Il nuovo “governo condiviso del territorio”di Federico Gualandi

di 8 Gennaio 2019 Legislazione, Rivista

articolo legge 24 2017Il nuovo “governo condiviso del territorio”: prime riflessioni sulla nuova L.R. n. 24/2017 dell’ Emilia – Romagna con particolare riferimento agli Accordi Operativi, ai Permessi di costruire convenzionati ed al cd. Procedimento unico di Federico Gualandi.

La L.R. n. 24/2017 dell’ Emilia – Romagna è una Legge che nasce dalla “crisi” e che (nella Relazione che accompagnava il disegno di Legge) viene definita , come, in effetti, lo è.
Si tratta di comprendere se questo pragmatismo – che è un tratto distintivo della Regione – non finisca per una serie di istituti che connotano la disciplina urbanistica.
In ogni caso, è forte la sensazione di “straniamento” per chi proviene dall’ esperienza della Legge precedente (la L.R. 20/2000) che, viceversa, si presentava con un’ impostazione teorica molto articolata, raffinata e con grosse ambizioni, che ne hanno poi decretato il sostanziale fallimento.
In effetti, la Legge regionale n. 20/2000 era fondata su Piani strutturali e strategici e cioè su di una struttura programmatoria e pianificatoria che indicava orizzonti e prospettive di ampio respiro ed anche assai distanti nel tempo.
Tutto questo pare abbastanza dissolversi nella Legge ora in esame, ove – ci sia consentita la banalizzazione – la prospettiva pare , per interessarsi soprattutto di una dimensione che è quasi “edilizia”, con la creazione di nuove e fantasiose categorie di intervento (ad esempio, gli interventi di “costruzione e successiva demolizione”) e di nuovi istituti (come gli “usi temporanei”), nonché con la previsione di una dettagliata disciplina di “deroghe” e “premialità”, tutte volte ad incentivare il riuso e la rigenerazione urbana.
Ne è prova lo stesso Titolo della Legge, in cui il si sposta dal “governo” del territorio, alla “tutela” e “uso” (o riuso) del territorio, quasi a significare che il territorio (soprattutto quello non consumato) non dovrebbe essere oggetto di trasformazione ma – in primis – di tutela, come risorsa “non rinnovabili” (art. 1 della Legge).
Lo scopo dichiarato della Legge è innescare processi di rigenerazione, in sinergia con gli operatori privati.
La rigenerazione, concetto quasi biologico, che si riferisce ad organismi “viventi” come le Città, che dovrebbero essere, appunto, (ri) “generate”, è una sfida molto più ambiziosa della semplice riqualificazione perché presuppone una mutata coscienza culturale (il suolo come e risorsa non rinnovabile) e un approccio alle problematiche ambientali e sociali del tutto nuovo (si pensi al tema della mobilità o degli standards, affrontato dalla legge in modo innovativo, ma con soluzioni che però fanno talvolta sorridere, come la dell’ impegno a rispettare le limitazioni all’ uso della autovetture: cfr. art. 9 della Legge).
E’ per questo che la Legge dà fiducia – forse in modo un po’ aprioristico – a processi decisionali “negoziali”, anche se, con un po’ di sano scetticismo, ci si può chiedere se davvero questo cambiamento culturale sia concretamente avvenuto o venga solo enunciato.
Ci si può chiedere, inoltre, se questa “valorizzazione della capacità “negoziale” del Comune (art. 1, comma 3), che solo qualche anno fa sarebbe apparsa abbastanza singolare (se non “eretica”, per alcuni custodi della tradizione urbanistica) in una Legge urbanistica, non celi, in realtà – come ha evidenziato un’ autorevole Dottrina , una sorta di abdicazione di dell’ esercizio della funzione in materia di governo del territorio.
Senza considerare che, laddove enfatizza la capacità negoziale, la Legge pare un po’ , nel senso che pare pensata per Comuni di grosse dimensioni, ma bisognerà vedere come funzionerà per i Comuni più piccoli, privi di personale e di competenze professionali specifiche.
L’ aspetto che però risulta indubbiamente più significativo (se ci si confronta con l’ impianto della L.R. 20/2000 e cioè con il passato più recente) è la sostanziale volontà di “sbarazzarsi” del Piano tradizionalmente inteso e della sua impostazione teorica (la famosa “sequenza gradualistica di piani ordinati gerarchicamente”) , per sostituirla con una impostazione che fa leva sul principio di negozialità e sul (nuovo) principio di competenza.
Ne è chiara espressione l’ art. 24, laddove si dice che “ciascun strumento di pianificazione deve limitarsi a disciplinare esclusivamente le tematiche e gli oggetti che gli siano attribuiti dalla presente legge, in conformità alla legislazione statale e regionale vigente.
In applicazione del principio di competenza di cui al comma 1, in caso di conflitto tra le previsioni di diversi strumenti di pianificazione, prevale quanto stabilito dal piano cui la regolazione di quella materia o di quella tematica è conferita dalla legge, senza la necessità di modificare le previsioni dei piani che esulano dalle loro Competenze” .
L’ art. 33, 5° comma ribadisce che “fuori dei casi di cui al comma 4 del presente articolo, in applicazione del principio di competenza (…) il PUG non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato né fissare la disciplina di dettaglio degli interventi la cui attuazione sia subordinata ad accordo operativo o a piano attuativo di iniziativa pubblica”.
Infine, l’ art. 34, comma 2, ci dice che le indicazioni progettuali o localizzative indicate nella del PUG costituiscono “Indicazioni di massima” che sono “specificate in sede di accordo operativo, secondo il principio di competenza”.
L’ Accordo Operativo (AO) è quindi la vera novità; uno strumento che ingloba (e fagocita) tutti gli altri strumenti preesistenti e sulla cui natura e funzione è importante interrogarsi.
Nonostante la Legge lo qualifichi come accordo, va subito detto che non ha granché da spartire con i vecchi accordi “a monte” di cui all’ art. 18 della L.R. 20/2000 (che, viceversa troviamo disciplinati all’ art. 61, ma solo nella fase di formazione del PUG) ma neppure con le note “Convenzioni urbanistiche” che si collocano “a valle” dei Piani attuativi, in quanto pare molto più simile ad un vero e proprio Piano, anche se è un Piano del tutto sui generis, che può concretizzarsi e venire a giuridica esistenza solo attraverso il necessario concorso della volontà di un soggetto privato.
Si tratta di un Piano che appartiene alla categoria dei Piani-Programmi e con una sorta di indubbia forzatura potremmo qualificarlo come una sorta di “mini Accordo di Programma”, posto che ha l’ effetto di rendere possibile un progetto/programma proposto dal soggetto privato e che il soggetto pubblico valuta di interesse pubblico e rende possibile, accertandone la compatibilità con gli altri strumenti urbanistici, la sostenibilità sotto il profilo ambientale e la concreta fattibilità sotto il profilo economico-finanziario.
E’ molto più, però di un Piano attuativo (anche se ne fa le veci), perché si muove in una cornice molto più libera rispetto ai vecchi strumenti “attuativi” e gerarchicamente sottordinati.
Va subito evidenziato che, rispetto ai precedenti accordi ex art. 18 (cd. Accordi ), la Legge ha opportunamente recuperato una struttura più rispettosa del paradigma della L. n. 241/1990, dove l’ accordo è l’ esito del procedimento e perciò si colloca “a valle” di questo (anche se questo apre una serie di problemi di cui poi si dirà).
La sensazione che si ha, esaminando questo Accordo è che si tratti di una significativa conferma delle tesi di una nota Dottrina , laddove si ipotizza il progressivo venir meno di un sistema impostato sulla “gerarchia dei Piani” a favore di un sistema più flessibile, impostato sulla “gerarchia degli interessi”, con la prevalenza dell’ interesse ritenuto, in un determinato momento storico, meritevole di prioritaria protezione e cioè – nel nostro caso – il riuso e la rigenerazione urbana (parola che ricorre circa 80 volte nel testo della Legge), ovvero l’ intervento che l’ iniziativa imprenditoriale del privato ha individuato come meritevole di essere perseguito e che l’ Amministrazione ha dichiarato di condividere.
E’ però importante sottolineare che questo nuovo assetto decisionale – come è stato correttamente evidenziato in un recente contributo – non si fonda tanto sul consenso, ma su di un molto più prosaico tra risorse pubbliche e risorse private, “reso necessario dall’ impossibilità per la funzione amministrativa di giungere autonomamente a compimento”.
E’ importante comprenderlo, perché questo può significare “abdicare” ad una considerevole quota di regolazione autoritativa, con conseguenze tutte da indagare.
Fino ad ora il Piano, come atto autoritativo (si pensi alla disciplina delle “Osservazioni”, che vengono da sempre considerate un mero ) e dove si esprimeva il massimo di discrezionalità (si vedano le recenti sentenze del Consiglio di Stato, dal leading case di Cortina di Ampezzo in poi), ha costituito un validissimo strumento di tutela delle scelte dell’ Amministrazione rispetto alle pretese e/o alle aspettative dei privati.
Ci si deve chiedere (e ci sono molti dubbi) se ciò avverrà anche per questi accordi che, come la Dottrina rileva, denotano un’ evidente “riduzione del potere urbanistico conformativo”.
Secondo tale ricostruzione, ciò che avviene è uno scambio tra risorse pubbliche (potere di regolazione e potere autorizzativo) e risorse private (finanziarie, tecniche, organizzative) e “si tratta di una scelta per la quale il ricorso all’ accordo non è opzionale e il ricorso al provvedimento è precluso” (…); “viene in discussione la stessa compiutezza della funzione pubblica sinora considerata, almeno sul piano teorico, come un vero e proprio postulato, in quanto tale indiscutibile” .
In sostanza, la Legge pare fare un’ operazione estremamente pragmatica: siccome si deve intervenire su di un territorio già “conformato” e non ci sono strumenti efficaci per intervenire autoritativamente (se non ipotizzando ciò che costituirebbe una mera utopia e cioè l’ utilizzo dell’ attuazione coattiva mediante esproprio), non si può che scendere “a patti” con i proprietari dei beni, usando la “negozialità” (ma anche la premialità) per indirizzare il privato verso un uso “sociale” del proprio diritto di proprietà.
In effetti, come rileva Autorevole dottrina :
“Il Piano regolatore ha un potere (ancorchè non esclusivo) di conformazione delle proprietà relativamente alle parti non edificate del territorio, ma non ne ha alcuno relativamente a quelle già edificate: il potere conformativo della proprietà privata cessa là dove inizia l’ abitato (…) Il mutamento di prospettiva rispetto a quello oggi dominante è essenziale, poiché rispetto alle prescrizioni puntuali il progetto di trasformazione non può che essere conforme tanto che per ogni sopravvenuta diversa esigenza si deve ricorrere a una variante alla prescrizione, laddove in presenza di semplici obiettivi, sarà ammesso ogni progetto che risulti compatibile con tale indicazione”.
L’ aspetto però sicuramente più rilevante, sotto il profilo teorico, è rappresentato dal fatto che la Legge regionale – coscientemente e consapevolmente – sceglie di sostituire un “pezzo” (e forse il pezzo più importante) della pianificazione comunale con uno strumento che non è un Piano, ma è un Accordo, passando così dallo schema tradizionale legalità/conformità (del Piano ed al Piano) ad uno schema basato su effettività/compatibilità (dell’ Accordo negoziale con il privato).
Non solo.
La Legge sceglie (in modo fortemente innovativo) il modello dell’ Accordo “obbligatoriamente sostitutivo” che è assai diverso dal modello “sostitutivo/alternativo” previsto dall’ art. 11 della L. n. 241/1990, dove l’ accordo è sì previsto, ma come solo come possibile alternativa all’ esercizio della funzione mediante il provvedimento autoritativo.
In effetti, nell’ art. 30 della Legge, laddove si parla degli strumenti urbanistici dei Comuni, si dice che la pianificazione urbanistica si articola in PUG e Accordo operativo e Piani Attuativi di iniziativa pubblica i quali “sostituiscono” (non “possono sostituire”) ogni piano operativo e attuativo di iniziativa pubblica e privato comunque denominato .
E’ vero che la Legge disciplina anche i Piani attuativi di iniziativa pubblica (PAIP), ma la loro collocazione indubbiamente “marginale” (nell’ ultimo comma dell’ art. 38) ne rende evidente – anche plasticamente – la loro residualità.
E’ allora importante evidenziare che Piano e Accordo sono due istituti giuridici profondamente diversi, che hanno una diversità che è “ontologica”, cioè che attiene ad una profonda differenza strutturale fra di essi.
Infatti mentre il Piano è un’ “ordinata spaziale e temporale” di un oggetto (in questo caso il territorio), al fine del raggiungimento di un obiettivo stabilito dall’ Amministrazione (attraverso gli Organi a ciò deputati), l’ Accordo è l’ incontro di due volontà, una pubblica e una privata, che hanno scopi e obiettivi profondamente diversi (la volontà privata è – per definizione – “egoistica”, cioè orientata al profitto).
Il Piano è uno strumento di razionalizzazione e di garanzia di imparzialità, perché dispone in modo preventivo e generalizzato, ma con un “fine”, un obiettivo.
E’ anche uno strumento che offre (sempre in un’ ottica di imparzialità, trasparenza, parità di trattamento) – in via generale e preventiva – lo “status” del territorio, cioè le regole delle trasformazioni.
Presenta molte analogie con il , perché è lo strumento che – fino ad ora – il Legislatore nazionale ha individuato come strumento ottimale per operare la “sintesi” e il “contemperamento” dei molteplici interessi implicati nel governo del territorio.
Ritengo che il riferimento al Piano (ed alla attività di pianificazione) nella Costituzione sia da individuare nell’ art. 41 e cioè nella norma che prevede che “la Legge determina i programmi ed i controlli perché l’ attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata a fini sociali”.
Pertanto, senza enfasi, si può dire che il Piano è la traduzione concreta del principio di “democraticità” nel governo del territorio, nel senso che tutti i diversi interessi vengono raccolti e il Piano ne fa sintesi in vista di un obiettivo che è stabilito dalla maggioranza consiliare democraticamente eletta.
L’ Accordo, viceversa, si fonda su di una struttura che è sostanzialmente paritaria e bilaterale, su di un preciso “sinallagma” (cioè su di un rapporto di interdipendenza tra una prestazione ed una controprestazione) ed ad esso sono applicabili, in quanto compatibili, i principi in materia di obbligazioni e contratti (la disciplina dell’ inadempimento, ad esempio).
Parafrasando un celebre proverbio cinese, si tratta, cioè di istituti che vivono sotto “Cieli diversi”, dove gli orizzonti e le regole di riferimento sono notevolmente diversi .
In effetti, ciò che è concretamente avvenuto, è la sostituzione di una parte importante (e forse della parte più significativa) del Piano, con uno strumento diverso, l’ accordo, che – a differenza del Piano – è basato su di un confronto e su di un dialettica “binaria”, tra parti sostanzialmente uguali e poste sullo stesso piano.
Nel Piano, viceversa, le relazioni sono “multipolari” (essendo molteplici gli interessi implicati), ma l’ interesse pubblico è sempre destinato a prevalere.
Altra particolarità è data dal fatto che nell’ Accordo, a fronte di un privato “forte” (il proponente), a cui l’ Amministrazione finisce per delegare una quota parte della funzione, ci sono i restanti privati (cittadini), per i quali lo strumento per partecipare alle scelte resta quello (obsoleto e sicuramente datato) delle , mero apporto collaborativo, da rendere entro termini perentori (anche se, indubbiamente, la nuova Legge amplia gli strumenti di “consultazione preliminare”).
E’ singolare che tutto questo avvenga mentre si afferma con convinzione (art. 1 della Legge) che il suolo è un “Bene comune” e che, in quanto tale, dovrebbe essere sottratto ad una logica sostanzialmente bilaterale e contrattuale.
Autorevole Dottrina , in periodo non sospetto, scrive:
“gli sviluppi fondamentali del diritto urbanistico non possono essere affidati al metodo della contrattazione. Questo metodo, rispetto alla pianificazione urbanistica può essere utile in alcuni casi, ma non può essere assunto sistematicamente. Frammenta inevitabilmente il quadro generale di riferimento: inoltre la trattativa tra il comune e il singolo operatore rischia di privilegiare una logica di bilateralità, incentrata sulle ragioni di una determinata proprietà. Invece, almeno per il piano regolatore generale, va salvaguardato il riferimento all’ interesse di tutti i cittadini” .
La stessa dottrina che più ha approfondito la tematica degli accordi afferma che:
“Se le scelte pianificatorie effettive sono oggetto solo del contratto nel quale si fissano i contenuti dello scambio, gli apparati amministrativi perdono l’ ancoraggio determinato dalle scelte del piano strutturale e non sono più garantiti da regole generali: riemerge così una eccessiva discrezionalità delle scelte operative che marginalizza gli apparati amministrativi a favore di una discrezionalità tutta politica ed economica, con conseguente dell’ Amministrazione sul livello politico delle scelte che diventano il vero parametro per misurare lo scambio pur in funzione della realizzazione di opere di urbanizzazione e servizi”.
Si tratta di un rischio potenziale, che potrebbe risultare fortemente accentuato dalla contemporanea operatività di alcuni fattori che interagiscono tra loro:
1) il principio di che porta a ritenere “cedevole” il principio fondamentale (di legalità) di cui all’ art. 23 della Costituzione;
2) la indeterminatezza e la in-definizione intrinseca dell’ interesse pubblico (si veda l’ esempio dello sviluppo delle attività produttive ritenuto ora obiettivo di “interesse pubblico” e le discussioni sull’ ambito di operatività del PdC in deroga di cui la nota vicenda del “Fondaco dei Tedeschi” a Venezia è un caso esemplare);
3) il ruolo fondamentale assunto dall’ elemento “tempo” e la esplosione della responsabilità della PA (sia per il ritardo che quella diretta nei confronti dei singoli dipendenti pubblici);
4) l’ affermarsi del che tendenzialmente “svincola” ogni strumento dal rigido rapporto di “conformità” allo strumento sovraordinato, sostituendovi una più elastica nozione di “compatibilità”.
L’ insieme di questi fattori produce un quadro del tutto nuovo, già evidenziato dagli autori citati e che è possibile sintetizzare in questo modo: potrebbe esservi il rischio che l’ Amministrazione comunale invece di “gestire” nell’ interesse della Collettività un “bene comune” (il territorio), possa essere indotta a “scambiarlo” o a “negoziarlo” con il soggetto privato, come se fosse un bene di sua proprietà (conseguenza dell’ evanescenza del concetto di interesse pubblico) e le sue decisioni oltre a non trovare sostanziali limiti negli strumenti sovraordinati (per effetto del principio di competenza), potrebbero risultare condizionate dalle pressioni che il privato è in grado di esercitare, paventando eventuali responsabilità per ritardi (elemento tempo) o per la lesione di legittimi e precedenti affidamenti (esplosione della responsabilità).
In effetti, nonostante il previsto rafforzamento dell’ Ufficio di Piano (forse un po’ utopistico, con riferimento ai piccoli Comuni ed alla loro notoria e cronica scarsità di risorse), c’è il rischio che il “Decisore” (la PA) possa essere catturato dal “Regolato” (il privato) o come afferma la Dottrina, che vi possa essere la “prevalenza degli interessi meglio posizionati, più organizzati e politicamente più forti” .
Molto perciò dipenderà dal fondamentale ruolo che la Legge assegna alla “Strategia per la qualità urbana ed ecologico-ambientale” (art. 34 della legge) e cioè quella componente del PUG che dovrebbe costituire il “quadro di riferimento” per gli accordi operativi e per i piani di iniziativa pubblica.
In particolare, le previsioni della “Strategia” divengono il “riferimento necessario e vincolante” per tutta una serie di scelte (determinazione delle dotazioni territoriali, infrastrutture, etc…), evitando così che la negoziazione degli “Accordi operativi” avvenga “senza rete”.
Quanto più questo quadro di riferimento dettato dalla “Strategia” sarà preciso e vincolante, tanto meno si correrà il rischio che si verifichino le “deviazioni” sopra indicate.
Vi sono poi una serie di questioni collaterali, ma non meno rilevanti.
Come abbiamo visto, l’ accordo arriva
di tutto il procedimento (pubblicazione, parere CU, adeguamento ai pareri del CU e dei soggetti competenti in materia ambientale, etc…) e prevede, in modo un po’ fideistico ed indefettibile, che il privato e il Comune stipulino l’ accordo.
Ma come l’ esperienza insegna, ci possono essere una molteplicità di motivi per cui il privato decida di non sottoscrivere un accordo, che magari si è significativamente modificato (in accoglimento delle osservazioni o a seguito dei pareri del CU o dei soggetti competenti in materia ambientale) ed occorre interrogarsi su cosa possa succedere in ipotesi siffatte .
In ogni caso è evidente che uno dei difetti della nuova norma è il prevedere che l’ Amministrazione operi “a sbalzo” e cioè confidando sul fatto che si pervenga alla stipulazione dell’ accordo, con conseguenze non chiarissime per l’ ipotesi (niente affatto improbabile) che a detta sottoscrizione non si pervenga .
Sarebbe interessante comprendere se in tali ipotesi si possa ipotizzare un “traghettamento” verso i Piani attuativi di iniziativa pubblica (PAIP), che eviti di perdere tutto il lavoro istruttorio (e di partecipazione) posto in essere, ma non pare che la Legge preveda o disciplini tale possibilità.
Sarebbe forse stato utile prevedere, anche nel procedimenti di formazione dell’ AO, la possibilità di stipulare accordi (preliminari) ex art. 61, ove inserire una serie di cautele (o “penali”) nell’ ipotesi in cui il privato decida di “abbandonare il tavolo”.
La Legge non lo prevede e la ragione può forse consistere nel fatto che non è parso “elegante” prevedere un accordo (preliminare) su di un futuro accordo definitivo, ma la struttura del preliminare e del definitivo è quella che, anche nel diritto civile, meglio si presta a regolare situazioni complesse e di non breve durata.
L’ art. 61 (“Accordi con i privati”) a sua volta, presenta un paradosso.
E’ un tipo di accordo previsto solo nella fase di formazione del PUG e siccome il PUG non ha (non dovrebbe avere) indici e parametri, ci si chiede su che cosa ci si accorderà.
In effetti, in vigenza della precedente Legge si sosteneva che la sede ideale ed elettiva per gli accordi ex art. 18 della L.R. 20/2000 era la pianificazione Operativa e non certo quella “strutturale – strategica”.
Ora, questi accordi vengono previsti (accedono) ad uno strumento che è ancora più “generale” e non conformativo (ideogrammatico) rispetto al PSC.
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Per ovviare ad alcune delle problematiche sopra evidenziate, sarebbe stato forse opportuno prevedere l’ obbligo di forme di , che distribuissero su scala locale più ampia (ultra comunale) i benefici della negoziazione.
Questo avrebbe prodotto un duplice beneficio: da un lato avrebbe reso meno “ricattabili” le Amministrazioni (con ricatti del tipo: “se non accetti le mie condizioni, vado nel Comune a fianco”) e dall’ altro avrebbe evitato la possibilità che si generino esasperate forme di competizione territoriale, con una possibile gara “al ribasso”, di cui potrà beneficiare solo il privato e di cui faranno le spese – come è prevedibile – i Comuni più piccoli e marginali.
C’è poi uno scoglio mai del tutto superato e cioè la posizione critica della Giurisprudenza nei confronti della cd. “urbanistica” negoziale .
Le opinioni della giurisprudenza amministrativa, per quanto importanti, non paiono però decisive e insuperabili.
Quello che però lascia perplessi è il rilievo di questa scelta teorica, che crea un modello nuovo ed “atipico” (quantomeno con riferimento agli omologhi istituti presenti nella Legislazione nazionale) con seri dubi di legittimità costituzionale.
Non va dimenticato, infatti, che l’ Accordo Operativo copre – con un Accordo – uno spazio decisionale che nella Legislazione nazionale è tuttora presidiato dal PRG, il quale (ai sensi dell’ art. 7 della L. n. 1150/1942) non solo deve “considerare la totalità del territorio comunale”, ma deve indicare “la divisione in zone del territorio comunale, con la precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Si tratta di aspetti di grande rilievo, che gli artt. 24 e 26 della L.R. 24/2017 indubbiamente attribuiscono all’ Accordo Operativo:
– (art. 24) “le indicazioni della componente strategica del PUG, relative ai criteri di localizzazione delle nuove previsioni insediative, agli indici di edificabilità, alle modalità di intervento, agli usi e ai parametri urbanistici ed edilizi, costituiscono riferimenti di massima circa l’assetto insediativo del territorio comunale, la cui puntuale definizione e specificazione è di competenza esclusiva degli accordi operativi e dei piani attuativi di iniziativa pubblica”.
– (art. 26) “l’attribuzione di diritti edificatori compete: a) agli accordi operativi e ai piani attuativi di iniziativa pubblica di cui all’articolo 38, i quali attuano le previsioni generali del PUG stabilendo il progetto urbano degli interventi da attuare e la disciplina di dettaglio degli stessi, relativa sia agli usi ammissibili, agli indici e parametri edilizi e alle modalità di attuazione sia alla definizione delle dotazioni territoriali, infrastrutture e servizi pubblici da realizzare o riqualificare e alla loro localizzazione”, mentre al PUG ciò compete solo: “limitatamente alla disciplina degli interventi attuabili per intervento diretto, di qualificazione edilizia, di ristrutturazione urbanistica e di recupero e valorizzazione del patrimonio edilizio tutelato dal Piano (…)”.
Non dimentichiamo, però, che la Regione non scrive su un foglio “bianco”, ma poiché il è materia di legislazione concorrente, va sempre verificato il rapporto con i che oggi sono ancora contenuti nella L. n. 1150/1942.
L’ aspetto che appare però più interessante da indagare, è riflettere su quale sia lo scenario in cui la Legge ipotizza la collocazione dell’ AO ed a quali “Attori” (soggetti privati) si rivolge e quali potrebbero risultare le difficoltà concrete che l’ istituto incontrerà sotto il profilo operativo.
In sintesi, mentre la Legge pare poter operare bene con riferimento agli Insediamenti produttivi ed allo sviluppo delle Attività produttive in genere (recupero, riuso degli impianti produttivi dismessi, ma anche ampliamento, riconversione, frazionamento, etc..), consentendo di affrontare in modo efficace, efficiente e pragmatico le molteplici questioni poste dal singolo intervento (si pensi solo al tema estremamente complesso delle cd. “bonifiche”) è meno chiaro come l’ Accordo Operativo possa operare per il recupero degli insediamenti residenziali e cioè con riferimento alla rigenerazione della “Città esistente” che, come è noto, è nelle mani di tanti piccoli proprietari riuniti in Condomini spesso caratterizzati da una alta conflittualità e da una composizione non omogenea e assai variegata (persone anziane, giovani coppie, stranieri, etc..).
In effetti, uno strumento come l’ Accordo Operativo, che ipotizza la presentazione di un “Progetto urbano” e la presentazione di una “Relazione economico-finanziaria” con, la dimostrazione della fattibilità e sostenibilità degli interventi, presupporrebbe (come avviene in molte grandi Città Europea) l’ intervento di grossi “Investitori immobiliari” che si facciano promotori e che supportino (anche economicamente) questo progetto.
Ma ciò non corrisponde minimamente alla realtà italiana, in cui la proprietà è fortemente “parcellizzata” e gli immobili appartengono ai singoli proprietari e in cui appare molto utopistico ipotizzare che questi soggetti privati (che spesso litigano per la ripartizione delle spese condominiali o per banali modifiche in tema di efficientamento energetico) riescano a coagularsi per farsi promotori di una proposta di AO.
Il rischio, perciò è quello di una Legge un po’ “strabica”, che affronta correttamente le problematiche poste dalle attività produttive, ma forse non altrettanto capace di incidere concretamente sulla rigenerazione della Città esistente (o delle “maglie” più sfilacciate della stessa).
Va detto, però, che le responsabilità non sono (o non sono solo) del Legislatore regionale, dato che – come abbiamo già esplicitato in precedenti contributi – la rigenerazione richiederebbe, per funzionare efficacemente, importanti modifiche che solo il Legislatore nazionale può operare, come un allentamento della disciplina codicistica in tema di uso dei beni comuni e della necessaria unanimità di determinati atti di disposizione dei beni immobili.
Essa richiederebbe anche una serie riflessione sul tema della “fiscalizzazione” degli abusi minori e della legittimazione del cd. “stato di fatto” degli immobili, temi da affrontare con un pragmatismo molto maggiore, dato che altrimenti qualunque operazione di riuso e rigenerazione si arresta e si blocca di fronte al rilievo della “non conformità” dello stato di fatto e della previa necessità di complesse e onerose sanatorie di abusi magari risalenti ad oltre 50 anni fa .
Tornando al tema in esame, un’ altra importante innovazione della Legge, è quella relativa all’ introduzione del Principio di competenza, di cui all’ art. 24, principio che, per espressa ammissione della Legge vuole “superare il meccanismo della pianificazione a cascata” che è uno dei tratti caratteristici della L. 1150/1942.
E’ noto come il sistema della L. n. 1150/1942 è tuttora improntato su di una sequenza gradualistica di Piani, gerarchicamente ordinati .
Non è affatto un modello superato, se pensiamo che lo stesso art. 145 del D. Lgs. 42/2004, costruisce il rapporto tra Piano paesistico e altri piani proprio in questo modo.
Il principio di competenza (un Territorio / un Piano) potrebbe essere anche astrattamente corretto e condivisibile, ma probabilmente, lo avrebbe dovuto introdurre il Legislatore statale e rischia di indebolire significativamente il rapporto tra PUG e Accordo Operativo, dato che si stabilisce che “in caso di conflitto prevale quanto stabilito dal piano la cui regolazione di quella materia è conferita dalla legge” (art. 24).
Se questo nuovo principio lo associamo al fatto che il PUG è tendenzialmente , capiamo quanto possa risultare intrinsecamente “debole” il possibile condizionamento che il PUG può svolgere nei confronti dell’ Accordo.
Può aggiungersi che l’ introduzione di questo principio, a parte i dubbi di costituzionalità, crea numerosi equivoci anche con riferimento ad altri aspetti ed istituti, come ad esempio le cd. “Misure di salvaguardia” (che si giustificano in un sistema ordinato gerarchicamente), ma anche in riferimento al rapporto con la cd. pianificazione “sovraordinata” (perché sovraordinata? / ancora sovraordinata?).

La cd. Fase transitoria

Molti di questi aspetti problematici caratterizzano anche la cd. fase transitoria.
In effetti, consentire di attuare con AO le previsioni inserite nei PSC (senza inserimento nel POC) e previa assunzione di un Avviso per le manifestazione di interesse e una successiva Delibera di indirizzi rischia di “mettere in gioco” (almeno potenzialmente) una significativa quantità di aree.
Quelle aree che i PSC avevano inserito non perché corrispondessero ad un effettivo dimensionamento, ma per attuare una sorta di “competitività” tra le stesse per l’ inserimento in POC.
Ora, tutte queste aree vengono (potenzialmente) (ri)“messe in gioco”.
Ricordo che – ai sensi dell’ art. 6, 7° comma – “non sono computate nella quota massima (del 3%) le aree utilizzate per l’ attuazione delle previsioni dei piani urbanistici vigenti ai sensi dell’ art. 4” .
L’ aspetto più interessante però è un’ altro.
A parte il chiedersi se la sia un atto di pianificazione (e perciò non richieda il procedimento ordinariamente previsto per gli atti di pianificazione e cioè adozione/deposito/osservazioni/controdeduzioni/approvazione), è evidente come l’ art. 4, laddove prevede (in modo abbastanza ambiguo) che la delibera di indirizzo sia preceduta da un “Avviso pubblico di manifestazione di interesse”, svela uno delle ambiguità più rilevanti della Legge stessa.
E cioè se le scelte urbanistiche siano ancora di esclusiva pertinenza della Amministrazione (e allora, la delibera di indirizzi dovrebbe logicamente precedere la “manifestazione di interesse”), ovvero se siano ormai da ritenersi oggetto di una sorta di “cogestione” tra PA e privati, come parrebbe desumersi dal fatto che la delibera di indirizzi “segue” la manifestazione di interesse e le proposizione delle proposte da parte dei privati.
In realtà la Circolare applicativa della Legge, pare sposare la prima tesi, laddove indica chiaramente come l’ individuazione degli obiettivi “prioritari” spetta al Comune e proprio per questo suggerisce che la Giunta dovrebbe già specificare nel Bando le priorità, i requisiti, le condizioni e i limiti (che dovrebbero poi essere ratificati dal Consiglio) .
Il fatto che l’ art. 4, comma 2 della Legge si riferisca alle previsioni del PSC a cui dare “immediata attuazione”, lascia aperta la questione se (nel periodo transitorio) sia possibile anche un’ attuazione (non immediata, ma) “ordinaria” delle previsioni del PSC, ovvero se, invece, la delibera funzioni come una sorta di “misura di salvaguardia”, indicando le trasformazioni che (ancorchè previste dal PSC) non possono però più trovare attuazione a seguito dell’ assunzione della delibera stessa.
Ci si deve anche chiedere cosa si verifichi nell’ ipotesi in cui il Comune non assuma alcuna delibera e cioè se in tali ipotesi resti impregiudicato il potere del Comune di procedere (nel periodo transitorio) all’ attuazione dei propri strumenti secondo le modalità previste dalla legislazione previgente.
Per quanto riguarda, invece i Comuni che hanno ancora il solo PRG, non vi è dubbio che la delibera operi come una sorta di (“anomala”) variante del PRG stesso e ci si può interrogare sulla legittimità (costituzionale) di detta delibera priva, all’ evidenza, dell’ intervento dell’ Ente sovraordinato.
Inoltre, la legge non chiarisce quale sia l’ Organo che debba esprimersi sulle proposte presentate (fermo restando che compete al Consiglio Comunale l’ assunzione della delibera di indirizzi).
Si ritiene che, in attuazione di detta delibera, spetti poi alla Giunta, in analogia a quanto previsto dall’ art. 38, comma 7 della Legge, valutare l’ interesse pubblico alla realizzazione della proposta.
Ci sono, poi, tutta una serie di interessanti questioni, molte delle quali si ripropongono anche in riferimento agli Accordi Operativi che verranno stipulati “a regime”.
Per molte di queste, la soluzione non è agevole né scontata e ci si limiterà esclusivamente ad enunciarle, semplicemente “abbozzando” alcune possibili soluzioni:
1) Si possono fare AO nella fase transitoria senza la costituzione dell’ Ufficio di Piano?
Si, la Legge li prevede anche prima della costituzione di detto Ufficio, ma è evidente che occorrerà ugualmente valutare quegli aspetti che in senso all’ Ufficio di Piano saranno presidiati da professionalità specifiche;
2) Nella fase transitoria, si possono fare anche PAIP?
Si ritiene che nulla vieti tale possibilità, laddove l’ Amministrazione ne ravvisasse l’ opportunità e la convenienza;
3) Che rapporto c’è tra i POC stralcio (citati nella Circolare illustrativa della fase transitoria) e gli AO? Il singolo privato potrebbe proporre un POC stralcio anziché partecipare al Bando e proporre un AO?
Si ritiene che entrambi gli strumenti possano essere utilizzati. Il vantaggio nell’ utilizzo del POC “stralcio” è forse rappresentato dal fatto che, in tal modo, non si è costretti ad anticipare tutti gli elaborati propri di uno strumento attuativo (che potrebbero essere presentati anche in seguito);
4) E’ possibile che la proposta di AO parta dall’ Amministrazione? Quali le modifiche nel procedimento?
Non si vede alcuna preclusione al fatto che la proposta dell’ AO parta dalla PA piuttosto che dal privato. In questo caso, si può dire che la valutazione circa l’ interesse pubblico è “in re ipsa”;
5) Se viene presentata un proposta di AO, c’è un obbligo di risposta? Se si, con quali contenuti? (posso limitarmi a dire che non voglio fare l’ accordo o devo entrare “nel merito”)?
Ritengo che vi sia un espresso obbligo di risposta (in tal senso, TAR Lazio, Roma, 5536/2013; ma anche TAR Puglia, Lecce, 05.07.2018 n. 1105). Ciò, a maggior ragione, se lo strumento dell’ accordo diviene lo strumento “tipico” di esercizio della funzione. Così come vi è un obbligo di risposta per l’ attività provvedimentale, vi è – a maggior ragione – un obbligo di risposta a fronte di una proposta “negoziale” (si vedano, al riguardo, le condivisibili affermazioni di cui all’ Adunanza Plenaria n. 5 del 2018, in tema di “doveri di correttezza, lealtà e buona fede” che gravano sulla PA);
6) Quale Organo deve rispondere nella Fase transitoria? (Giunta o Consiglio)? Potrebbe sostenersi che in caso di diniego deve rispondere il Consiglio?
Se si esamina la questione secondo l’ art. 42 del TUEL e in analogia con quanto affermato dalla giurisprudenza in tema di approvazione dei Piani attuativi si può ritenere che il diniego debba essere espresso dal Consiglio;
7) Quale organo valuta – ai sensi del 7 comma dell’ art. 38 (a regime) – l’ interesse pubblico?
In questo caso si ritiene che poiché vi è una sorta di (pre) valutazione, competa alla Giunta (come già avveniva negli artt. 18 della l.R. 20/2000, esprimersi sull’ interesse pubblico. Al Consiglio spetterà poi sottoscrivere l’ Accordo.
8) Potrebbe il Consiglio rifiutarsi di sottoscrive l’ Accordo?
Si ritiene di sì, in ragione dell’ “inesauribilità” della valutazione del’ interesse pubblico. Ovviamente, dovrà fornirsi congrua motivazione di tale ;
8) Quanto dura un’ AO?
Si ritiene che spetterà all’ Accordo disciplinare la sua durata ed anzi, tale elemento dovrebbe essere un elemento indefettibile;
9) Come si impugna un’ AO (da parte di un terzo)? Entro quali termini?
Più semplice – forse – la questione sui termini (60 giorni dalla pubblicazione sul BURER sempre che sia avvenuta anche la pubblicazione sul sito web, altrimenti l’ accordo è inefficace); Quanto all’ impugnazione di un Accordo, pare preferibile ipotizzare un’ azione di accertamento della sua illegittimità. E’ però assai complesso comprendere quale sia il vincolo discendente da una pronuncia siffatta. Il Giudice dovrebbe essere quello Amministrativo, ai sensi dell’ art. 133 del CPA;
11) Quale rapporto tra AO e Convenzione?
Si ritiene che per evitare inutili (e potenzialmente pericolosi) “doppioni” sia opportuno che l’ Accordo sia molto stringato e corrisponda – grosso modo – alla delibera di approvazione del Piano, mentre spetterà alla Convenzione regolare “gli obblighi funzionali al soddisfacimento dell’ interesse pubblico assunti dal privato”, le garanzie finanziarie e la cronologia.
Ovviamente, le questioni sono molte di più di queste, ma ci si è limitato ad enunciare le più evidenti ed immediate.

Accordo Operativo e Varianti

Varie sono le questioni che si possono porre.
La prima potrebbe consistere nella domanda se l’ Accordo Operativo possa costituire “variante” al PUG.
Come abbiamo cercato di dimostrare nelle premesse generali, in questi termini la risposta pare mal posta.
In effetti, stante il principio di competenza e il passaggio da un rigida “conformità” ad un principio di compatibilità, il PUG pare costituire semplicemente un “quadro di riferimento” per gli Accordi Operativi, tanto è vero che all’ art. 33, comma 2, si dice chiaramente che le indicazioni di carattere progettuale e localizzativo sono mere indicazioni di massima, che sono specificate in sede di accordo operativo o di piano attuativo di iniziativa pubblica, in applicazione del principio di competenza.
C’è un unico aspetto del PUG che costituisce “riferimento necessario e vincolante” per l’ AO e cioè il fatto che i contenuti della “Strategia” devono essere necessariamente osservati per la determinazione delle dotazioni territoriali, delle infrastrutture e dei servizi cui è subordinata la realizzazione degli interventi.
Forse questa è l’ unica ipotesi in cui si più porre il problema, in sede di AO, di una “variante” al PUG, con specifico riferimento a detti aspetti.
In tale ipotesi, dato che l’ AO ha una propria disciplina procedimentale (contenuta nell’ art. 38), che non coincide con il procedimento “unico” di cui agli artt. 43 e ss., si ritiene che, qualora vi sia la necessità di procedere alla previa modifica del PUG, si debba prima procedere a detta modifica e solo successivamente potrà darsi l’ avvio al procedimento di cui all’ art. 38.
Per quanto riguarda, invece, le varianti all’ AO che dovessero rendersi successivamente necessarie, anche qui la Legge è molto scarna.
Vi è un unico riferimento al 16° comma dell’ art. 38, che però pare riferirsi alle “varianti” ai titoli abilitativi di cui l’ AO può assumere valore ed effetti e che “possono essere autorizzate in fase attuativa con ordinari titoli edilizi”.
Il problema però si pone per le modifiche/varianti dei contenuti dell’ AO.
Ci si deve chiedere se, in tali ipotesi, occorra procedere ad un “nuovo Accordo” ovvero (in sostanziale analogia con quanto avveniva per i Piani attuativi) se lo stesso Accordo possa (esso stesso disciplinare) ipotesi di varianti non sostanziali, che non mutano i contenuti essenziali dell’ Accordo e che possano essere introdotte in fase attuativa, mediante una semplice modifica dei contenuti negoziali.
Per questa ipotesi, in analogia a quanto avviene nell’ Accordo di Programma, si potrebbe anche ipotizzare la costituzione di un Collegio di vigilanza sull’ Accordo, magari composto da un rappresentante dell’ Amministrazione, dal privato e da un componente del Comitato Urbanistico, che valuti se dette modifiche siano o meno ammissibili o richiedano l’ avvio di un nuovo accordo.
In alternativa, si potrebbe prevedere un procedimento (che però la Legge non individua) “semplificato”, che introduca le modifiche che non risultano sostanziali, salvaguardando, in ogni caso, il diritto della Collettività di esprimersi preventivamente.
Infine, un’ ultimo aspetto che può apparire interessante è chiedersi se le varianti all’ AO possano anche essere giustificate dalla necessità di una revisione delle condizioni economiche – finanziarie dell’ intervento, in sostanziale analogia con quanto viene oggi previsto nel Codice dei Contratti.
Si ritiene che poiché tale aspetto è fondamentale per garantire la fattibilità e la sostenibilità del’ intervento, ove si verifichino fatti oggettivi, che incidono sull’equilibrio del piano economico finanziario si possa procedere alla revisione dell’ AO, per la rideterminazione delle condizioni di equilibrio.
In effetti, tale Relazione economico-finanziaria che la Legge disciplina essenzialmente come strumento di “garanzia” per l’ Amministrazione (nel senso di previa dimostrazione della “fattibilità” dell’ intervento) è facile prevedere che assumerà un ruolo “cruciale” nella complessiva dinamica dell’ esecuzione dell’ Accordo, dato che costituirà l’ elemento centrale del complessivo “sinallagma” negoziale, ponendosi in un rapporto di condizionalità reciproca tra le prestazioni pubbliche e private.
Trattandosi cioè del individuato dalle due parti in sede di sottoscrizione dell’ Accordo, è evidente che – a differenza di quanto avveniva in passato per gli accordi urbanistici – la modifica di tale punto di equilibrio diverrà rilevante in tutte le ipotesi previste dalla Legge in tema di obbligazioni e contratti.

Il procedimento delineato dall’ art. 38 per sottoscrizione dell’ Accordo Operativo.

Si tratta di un iter non breve, che può andare dai 200 ai 260 giorni.
Viene presentata una Proposta che contiene i seguenti elaborati:
a) il progetto urbano;
b) la convenzione urbanistica (con gli obblighi che il privato assume, il cronoprogramma e le garanzie finanziarie);
c) la relazione economico-finanziaria (che dimostra la sostenibilità e la fattibilità degli interventi);
d) la Valsat (ovvero il rapporto preliminare nel caso di AO sottoposto a mera verifica di assoggettabilità: art. 39).
Si deve acquisire l’ informativa antimafia e la Convenzione deve prevedere una clausola risolutiva in caso di informativa antimafia interdittiva.
Si specifica che non si può chiedere (in aggiunta al contributo di costruzione e del contributo straordinario, ove previsto), alcun ulteriore “corrispettivo monetario”.
La proposta viene pubblicata (sul sito web) e depositata così che chiunque ne può prendere visione.
Entro il termine (perentorio) di 60 gg. Il Comune valuta l’ interesse pubblico e, entro il medesimo termine, si svolge la (eventuale) “negoziazione” con il Comune.
Il termine può essere raddoppiato con motivata risoluzione del responsabile del procedimento.
Nei 10 giorni successivi il Comune (la Giunta) si esprime sulla proposta e procede a (ri) pubblicarla per 60 giorni (con avviso anche sul BURERT). Entro questo termine chiunque può prenderne visione e presentare osservazioni.
Vanno svolte anche le forme di consultazione di cui all’ art. 45, comma 8 (presentazione pubblica dell’ Accordo nonché, anche su impulso del Garante, un’ istruttoria pubblica, un contraddittorio pubblico o un processo partecipativo).
Salvo i casi in cui l’AO è esentato dalla valsat e dalla valutazione del CU, la proposta è trasmessa:
a) ai soggetti competenti in materia ambientale per il prescritto “parere”;
b) al CU competente
Nei successivi 30 giorni, acquisite anche le osservazioni, il CU formula il suo parere ed è previsto che in caso di mancata espressione nei termini, il parere sia da intendersi positivo.
Circa il parere del CU e la (non chiara) natura di detto Comitato si rinvia alle considerazioni che seguono.
Nei successivi 30 giorni, il Consiglio comunale autorizza la stipula dell’ accordo, decidendo sulle osservazioni.
Il privato e il rappresentante legale del Comune stipulano l’ accordo nei 10 giorni successivi.
L’ accordo è pubblicato sul sito web e sul BURET ed è efficace dalla pubblicazione sul BURERT a condizione che sia stato pubblicato anche sul sito web.
Può avere anche valore di titolo abilitativo edilizio e può comportare l’ apposizione del vincolo preordinato all’ esproprio e la dichiarazione di pubblica utilità (con le formalità necessarie in sede di pubblicazione).
Infine, l’ art. 38 dedica uno “striminzito” comma ai Piani attuativi di iniziativa pubblica, che sono predisposti e approvati secondo il cd. “procedimento unico” di cui agli artt. 43 e ss.
Per questi Piani di iniziativa pubblica, è possibile promuovere il coinvolgimento dei privati con la sottoscrizione di un accordo ex art. 61.

Il Permesso di Costruire Convenzionato

Per quanto la Legge (art. 4) sostanzialmente li disciplini in modo unitario, nell’ art. 4 con riferimento alla fase transitoria, vi è una differenza sostanziale, tra AO e PdC convenzionato.
Nel caso del PSC viene concessa (con l’ AO) una possibilità di edificare che il privato non aveva; nel caso del Pdc convenzionato si realizza semplicemente una semplificazione procedimentale e di tempi, ma il privato avrebbe già la possibilità di attuare (mediante Piano attuativo) l’ intervento.
Prima di tutto è però necessario inquadrare correttamente l’ istituto.
L’ art. 28 bis è stato introdotto con la Legge 164/2014 (più nota come “Sblocca Italia”), e serve – per espressa dichiarazione del Legislatore – quando “le esigenze di urbanizzazione possono essere soddisfatte con modalità semplificate” .
La differenza rispetto ad un normale titolo abilitativo, che – come è noto – è espressione di attività vincolata (anzi, la giurisprudenza lo definisce spesso “accertamento costitutivo a carattere non negoziale”) consiste nel riemergere di una indubbia discrezionalità in capo all’ Amministrazione e nella necessaria presenza di un interesse pubblico che non è predefinito e che si concretizza in un atto negoziale (la convenzione), non a caso affidata dalla Legge al Consiglio, salva diversa previsione delle Leggi regionali.
In data pressochè coeva, la nostra Legge regionale n. 14/2014 prevede che “I nuovi insediamenti produttivi oggetto dell’accordo per l’insediamento e lo sviluppo sono localizzati in ambiti specializzati
per attivita’ produttive disciplinati dalla pianificazione urbanistica e territoriale vigente, ai sensi dell’articolo A-13 della legge regionale 24 marzo 2000, n. 20 (Disciplina generale sulla tutela e l’uso del territorio), prioritariamente in aree produttive dismesse o in corso di dismissione e in aree ecologicamente attrezzate. In tale caso, la realizzazione degli insediamenti produttivi e’ subordinata al rilascio di permesso di costruire convenzionato”.
In realtà, lo strumento non ha nulla di particolarmente innovativo se si considera che ai sensi dell’ art. 12 del DPR 380/2001 il rilascio del titolo abilitativo presuppone l’ esistenza delle dotazioni territoriali o l’ impegno alla loro realizzazione nel triennio. Pertanto, un permesso di costruire ben potrebbe essere “affiancato” da un accordo integrativo ex art. 11 della L. n. 241/1990 contenente l’ impegno del provato alla realizzazione delle opere di urbanizzazione carenti o mancanti.
La differenza con il PdC convenzionato risiede nel fatto che la convenzione è assegnata dalla Legge al Consiglio comunale, in ragione del fatto che la Legge amplia i margini di operatività dell’ istituto, consentendo, ad esempio, la realizzazione di interventi di ERS o termini di validità più ampi e collegati a stralci funzionali.
Non pare inutile ricordare che il Legislatore ha pero avvertito la necessità di precisare che è il titolo abilitativo che “resta la fonte di regolamento degli interessi”, quasi a ricordare e sottolineare la primazia del momento provvedimentale e la non riconducibilità dell’ istituto ad una negoziabilità paritaria.
La previsione della necessaria competenza del Consiglio non è parsa del tutto coerente con la norma che assegna alla Giunta l’ approvazione di Piani attuativi conformi agli strumenti sovraordinati (art. 5 comma 13, lettera b) del D.L. 70/2011), e ciò potrebbe condurre a chiedersi se il PdC convenzionato non possa comportare deroghe agli strumenti sovraordinati .
In genere la risposta è negativa, ma non si comprende il perché, nei limiti in cui è ammesso il Permesso di costruire in deroga (che non a caso, è anche esso di competenza del Consiglio Comunale).
In realtà, la previsione di Legge ha una sua logica e trova giustificazione del disposto dell’ art. 11 della L. n. 241/1990, laddove si prevede che la stipulazione dell’ Accordo è preceduto da una delibera del’ organo istituzionalmente competente che, in effetti, è (e non può che essere) il Consiglio Comunale, dato che, in questo caso, non si tratta di un’ attuazione “conforme”, ma della sostituzione dello strumento previsto dal PRG (il Piano attuativo), con uno strumento che svolge funzioni analoghe, ma con un iter procedimentale assai differente.
Ci si può chiedere poi se l’elencazione di cui al comma 3 (cessione di aree, interventi ERs, etc…) sia tassativa, ma la risposta pare negativa sia per ragioni testuali (la norma pare fare un elenco esemplificativo), sia per ragioni di necessaria flessibilità dell’ istituto, soprattutto per come ne viene previsto l’ utilizzo nella nostra Legge regionale n. 24/2017 (e cioè come strumento attuativo del PRG o del POC).
Per quanto riguarda le opere di urbanizzazione e la loro realizzazione, la norma deve però essere letta in combinato disposto con quanto ora dispone il D. Lgs. n. 50/2016, in tema di realizzazione di opere di urbanizzazione, con particolare riferimento ai limiti relativi alle opere di urbanizzazione secondaria.
Molto importante la previsione degli “stralci funzionali” e della corrispondente possibilità di “modulare” la realizzazione delle garanzie finanziarie, che costituisce una valida risposta ai problemi ed alle difficoltà poste dalla crisi economica.
Poiché la norma parla genericamente di “garanzie” ci si può chiedere se possano trovare spazio (in via convenzionale) altre e diverse forme di garanzia, non solo fidejussoria, come garanzie reali (quali il pegno o l’ ipoteca).
Un’ altra questione interessante è quella relativa al fatto se il termine di inizio e fine lavori sia quello dell’ art. 15 del TU, ovvero se la norma autorizzi termini diversi e più lunghi.
A parere dello scrivente questa ipotesi è sicuramente preferibile, anche in ragione della natura dello strumento che viene qualificato come una sorta di Piano attuativo “semplificato”.
Certamente, in ragione di quanto prevede la L.R. 24/2017 (e la circolare attuativa) detti termini devono essere certi e chiaramente individuati e prevedere un’ attuazione se non “immediata”, sicuramente ravvicinata degli interventi.
Un aspetto di sicuro interesse è rappresentato dal fatto se anche al PdC convenzionato si applichi il principio dell’ equilibrio economico – finanziario espressamente previsto dall’ art. 38 per l’ Accordo Operativo.
Credo che la risposta debba essere positiva e un significativo argomento in tal senso è dato da una interessante pronuncia del TAR Lombardia, Brescia, n. 741/2017, che afferma, proprio con riferimento ad un Pdc convenzionato che: “Il permesso di costruire convenzionato, ora codificato nell’art. 28-bis del DPR 380/2001, consente all’amministrazione di ottenere vantaggi per i quali in passato era necessario un vincolo espropriativo, con i relativi oneri economici. Si tratta però di uno strumento che deve essere utilizzato nei rispetto del principio di proporzionalità, essendo evidente il rischio che attraverso questa leva la proprietà privata venga sottoposta a un trattamento deteriore rispetto a quello assicurato dalle ordinarie procedure espropriative (…) deve però esservi un rapporto proporzionato tra i diritti edificatori attribuiti ai privati e la superficie oggetto di cessione, e deve esservi un ragionevole equilibrio anche nell’utilità finale conseguita rispettivamente dai privati e dall’amministrazione”.
Quanto agli aspetti problematici, uno di questi è sicuramente rappresentato dalla mancata previsione di norme in grado di garantire la partecipazione.
La carenza non è di poco conto, se si considera che il PdC convenzionato diviene una sorta di “surrogato” del Piano attuativo e la Legge lo individua come lo strumento principale per dare attuazione alle norme del PRG e del POC nella fase transitoria .
Una soluzione pratica potrebbe consistere nel prevedere che la delibera del Consiglio sia preceduta da una fase di pubblicazione e di raccolta delle osservazioni su cui poi decide il Consiglio.
Altra grave carenza dello strumento in esame è la mancanza della VAS/Valsat e cioè di una verifica della sostenibilità ambientale dell’ intervento che pone – laddove lo strumento viene previsto come “surrogato” della pianificazione attuativa – indubbi problemi di compatibilità con la Direttiva UE in materia di VAS.

Il cd. Procedimento unico

Di grande interesse anche il procedimento che il Legislatore regionale ha individuato per l’ approvazione del progetto definitivo ed esecutivo delle opere pubbliche o di interesse pubblico nonché per l’ ampliamento, la ristrutturazione, ma anche la nuova costruzione di fabbricati o altri manufatti necessari per lo sviluppo e la trasformazione di attività economiche già insediate .
La disciplina è contenuta nell’ art. 53 (“Procedimento unico”) e consente:
a) di acquisire tutte le autorizzazioni, intese, concessioni, licenze, pareri, concerti, nulla osta ed assensi comunque necessari;
b) di approvare la loro localizzazione se non prevista negli strumenti urbanistici, ovvero in variante degli strumenti stessi.
Come già per l’ art. 8 del D.P.R. n. 160/2010 e per l’ art. A-14 bis della Legge regionale n. 20/2000 (norma che, peraltro, parrebbe rimasta in vigore fino all’ Atto di coordinamento tecnico che andrà a sostituire l’ Allegato della L.R. 20/2000), l’ intero procedimento fa perno sulla Conferenza di servizi (simultanea e sincrona) a cui sono chiamate a partecipare tutte le Amministrazioni titolari a vario titolo di competenze di amministrazione attiva, consultiva o di controllo .
La Legge si preoccupa di disciplinare l’ ipotesi in cui la localizzazione costituisca variante e della conseguente necessità che vi sia il preventivo assenso degli organi competenti, ovvero la successiva ratifica a pena di decadenza, nonché che vengano rispettate le norme in tema di deposito, pubblicazione e possibilità di presentazione delle osservazioni.
Va peraltro rilevato come la norma non pare perfettamente “allineata” con le norme in materia di espropri e di progettazione (D.Lgs. n. 50/2016 e s.m.i.) che paiono richiedere la conformità urbanistica fin dalla fase del progetto di fattibilità tecnica ed economica (art. 23).
Inoltre, il procedimento iper-contratto e semplificato pone anche qualche questione relativamente alla possibilità di concreta partecipazione degli interessati .
La conferenza si conclude con la motivata determinazione dell’ Amministrazione procedente a cui si applicheranno le nuove norme in tema di conferenza dettate a seguito della cd. Riforma Madia (tra cui le norme in materia di autotutela e di opposizione da parte delle Amministrazioni dissenzienti).
Importante, anche in questo caso, l’ acquisizione dell’ informazione antimafia non interdittiva, che è requisito imprescindibile per la conclusione della conferenza e per la sua efficacia.
Il procedimento unico è utilizzabile per i progetti non sottoposti a VIA, per i quali valgono, invece, le norme della L.R. 4/2018 e il cd. Procedimento Autorizzatorio Unico Regionale (PAUR) .
Una questione di sicuro interesse è rappresentata dal chiedersi cosa avvenga nelle ipotesi in cui scada il titolo abilitativo e non venga medio tempore realizzato l’ intervento.
Ci si chiede, cioè, se in questa ipotesi decada anche la variante, come parrebbe corretto, dato che l’ intento del Legislatore è solo quello di creare le condizioni per la concreta attuabilità di un determinato intervento (non conforme), non di introdurre una modifica alla disciplina urbanistica preesistente.

I nuovi protagonisti: Ufficio di Piano e Comitato Urbanistico (CU).

La Legge regionale affida un ruolo estremamente importante a due nuove realtà organizzative, l’ Ufficio di Piano e il Comitato Urbanistico, anche se non precisa adeguatamente la loro “natura”.
Quanto all’ Ufficio di Piano, disciplinato all’ art. 55 e va costituito entro il termine perentorio di tre anni dall’ entrata in vigore della legge, pena il determinarsi di tutte le preclusioni di cui all’ art. 4, comma 7 della Legge (in sostanza, la possibilità di procedere ai soli interventi di riuso e di rigenerazione urbana ed ai soli interventi da attuare con titolo abilitativo diretto, anche in attuazione di strumenti attuativi previgenti).
Poiché per la composizione dell’ Ufficio sono previste specifiche competenze professionali (in campo pianificatorio, paesaggistico, ambientale, giuridico ed economico finanziario), ci si può chiedere se tale Ufficio funzioni come un organo “complesso” e cioè richieda (pena la non legittimità nello svolgimento delle sue attribuzioni) la necessaria presenza della totalità dei suoi componenti .
La Legge regionale stabilisce poi che Il rapporto di collaborazione con l’ufficio di piano per l’elaborazione e gestione del PUG costituisce, per la sua durata e per i due anni successivi alla sua scadenza, causa di incompatibilità rispetto ad ogni incarico attinente alla predisposizione e presentazione di accordi operativi, accordi di programma e titoli abilitativi convenzionati, attuativi del medesimo piano.
Al Comitato Urbanistico, (CU) disciplinato all’ art. 47, la legge regionale assegna invece il compito di “coordinare ed integrare in un unico provvedimento” varie funzioni, tra cui quella (fondamentale) di “esercizio delle funzioni di partecipazione del livello territoriale a competenza più ampia alla determinazione di approvazione degli strumenti di pianificazione”.
L’ art. 47, comma 2, stabilisce che “ciascun ente o amministrazione, facente parte del CU o chiamato a partecipare ai suoi lavori con voto consultivo, è rappresentato da un unico soggetto abilitato ad esprimere definitivamente e in modo univoco e vincolante la posizione dell’ente o amministrazione stessa. Il rappresentante unico può chiedere l’intervento di altri soggetti facenti parte del proprio ente o amministrazione, in funzione di supporto”.
Non è però chiaro se tale Comitato costituisca un “Organo collegiale” che decide a maggioranza dei suoi componenti, ovvero se (come parrebbe dal richiamo a quanto si prevede per la conferenza di servizi: art. 14 ter, comma 3), si tratta solo di un “modulo procedimentale”, che non modifica l’ assetto delle competenze.
In tal caso, si porrebbe il problema della decisione che, ai sensi dell’ art. 14 ter, comma 7 della L. n. 241/1990 dovrebbe essere assunta “sulla base delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti” tramite i rispettivi rappresentanti.
Non pare agevole, infatti, definire cosa debba intendersi per “posizioni prevalenti” e cioè se la prevalenza sia di natura quantitativa ovvero qualitativa, senza considerare le delicate questioni che si porranno circa il ruolo di ciascuno degli Enti rappresentati in senso al Comitato.
Non è chiaro, inoltre, se il Comitato abbia una natura fondamentalmente “tecnica”, con la conseguenza che, allora, dello stesso non dovrebbero fare parte rappresentanti “politici” (essendo chiamato ad esercitare compiti espressione di “discrezionalità tecnica”) ovvero se esso mantenga compiti più riconducibili alla cd. “discrezionalità amministrativa” che – da sempre – in materia urbanistica è appannaggio di organi “politici”.
In ogni caso, suscita perplessità (anche in ragione delle pregresse pronunce della Corte) la previsione del “silenzio assenso” circa il parere del CU, silenzio-assenso previsto sia dall’ art. 38 che dall’ art. 46 .

Conclusioni provvisorie.

In sintesi, una Legge “ambiziosa”, ma che, in alcuni passaggi, potrebbe presentare delle criticità.
Inoltre, la sostanziale “rottamazione” del Piano era una scelta che, forse, meritava una maggiore riflessione.
Come l’ esperienza insegna, i privati sono molto bravi, giocando sui diversi (ora della responsabilità dell’ Amministrazione e dei suoi Funzionari, ora dei ritardi dell’ azione amministrativa e sull’ elemento tempo, ora sulla presunta immodificabilità di scelte precedenti che hanno ingenerato affidamenti, etc…) a mettere la PA all’ angolo, così come avviene quando i privati (o le loro Società) decidono di “abbandonare il tavolo”, a seguito di fallimenti o procedure concorsuali, eventi che spesso lasciano un territorio “sfregiato” e trasformato solo in parte, con la comparsa sulla scena di nuovi interlocutori (le Curatele ed i Giudici fallimentari) che provengono da assai diversi e che spesso perseguono obiettivi non coincidenti con quelli dell’ Amministrazione.
Il Piano era garanzia di coerenza nell’ esercizio della funzione e se c’era un ambito per il quale i Giudici riconoscevano il più ampio spazio alla discrezionalità dell’ Amministrazione era proprio quello della pianificazione, in cui i Giudici non procedevano a sindacare l’ esercizio della discrezionalità se non nelle ipotesi di palese irragionevolezza e/o abnormità.
Ora la Legge regionale ha scelto di far scendere l’ Amministrazione da questo , ma ci si può chiedere se questa logica tendenzialmente “paritaria” non celi dei rischi per l’ Amministrazione, i suoi Operatori e, in ultima analisi, per la stessa Collettività locale.
Non è un caso – lo si ricorda incidentalmente – che il pubblico dipendente risponda solo per “dolo o colpa grave”, dato che – come ci ha ricordato la Corte Costituzionale – ciò è funzionale ad evitare l’ effetto di sostanziale “paralisi” che rischierebbe di determinarsi nell’ esercizio della funzione se questi soggetti venissero chiamati a rispondere solo a titolo di colpa.
Un rischio opposto, ma altrettanto serio, è che la PA ed i suoi Funzionari, per evitare responsabilità, finiscano per “appiattirsi” supinamente sui e/o sulle posizioni dei privati.
In sintesi, l’ esercizio della funzione, ma in modo particolare è, intrinsecamente, un’ “attività pericolosa” (si pensi solo ai valori in gioco, ma anche alla giusta attenzione che ad esso dedica l’ ANAC nei suoi Piani per la prevenzione della corruzione) e prevedere che esso si svolga attraverso moduli negoziali, che presuppongono una tendenziale equi ordinazione tra soggetto pubblico e soggetto privato (non c’è accordo se il privato non lo sottoscrive), forse richiedeva qualche riflessione ulteriore, anche con riferimento alle reali capacità “negoziali” dei nostri Comuni, specie quelli di piccole dimensioni.
Ciò nonostante va sicuramente apprezzato il tentativo della Regione di porsi, come in passato, in modo “innovativo” rispetto a soluzioni tradizionali e scontate, cercando di cogliere e di “mettere a sistema” nuove esigenze (il recupero e la rigenerazione dell’ esistente) e strumenti e prassi (gli accordi) già affermatisi prepotentemente, in via di fatto, nella pratica quotidiana urbanistica locale.
Va altresì appressato il tentativo di valorizzare (e premiare) l’ iniziativa “imprenditoriale” del soggetto privato, evitando che la cd. “valorizzazione immobiliare” finisca per premiare i (meri) “proprietari”, ma sia invece di tendenziale appannaggio solo di chi è in grado di presentare “progetti di impresa” , che si presentino come sostenibili sia sotto il profilo ambientale che quello economico-finanziario come è giusto che avvenga a fronte di risorse (il territorio) sempre più scarse e difficilmente rinnovabili.

Federico Gualandi
Avvocato in Bologna e Docente a contratto presso l’ IUAV di Venezia