
RIPENSARE LA CITTA’ COSTRUITA. GLI EQUIVOCI DELLA RIGENERAZIONE URBANA E IL DIRITTO ALLA CASA. IL RITORNO DELLA RENDITA URBANA.
Quando – a partire dalla metà dell’ottocento – l’irruzione nell’economia di stampo medievale dei primi vagiti dell’economia industriale, cambiarono i paradigmi dell’economia, uno dei temi che si pose all’attenzione degli Stati nascenti fu quello di adeguare alle nuove prospettive dello sviluppo proprio le città a partire da Parigi, Vienna, Madrid, Napoli Roma, non solo per adeguarle alle nuove prospettive del mercato nascente, ma anche per ripensarle o risanarle e renderle più attraenti alle nuove esigenze della società .
Anche in Italia la prima legge del 1865 n.2359 seguita poi da quella del 1885 n.2892 per Napoli, introdusse non solo la filosofia del ridisegno delle aree urbane e della loro crescita attraverso le prime forme di pianificazione degli assetti, ma anche quello del risanamento dei contesti urbani degradati. In realtà i primi piani di espansione miravano – attraverso l’esproprio per causa pubblica di interi quartieri – a ridisegnare completamente l’assetto di quei luoghi, privi di un disegno ordinato degli usi del suolo, nella prospettiva di offrire alle nuove esigenze dello sviluppo economico e sociale l’ingresso in quei territori, di una residenzialità di ingenti abitanti che si spostavano dall’economia agricola verso quella produttiva. Basti pensare alla Parigi di Haussmann o a quella di Vienna di Francesco Giuseppe ma anche alla Napoli, travolta dal colera, o alla Roma papale della fine dell’800. Modernizzazione e urbanistica divennero così i due obiettivi del nascente sviluppo capitalistico che trovavano proprio nelle città il loro terreno ideale.
Sono passati più di centocinquanta anni da quelle vicende, le città italiane sono divenute, nel tempo, il cuore e lo specchio dell’economia, e grazie alle riforme del 1967 l.765 e della l.10/1977 – ultimi interventi riformatori – si regolamentò l’assetto urbanistico di queste aree – negli anni ’60 cresciute disordinatamente senza piano urbanistico – introducendo gli standard urbanistici, l’onerosità delle trasformazioni, al fine di rendere compatibile lo sviluppo economico con gli interessi sociali della collettività insediata.
Oggi si torna a parlare di rigenerazione urbana quasi parafrasando quella della metà dell’Ottocento come se sia tornato impellente risanare, riqualificare, bonificare città che in realtà oggi – specie in Italia – non hanno nulla a che fare con quella storia passata, sono meta di un turismo crescente, offrono servizi rari, conservano la memoria dei centri storici e dei beni culturali ed archeologici.
Eppure, a partire dal 2009 – grazie al governo Berlusconi – emerge una legislazione che, via via nel tempo, punta invece a favorire la demolizione e ricostruzione del patrimonio esistente, anche in deroga al piano urbanistico, ad ammettere in questi casi anche una premialità edificatoria, costringendo in molti casi le Sovrintendenze a ricorrere in molti quartieri della città centrale ad apporre vincoli storico-artistici che blocchino questa filosofia.
A giustificare questa politica si appalesa a livello comunitario il tema della riqualificazione energetica degli edifici che, nel nostro paese, ne giustifica anche la demolizione e ricostruzione.
Tutto si concentra sull’attività edilizia – dove l’art.3 lett. d) del Tu dell’edilizia, più volte modificato, che amplia le tipologie degli interventi ricostruttivi ammessi – diventa il punto di rifermento per il rilancio dell’imprenditoria edilizia. Se aggiungiamo da ultimo, grazie al cosiddetto Salva casa del 2024, che è stato liberalizzato il mutamento di destinazione d’uso, i rischi di gentrificazione di interi quartieri storici appare sempre più attuale.
Come mai tanto fervore? Ebbene, a guardar bene, proprio con riferimento alla cosiddetta rigenerazione urbana, non si può prescindere dai nuovi attori che sono scesi in campo sul territorio, che non è più l’imprenditoria del mattone ma l’immobiliarista finanziere «i cui capitali sono il frutto dello spostamento del capitale industriale verso il capitalismo immobiliare, ove i primi hanno scoperto da tempo che i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari costituiscono un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo» [1]
Il caso di Milano – oggetto recentemente all’attenzione del giudice penale rispetto alla illegittimità degli interventi – è emblematico di questa filosofia che sceglie il territorio costruito come nuova occasione della rinascita della rendita urbana, a scapito della prossimità degli interessi della collettività urbana residente.
Niente di tutto questo, a livello europeo, ove non esiste questa fake news della rigenerazione urbana, che trova solo in Italia questa smodata applicazione.
Si dirà: ma questa è l’occasione per risanare le periferie che avrebbero bisogno di una riqualificazione.
Niente di tutto questo perché il capitale immobiliare – fondi d’investimento, SGR, Banche – in assenza di limiti imposti da comuni inerti – scelgono le aree centrali urbane per operare tali interventi poiché la remunerazione degli investimenti è certamente ben maggiore che intervenire nelle periferie.
I pochi interventi che le riguardano sono opera dell’intervento pubblico, grazie ai fondi del PNRR, senza la disponibilità del capitale privato.
A queste considerazioni va aggiunto anche il tema della riduzione del consumo di suolo di matrice comunitaria che, tuttavia, in Italia non ha ancora una legge nazionale, ma il tema continuamente evocato, è stato più volte utilizzato per giustificare il ripensamento della città costruita, i cui esiti mirerebbero proprio a non consumare altro suolo inedificato. Ma anche qui il tema è mal posto, poiché sono finiti i piani di espansione, le città specie le città metropolitane non crescono più, e questo non dipende dalla concentrazione degli interventi di riconversione urbana nel territorio consolidato.
Ma se, guardando alle città, passiamo dal mercato ai diritti[2], non possiamo trascurare un tema che sta assumendo sempre più rilievo, ovvero quello del diritto alla casa. La gentrificazione in corso, la scomparsa totale delle politiche dell’edilizia residenziale pubblica, la carenza di abitazioni per fasce di reddito medio basse, il dilagare degli Airbnb che sottraggono la disponibilità di residenze stabili senza alcuna limitazione, l’assenza in molte città universitarie di studentati, l’evanescente housing sociale di matrice comunitaria presente, al contrario, in molti paesi europei, ripropongono il tema della città pubblica ovvero quello della ricerca della civitas in luogo dell’ urbs.
I temi sollevati stanno assumendo un rilievo, trascurato per anni dai governi di centro sinistra, più protesi alla liberalizzazione degli interventi edilizi, che alla riconsiderazione della citta giusta e della rigenerazione umana, che coniughi adeguatamente e solidarmente[3] gli interessi privati con l’interesse pubblico. E questo atteggiamento si protrae anche da parte del governo in carica.
Di questi temi, non possono farsi carico i comuni, istituzioni di prossimità[4] cui le leggi finanziarie riducono costantemente le risorse e torna allora impellente il tema dell’urbanistica consensuale[5] ove diviene sempre più necessario che nel pianificare o rigenerare gli assetti urbani, l’accordo con gli interessi privati deve trovare forme di perequazione e di compensazione a favore del diritto alla casa per i ceti meno abbienti.
D’altronde è ormai evidente che a causa della crisi della finanza pubblica dilaga ormai la necessità – nell’ambito delle politiche pubbliche – ricercare l’apporto del capitale privato. Basti pensare oggi al sistema pensionistico in crisi, ove si sviluppano sempre più le forme integrative dei fondi pensione, o alla sanità sempre più costretta alla collaborazione con la sanità privata.
Perché questo, non può essere un percorso praticabile anche per necessità nell’ambito della pianificazione urbanistica? La domanda cui proverò a dare risposta è provocatoria poiché gli esiti di questa scelta non sembra abbiano dato adeguata soluzione al problema.
In effetti, la legge finanziaria per il 2008 (244/007) art.1 co 258/259 contiene alcune disposizioni il cui obiettivo è dare copertura legislativa alle pratiche negoziali comunali nelle quali molte amministrazioni comunali tendono a richiedere ai privati impegni superiori a quanto previsto dalla disciplina degli standards urbanistici soprattutto in termini di aree cedute ed anche in opere di urbanizzazione o di opere di edilizia sociale, nella considerazione che il plusvalore derivante dall’edificabilità delle aree richieda, in sostanza, un contributo straordinario E’ previsto, in primo luogo, che nell’ambito delle previsioni degli strumenti urbanistici, in aggiunta alle aree necessarie per garantire gli standards urbanistici di cui al DM 1444/1968, siano definiti ambiti (non più zone) la cui trasformazione è subordinata alla cessione gratuita, da parte dei proprietari singoli o in forma consortile, di aree o immobili da destinare all’edilizia residenziale sociale (cosiddetto standard di servizio) in rapporto al fabbisogno locale ed in relazione all’entità della trasformazione. In tali ambiti è possibile prevedere l’eventuale fornitura di alloggi a canone calmierato. Negli stessi ambiti, inoltre, è possibile localizzare interventi di rinnovo urbanistico ed edilizio, di riqualificazione e miglioramento della qualità ambientale degli insediamenti ad iniziativa dei privati, prevedendo, in cambio, una premialità volumetrica. Attraverso l’urbanistica per “accordi” la legislazione mira ad introdurre moduli convenzionali pubblico-privato, il cui contenuto è finalizzato a soddisfare la carenza di servizi e di opere di urbanizzazione nelle aree urbane. In particolare, a risolvere la questione delle abitazioni per le fasce di popolazione a basso reddito – tornata ad assumere carattere emergenziale – dopo l’esaurimento dei finanziamenti per l’edilizia pubblica a seguito dell’eliminazione dei fondi Gescal (legge finanziaria 448/2001) ed il declino dei piani di edilizia economia e popolare [6]
In questo quadro, oggi anche in Italia si dispone di strumenti di gestione e attrazione del risparmio come i Fondi Immobiliari1 o le Società di Investimento Immobiliare quotate: si tratta di strumenti concepiti per gestire patrimoni immobiliari, che sembrano permettere il rilancio dell’investimento istituzionale in abitazioni per la locazione, in un periodo di crisi come quello attuale, in cambio del ritorno economico dell’investimento urbanistico.
La sostituzione dell’ERP con l’ERS che trova fondamento nei numerosi “Piani casa” emanati dai governi in carica a partire dal 2008 non sembrano aver risolto il problema delle abitazioni sociali, anche se la legislazione regionale ha disciplinato la formazione e attuazione dei Piani casa regionali, e moltissimi comuni hanno costituito strutture preposte a tali obiettivi ma va osservato che ancora negli anni 2020-2022 le famiglie in condizioni di disagio erano ancora 1,5 milioni di cui 641 mila in disagio acuto.[7]
Ma al di là del nesso rigenerazione/edilizia sociale che in molti casi si è rivelato inconsistente, la questione abitativa coinvolge ormai non solo la valorizzazione dei beni pubblici messi sul mercato[8] ma anche una grande varietà di strumenti finanziari [9] non solo al livello europeo ma anche in Italia diretti a coinvolgere le comunità e le amministrazioni locali nel soddisfacimento del diritto alla casa impensabili rispetto agli anni risalenti dell’esclusivo intervento finanziario dello Stato, che non è possibile qui esaminare.
Il tema delle città – specie quelle metropolitane –ha assunto quindi un rilievo inaspettato rispetto al passato, sia per la pletora degli attori e degli interessi in campo, sia per le politiche che connotano la città mercato o la città pubblica, cui la sinistra dovrebbe porre maggiore attenzione, poiché al centro si pone comunque il ruolo degli enti locali rappresentativi degli interessi delle comunità insediate.
[1] P.Bonora La città tradita in Il Mulino n.6 2016 958 s. Vedi anche W.Tocci, L’insostenibile ascesa della rendita urbana, in Democrazia e diritto 2009 n.1, 17 ss.
[2] Vedi il Rapporto 2024 di Italia Decide Il futuro della città pubblica innovazioni diritti mercati. Il Mulino 2024.
[3] Rinvio a P,Urbani L’urbanistica solidale Alla ricerca della giustizia perequativa tra proprietà e interessi pubblici Bollati Boringhieri 2011.
[4] Vedi P.Galeone I poteri pubblici nel governo delle citta luci e ombre e possibili sviluppi in Italia Decide op cit. p.113 s.
[5] Rinvio a P,Urbani urbanistica consensuale. La disciplina degli usi del territorio tra liberalizzazione, programmazione negoziata e tutele differenziate Bollati Boringhieri 2000.
[6] Urbani, P., Le politiche abitative per le fasce più deboli: le nuove modalità per assicurare il servizio pubblico, in Riv.giur. urb., 2006, 389).
[7] M.G. Della Scala, S. Santangelo (a cura di) Diritto all’abitare e questione abitativa tra edilizia residenziale pubblica e housing sociale, Giappichelli 2023 p.156.
[8] R. Manzo, Poteri pubblici nazionali nel governo delle città:Proprietà pubblica e politiche nazionali per i progetti di rigenerazione urbana, in Italia Decide op.cit. 153.
[9] C. Iaione, Finanza di Progetto di Comunità: il finanziamento delle comunità attraverso partenariati pubblico-comunità e pubblico-privato-comunità in RGE n.4/2024.