Con la sentenza n. 105 del 13 giugno 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo, delle Norme di attuazione del codice di procedura penale, come introdotto dall’art. 6 del decreto-legge 5 gennaio 2023, n. 2 (Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale), convertito, con modificazioni, nella legge 3 marzo 2023, n. 17, nella parte in cui non prevede che le misure ivi indicate si applichino per un periodo di tempo non superiore a trentasei mesi.
Il GIP di Siracusa ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 104-bis, comma 1-bis.1, norme att. cod. proc. pen., come introdotto dall’art. 6 del d.l. n. 2 del 2023. In particolare, il rimettente appunta le proprie censure sul quinto periodo di tale disposizione, ai termini del quale, in caso di sequestro preventivo di stabilimenti industriali o parti di essi dichiarati di interesse strategico nazionale ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, ovvero di impianti o infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva, «[i]l giudice autorizza la prosecuzione dell’attività se, nell’ambito della procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale, sono state adottate misure con le quali si è ritenuto realizzabile il bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente e degli altri eventuali beni giuridici lesi dagli illeciti commessi». Ad avviso del rimettente, la disciplina censurata non rispetterebbe le condizioni alle quali questa Corte, nella sentenza n. 85 del 2013, ha ritenuto compatibile con la Costituzione la prosecuzione dell’esercizio dell’attività di stabilimenti di interesse strategico nazionale, pur in presenza di provvedimenti di sequestro dell’autorità giudiziaria (segnatamente, l’osservanza di puntuali prescrizioni stabilite dall’autorità amministrativa all’esito di un procedimento con caratteristiche di pubblicità e partecipazione, finalizzato a individuare un punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi dell’attività; l’effettività del controllo e monitoraggio sulla prosecuzione dell’attività; la durata limitata nel tempo della prosecuzione stessa).
La disciplina in parola, pertanto, violerebbe gli artt. 2 e 32 Cost., che presidiano la vita e la salute umana; l’art. 9 Cost., che tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni; l’art. 41, secondo comma Cost., che vieta che l’iniziativa economica privata possa dispiegarsi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà o alla dignità umana. Ciò in quanto il legislatore non avrebbe garantito un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco, facendo prevalere incondizionatamente l’interesse alla continuità dell’attività produttiva e comprimendo eccessivamente i beni della vita, della salute e dell’ambiente.
Tali censure sono parzialmente fondate, nei termini di seguito chiariti.
Il punto di riferimento naturale, nell’esame delle presenti questioni, è rappresentato dai precedenti di questa Corte sulla vicenda Ilva, e in particolare dalla sentenza n. 85 del 2013, con cui non a caso il rimettente si confronta estesamente.
Peraltro, due fondamentali profili differenziali tra le questioni oggetto della sentenza n. 85 del 2013 e quelle odierne debbono essere, in limine, posti in evidenza.
In primo luogo, le questioni decise con la sentenza n. 85 del 2013 erano in larga parte incentrate su parametri costituzionali estranei al presente giudizio: il principio di eguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.; gli artt. 101, 102, 103, 104, 107 e 111 Cost., in relazione all’asserita indebita incidenza del “decreto Ilva” su provvedimenti giudiziari già assunti e passati in “giudicato cautelare”, attraverso norme prive del carattere di generalità e astrattezza; gli artt. 25, 27 e 112 Cost., in relazione alle pretese deroghe, introdotte dalla normativa censurata, ai principi costituzionali dettati in materia di responsabilità penale ed esercizio dell’azione penale. Di nessuno di tali profili si duole l’odierno rimettente, che – in particolare – non contesta la possibilità, in linea di principio, che il legislatore disciplini dettagliatamente i poteri del giudice nel caso in cui sia stato disposto il sequestro di uno stabilimento industriale dichiarato di interesse strategico nazionale, ovvero di impianti o infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva.
Le doglianze del GIP di Siracusa sono, invece, assai più circoscritte: esse assumono, in sostanza, che la disciplina in concreto dettata dal legislatore con il nuovo comma 1-bis.1 dell’art. 104-bis norme att. cod. proc. pen. non offra adeguata tutela alla vita e alla salute umana, nonché all’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, privilegiando in modo eccessivo l’interesse alla continuità produttiva di impianti, per quanto considerati di interesse strategico nazionale.
Censure analoghe, invero, erano state proposte – accanto alle molte altre sopra menzionate – anche nel caso deciso con la sentenza n. 85 del 2013; ed erano state in quell’occasione ritenute non fondate, per le ragioni illustrate ai punti 9 e 10 del Considerato in diritto di quella sentenza, imperniate attorno all’idea della necessità di un «ragionevole bilanciamento», riservato in linea di principio al legislatore, «tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso» (punto 9 del Considerato in diritto).
In relazione a queste censure va segnalato però il secondo, rilevante profilo di distinzione tra le questioni odierne e quelle esaminate con la sentenza n. 85 del 2013, che attiene al mutamento, nel frattempo intervenuto, nella stessa formulazione dei parametri costituzionali sulla base dei quali deve essere condotto lo scrutinio di questa Corte.
La legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 (Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente) ha, in effetti, attribuito espresso rilievo costituzionale alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni (art. 9, terzo comma, Cost.); e ha inserito tra i limiti alla libertà di iniziativa economica menzionati nell’art. 41, secondo comma, Cost. le ragioni di tutela dell’ambiente, oltre che della salute umana.
Invero, già da epoca anteriore alla riforma dell’art. 117, secondo comma, Cost. – la cui lettera s) affida alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, facendone per la prima volta oggetto di menzione espressa nel testo costituzionale – questa Corte aveva riconosciuto l’esistenza di un «diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività» alla salvaguardia dell’ambiente, precisando che esso «comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acque, suolo e territorio in tutte le sue componenti), la esistenza e la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale», intesi tutti quali «valori che in sostanza la Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32 Cost.)» (sentenza n. 210 del 1987 punto 4.5. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 641 del 1987, punto 2.2. del Considerato in diritto, nonché, più di recente, sentenza n. 126 del 2016, punto 5.1. del Considerato in diritto).
La riforma del 2022 consacra direttamente nel testo della Costituzione il mandato di tutela dell’ambiente, inteso come bene unitario, comprensivo delle sue specifiche declinazioni rappresentate dalla tutela della biodiversità e degli ecosistemi, ma riconosciuto in via autonoma rispetto al paesaggio e alla salute umana, per quanto ad essi naturalmente connesso; e vincola così, esplicitamente, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa.
Peculiare è, altresì, la prospettiva di tutela oggi indicata dal legislatore costituzionale, che non solo rinvia agli interessi dei singoli e della collettività nel momento presente, ma si estende anche (come già, del resto, prefigurato da numerose pronunce di questa Corte risalenti a epoca anteriore alla riforma: sentenze n. 46 del 2021, punto 8 del Considerato in diritto; n. 237 del 2020, punto 5 del Considerato in diritto; n. 93 del 2017, punto 8.1. del Considerato in diritto; n. 22 del 2016, punto 6 del Considerato in diritto; n. 67 del 2013, punto 4 del Considerato in diritto; n. 142 del 2010, punto 2.2.2. del Considerato in diritto; n. 29 del 2010, punto 2.1. del Considerato in diritto; n. 246 del 2009, punto 9 del Considerato in diritto; n. 419 del 1996, punto 3 del Considerato in diritto) agli interessi delle future generazioni: e dunque di persone ancora non venute ad esistenza, ma nei cui confronti le generazioni attuali hanno un preciso dovere di preservare le condizioni perché esse pure possano godere di un patrimonio ambientale il più possibile integro, e le cui varie matrici restino caratterizzate dalla ricchezza e diversità che lo connotano.
Per altro verso, la tutela dell’ambiente – nell’interesse, ancora, dei singoli e della collettività nel momento presente, nonché di chi ancora non è nato – assurge ora a limite esplicito alla stessa libertà di iniziativa economica, il cui svolgimento non può «recare danno» – oltre che alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, come recitava il testo previgente dell’art. 41, secondo comma, Cost. – alla salute e all’ambiente.
Di tali chiare indicazioni del legislatore costituzionale – lette anche attraverso il prisma degli obblighi europei e internazionali in materia – questa Corte è chiamata a tenere puntualmente conto, nel vagliare le censure del rimettente.
Quest’ultimo si duole, essenzialmente, del venir meno – per effetto della disposizione censurata – di ogni potere discrezionale dell’autorità giudiziaria nella gestione dello stabilimento sottoposto a sequestro, una volta che l’autorità governativa abbia indicato le «misure» di bilanciamento cui allude il quinto periodo della disposizione censurata. Ciò appare al rimettente incongruo, al metro dei parametri costituzionali evocati, ogniqualvolta le misure predette risultino insufficienti ad offrire adeguata tutela all’ambiente, o addirittura alla vita e alla salute delle persone su cui potenzialmente ricadono le conseguenze nocive dell’attività produttiva.
Nel caso oggetto del giudizio a quo, ad esempio, il rimettente ritiene che il decreto interministeriale con cui sono state adottate le «misure» di cui al quinto periodo della disposizione censurata si sarebbe limitato a innalzare i parametri di accettabilità degli scarichi di varie sostanze nocive per la salute umana nelle matrici aria e acqua da parte del depuratore di Priolo Gargallo, prevedendo altresì un sistema a suo avviso inefficace di monitoraggio del rispetto di tali limiti.
Come poc’anzi rammentato, la sentenza n. 85 del 2013 ha ritenuto non fondate doglianze analoghe rivolte nei confronti della disciplina dettata dal “decreto Ilva”, che parimenti vincola l’autorità giudiziaria che ha disposto il sequestro alle prescrizioni dettate dal potere esecutivo, e più precisamente – in quello schema normativo – dal provvedimento del Ministro dell’ambiente che chiude la procedura di riesame dell’AIA.
Questa Corte ha in quell’occasione sottolineato che il provvedimento di riesame dell’AIA – successivo alla constatazione dell’inefficacia delle prescrizioni contenute nell’AIA originaria – «indica un nuovo punto di equilibrio, che consente […] la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condizioni, nell’ambito delle quali l’attività stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere, anche con investimenti straordinari da parte dell’impresa interessata, le cause dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni» (punto 10.2. del Considerato in diritto).
Tale punto di equilibrio – ha proseguito la sentenza n. 85 del 2013 – «deve presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie predisposte dall’ordinamento quanto all’intervento di organi tecnici e del personale competente; all’individuazione delle migliori tecnologie disponibili; alla partecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento preparatorio e alla pubblicità dell’iter formativo, che mette cittadini e comunità nelle condizioni di far valere, con mezzi comunicativi, politici ed anche giudiziari, nelle ipotesi di illegittimità, i loro punti di vista» (punto 10.3. del Considerato in diritto).
La sentenza ha concluso che il punto di equilibrio così raggiunto non avrebbe potuto essere contestato dal giudice del sequestro, al quale non spetta in ogni caso un potere di «riesame del riesame» circa il merito dell’AIA, sul presupposto di una insufficienza delle prescrizioni dettate dall’autorità amministrativa (ancora, punto 10.3. del Considerato in diritto). Con conseguente non fondatezza delle questioni allora prospettate, sotto il profilo della allegata violazione del diritto alla salute e ad un ambiente salubre.
Come osserva l’odierno rimettente, tuttavia, la disposizione ora all’esame – e in particolare il suo quinto periodo – si discosta in maniera non marginale dallo schema normativo di cui all’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, esaminato dalla sentenza n. 85 del 2013.
Anzitutto, essa non indica quale sia l’autorità amministrativa competente ad adottare le «misure» di bilanciamento alle quali il giudice sarà poi vincolato.
In secondo luogo, essa non chiarisce in quale rapporto si collochino tali misure con l’AIA degli stabilimenti industriali suscettibili di essere indicati di interesse strategico nazionale (ovvero necessari ad assicurarne la continuità produttiva), né con l’eventuale procedimento di riesame dell’AIA medesima.
In terzo luogo, essa non prevede alcun termine finale per la sua operatività, a differenza di quanto invece accade nello schema normativo disegnato dall’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito.
Per ciò che concerne, anzitutto, l’autorità competente ad adottare le «misure» in questione, deve ritenersi che essa sia indirettamente individuabile tramite il riferimento, contenuto nel quinto periodo del comma 1-bis.1, alla «procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale», a sua volta disciplinata dal d.l. n. 207 del 2012, come convertito. Questa procedura, ai sensi dell’art. 1, comma 1, di tale decreto-legge, prende avvio con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri con il quale lo stabilimento viene individuato come di interesse strategico nazionale. Ciò comporta, di necessità, il coinvolgimento – in ragione dell’elevato rilievo dell’attività dello stabilimento per l’economia nazionale e la salvaguardia dei livelli occupazionali – del massimo livello di governo nelle decisioni che riguardano lo stabilimento, a prescindere poi dalla possibilità, per lo stesso Presidente del Consiglio dei ministri, di delegare a uno o più ministri l’adozione concreta delle misure cui dovrà essere condizionata la prosecuzione dell’attività produttiva stessa.
Il che è, del resto, quanto è puntualmente accaduto nel caso oggetto del giudizio a quo, in cui il d.P.C.m. del 3 febbraio 2023 ha demandato a un successivo «decreto del Ministro delle imprese e del made in Italy, da adottarsi di concerto con il Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, sentiti i Ministri della salute, delle infrastrutture e dei trasporti, del lavoro e delle politiche sociali e l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA)», la definizione delle misure in questione.
Più problematico, dal punto di vista della sostenibilità costituzionale della scelta legislativa, è però il segnalato difetto di qualsiasi indicazione, da parte della disposizione censurata, circa il procedimento da seguire per l’individuazione delle misure.
La sentenza n. 85 del 2013 ha ritenuto compatibile con le ragioni di tutela della salute e dell’ambiente una disciplina che vincola il giudice alle prescrizioni cristallizzate nell’AIA riesaminata: e cioè in un provvedimento «di derivazione europea» (sentenza n. 233 del 2021, punto 3.1. del Considerato in diritto) che «costituisce l’esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed amministrativi in un unico procedimento, nel quale […] devono trovare simultanea applicazione i princìpi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione, che caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale. Il procedimento che culmina nel rilascio dell’AIA, con le sue caratteristiche di partecipazione e di pubblicità, rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione» (sentenza n. 85 del 2013, punto 10.1. del Considerato in diritto).
In effetti, il procedimento destinato a sfociare nell’AIA o nel suo riesame – procedimento oggi regolato dagli artt. 4 e 5 e da 29-bis a 29-quattuordecies del d.lgs. n. 152 del 2006, in conformità alle dettagliate indicazioni della direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento) – è caratterizzato da un procedimento imperniato, tra l’altro:
– sul principio di un «approccio integrato alla prevenzione e alla riduzione delle emissioni nell’aria, nell’acqua e nel terreno, alla gestione dei rifiuti, all’efficienza energetica e alla prevenzione degli incidenti», al fine di evitare che «[a]pprocci distinti nel controllo delle emissioni nell’atmosfera, nelle acque o nel terreno possono incoraggiare il trasferimento dell’inquinamento da una matrice ambientale all’altra anziché proteggere l’ambiente nel suo complesso» (considerando n. 3 della direttiva 2010/75/UE);
– sulla prescrizione di «tutte le misure necessarie per assicurare un elevato livello di protezione dell’ambiente nel suo complesso e per assicurare che l’installazione sia gestita conformemente ai principi generali degli obblighi fondamentali del gestore», compresa la fissazione di valori limite di emissione per le sostanze inquinanti, sulla base delle migliori tecniche disponibili (BAT) (considerando n. 12 della direttiva 2010/75/UE);
– sul principio della partecipazione effettiva dei cittadini al processo decisionale in materia ambientale (considerando n. 27 della direttiva 2010/75/UE), a sua volta derivato dai principi sanciti dalla Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, fatta ad Aarhus il 25 giugno 1998, ratificata e resa esecutiva con legge 16 marzo 2001, n. 108: principi, quest’ultimi, puntualmente declinati a livello nazionale dall’art. 29-quater del d.lgs. n. 152 del 2006, che prevede ampie forme di pubblicità al procedimento destinato a sfociare nell’AIA, consentendo a tutti i soggetti interessati di presentare osservazioni e di conoscere le determinazioni finali, e prevedendo la convocazione di un’apposita conferenza di servizi, oltre che gli interventi dell’ISPRA e delle competenti ARPA regionali e provinciali.
I profili della necessaria pubblicità e partecipazione dei cittadini in genere, e comunque di tutti i soggetti interessati al procedimento destinato a sfociare nell’AIA, unitamente alla necessità di accurate analisi della situazione fattuale sulle quali deve essere basata ogni decisione autorizzativa di attività, sono d’altra parte costantemente sottolineati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di tutela dell’ambiente, che – essa pure ispirandosi largamente ai principi enunciati dalla Convenzione di Aarhus – deduce tali profili “procedimentali” dagli obblighi positivi di tutela del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU (grande camera, sentenza 9 aprile 2024 Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri contro Svizzera, paragrafo 539, e ivi ampie citazioni ai precedenti pertinenti).
La disposizione censurata non condiziona, invece, la prosecuzione dell’attività dello stabilimento o impianto sequestrato al rispetto delle prescrizioni dell’AIA riesaminata, come l’art. 1 del “decreto Ilva”, bensì all’osservanza di generiche «misure» di bilanciamento, senza chiarire in esito a quale procedimento tali misure debbano essere adottate – e con quali garanzie di pubblicità e di partecipazione del pubblico, oltre che delle diverse autorità locali a vario titolo competenti in materia ambientale e di tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro –; e senza chiarire, nemmeno, se ed eventualmente in quale misura i valori limite di emissione possano discostarsi dalle BAT di settore, al fine di consentire la prosecuzione dell’attività.
Infine, e soprattutto, la disposizione censurata non contiene alcun termine finale per la sua operatività, a differenza, ancora, di quanto previsto dall’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, scrutinato con la sentenza n. 85 del 2013.
Essa finisce così per autorizzare, potenzialmente senza alcun limite di durata, un meccanismo basato su un’autorizzazione che proviene direttamente dal Governo nazionale e il cui effetto è quello di privare indefinitamente il giudice del sequestro di ogni potere di valutazione sull’adeguatezza delle misure medesime rispetto alla tutela dell’ambiente e della salute pubblica, e mediatamente rispetto alla tutela della stessa vita umana.
Ritiene questa Corte che taluni dei profili critici appena evidenziati possono essere superati attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, che deve invece essere dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede alcun termine finale per la sua operatività.
Occorre anzitutto osservare che, in una situazione di crisi determinata dalla necessità di assicurare continuità produttiva a uno stabilimento di interesse strategico nazionale che sia stato attinto da un sequestro penale – a sua volta disposto sulla base del fumus di una violazione in atto di normative penalmente sanzionate, con pregiudizio potenziale per l’ambiente, la salute e la sicurezza dei lavoratori –, non può considerarsi di per sé incompatibile con la Costituzione la previsione di un meccanismo che consenta allo stesso Governo nazionale di intervenire a dettare, in via interinale, misure che consentano nell’immediato di contenere il più possibile tali rischi, vincolando al contempo il giudice a consentire la prosecuzione dell’attività.
In una simile ipotesi, gli ordinari poteri del giudice – riconosciuti e disciplinati dallo stesso art. 104-bis, comma 1.bis.1, terzo periodo, norme att. cod. proc. pen., in connessione con le finalità e la logica del sequestro cosiddetto “impeditivo” di cui all’art. 321, comma 1, cod. proc. pen. – di dettare prescrizioni miranti a impedire l’aggravamento o la protrazione delle conseguenze di verosimili condotte criminose in atto possono essere temporaneamente compressi, in forza di una lex specialis che riservi al potere esecutivo il compito di indicare le misure che assicurino il complesso bilanciamento tra tutti i delicati interessi in conflitto, inclusi quelli sottesi alla prosecuzione dell’attività degli stabilimenti in questione, e conseguentemente alla salvaguardia dei livelli occupazionali presso gli stabilimenti medesimi.
Resta fermo, tuttavia, che il nuovo testo dell’art. 41, secondo comma, Cost. vieta che l’iniziativa economica privata si svolga «in modo da recare danno» alla salute o all’ambiente: e nessuna misura potrebbe legittimamente autorizzare un’azienda a continuare a svolgere stabilmente la propria attività in contrasto con tale divieto.
Vale, qui, quanto già affermato da questa Corte in un’altra pronuncia concernente la vicenda Ilva, con riferimento agli interessi menzionati nel testo previgente dell’art. 41, secondo comma, Cost.: «[r]imuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce […] condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona» (sentenza n. 58 del 2018, punto 3.3. del Considerato in diritto). Esigenze basilari della persona (delle persone oggi esistenti, e di quelle che saranno) tra cui si annovera ora, esplicitamente, anche la tutela dell’ambiente.
Ed allora, le misure legittimamente adottabili dal Governo allo scopo di consentire provvisoriamente la prosecuzione di un’attività di interesse strategico nazionale dovranno, semmai, essere funzionali all’obiettivo di ricondurre gradualmente l’attività stessa, nel minor tempo possibile, entro i limiti di sostenibilità fissati in via generale dalla legge in vista – appunto – di una tutela effettiva della salute e dell’ambiente. In altre parole, le misure in questione – che dovranno naturalmente mantenersi all’interno della cornice normativa fissata dal complesso delle norme di rango primario in materia di tutela dell’ambiente e della salute – dovranno tendere a realizzare un rapido risanamento della situazione di compromissione ambientale o di potenziale pregiudizio alla salute determinata dall’attività delle aziende sequestrate. E non già, invece, a consentirne indefinitamente la prosecuzione attraverso un semplice abbassamento del livello di tutela di tali beni.
L’adozione delle misure (individuate da un provvedimento che resta di natura amministrativa, e come tale soggetto agli ordinari controlli giurisdizionali sotto il profilo della sua legittimità) dovrà, inoltre, essere preceduta – conformemente alle indicazioni derivanti dalle fonti internazionali sopra ricordate – da adeguata attività istruttoria, e dovrà essere sorretta da una congrua motivazione, che dia conto tra l’altro delle risultanze dell’istruttoria, ai sensi di quanto previsto in via generale dall’art. 3, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Infine, l’effettiva osservanza delle misure medesime dovrà essere adeguatamente verificata, con le modalità indicate nello stesso provvedimento governativo, attraverso il costante monitoraggio da parte delle autorità competenti ai sensi della legislazione ambientale in vigore.
Peraltro, una disposizione come quella all’esame – distinta dalle ordinarie procedure, dirette ad assicurare la compatibilità dell’attività d’impresa con i limiti della tutela della salute e dell’ambiente, così come della salute e sicurezza dei lavoratori – potrebbe trovare legittimazione costituzionale soltanto in quanto si presenti come disciplina interinale, che consenta di non interrompere un’attività produttiva ritenuta di rilievo strategico per l’economia nazionale o per la salvaguardia dei livelli occupazionali, nel tempo strettamente necessario per portare a compimento gli indispensabili interventi di risanamento ambientale e riattivare gli ordinari meccanismi procedimentali previsti dal d.lgs. n. 152 del 2006. E ciò, in particolare, attraverso il riesame delle AIA esistenti, che si siano rivelate insufficienti rispetto ai loro scopi.
La mancata fissazione di un termine massimo di durata di operatività della previsione del quinto periodo del comma 1-bis.1 dell’art. 104-bis norme att. cod. proc. pen. finisce, invece, per configurare un sistema di tutela dell’ambiente parallelo a quello ordinario, e affidato a una disposizione dai contorni del tutto generici: come tali inidonei ad assicurare che, a regime, l’esercizio dell’attività di tali stabilimenti e impianti si svolga senza recare pregiudizio alla salute e all’ambiente.
Ne consegue l’illegittimità costituzionale, sotto lo specifico profilo della mancata previsione di un termine di durata del regime individuato dall’art. 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo, norme att. cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 9, 32 e 41, secondo comma, Cost., con assorbimento della censura riferita all’art. 2 Cost.
La reductio ad legitimitatem di tale disposizione può essere effettuata attraverso una pronuncia additiva che introduca un termine di durata massima delle misure indicate dalla disposizione all’esame, individuato quale soluzione costituzionalmente adeguata (ex multis, sentenze n. 91 del 2024, punto 10 del Considerato in diritto; n. 5 del 2024, punto 4.1. del Considerato in diritto) tra quelle, già esistenti nell’ordinamento, che regolano situazioni simili.
In particolare, un punto di riferimento significativo è costituito dalla previsione dell’art. 1, comma 1, del più volte menzionato “decreto Ilva” (il d.l. n. 207 del 2012, come convertito), il quale pure risponde all’analoga esigenza di assicurare la prosecuzione dell’attività produttiva di stabilimenti di interesse strategico nazionale, in particolare nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento. Tale previsione consente al Ministro dell’ambiente [e della sicurezza energetica] di autorizzare la prosecuzione dell’attività produttiva per un termine massimo di trentasei mesi.
Un termine, non rinnovabile, di trentasei mesi appare congruo anche rispetto allo scopo di fissare un limite massimo di operatività delle misure di bilanciamento interinalmente individuate dal Governo ai sensi della disposizione censurata, in pendenza del quale occorrerà in ogni caso assicurare il completo superamento delle criticità riscontrate in sede di sequestro e il ripristino degli ordinari meccanismi autorizzativi previsti dalla legislazione vigente, in conformità alle indicazioni discendenti dal diritto dell’Unione europea.
Non è un caso, del resto, che nella vicenda oggetto del procedimento a quo, il Governo abbia comunque ritenuto – nel dare attuazione alla disposizione censurata, e nonostante il silenzio della stessa sul punto – di fissare il termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore del provvedimento perché siano realizzati gli interventi prescritti dal d.interm.12 settembre 2023.
L’art. 104-bis, comma 1-bis.1, quinto periodo, norme att. cod. proc. pen. deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che le misure ivi indicate si applichino per un periodo di tempo non superiore a trentasei mesi.