensazione in luogo dell’esproprio e così via. Questo lavoro non era sbagliato all’inizio, solo che poi ogni Regione ha fatto a proprio modo e ci ha messo del suo quanto a invenzione, addirittura usando nomi per strumenti simili. Ne è nata una confusione, uno spezzatino regionale che disorienta un imprenditore che volesse fare investimenti in più regioni. C’è la legge dell’Abruzzo che ha 106 articoli! Mentre la Sicilia ora è la prima a cancellare il premio di volumetria istituito dal piano casa di Berlusconi e poi fatto proprio da tutte le Regioni. Ecco una legge urbanistica di principi aiuterebbe anche a risolvere, almeno in parte, questo problema del caos regionale.

Che pensa della sentenza della Consulta sull’autonomia differenziata? Che riflessi ha sul governo del territorio?

Per l’urbanistica l’autonomia differenziata è già in atto. La Corte ha detto da tempo che il principio fondamentale è il piano ma che le modalità di attuazione del piano sono norme di dettaglio che spettano alle Regioni. Quanto alle censure della sentenza della scorsa settimana sono molto puntuali e di fatto smontano la riforma, costringendo il legislatore a intervenire proprio per ridurre l’ambito di discrezionalità.