L’eventuale compatibilità paesaggistica dell’intervento non vale a superare la mancanza di conformità edilizia e urbanistica dello stesso di Fabio Cusano

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Con la sentenza n. 4580 dell’8 maggio 2023, il Consiglio di Stato (sez. VII) ha ribadito che Nel caso di opere non sanabili sotto il profilo edilizio ed urbanistico, il parere della soprintendenza, quand’anche favorevole, sarebbe irrilevante e comunque insufficiente, atteso che la disciplina edilizia/urbanistica e quella paesaggistica presidiano interessi diversi, fra loro convergenti ma non alternativi. Infatti, i poteri volti all’accertamento della compatibilità urbanistica e paesaggistica di un’opera, ancorché incidenti sul medesimo ambito territoriale, appartengono ad autorità diverse e soprattutto sono funzionali alla cura di interessi diversi (il primo all’ordinato governo del territorio, il secondo alla tutela della identità estetico-culturale dei siti). Dunque, l’eventuale compatibilità paesaggistica dell’intervento non potrebbe in nessun caso superare la mancanza di conformità edilizia e urbanistica dello stesso.

L’appellante ha impugnato la sentenza con la quale il TAR Salerno ha respinto il ricorso proposto per l’annullamento dell’ordinanza con la quale è stata ingiunta la demolizione e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi di un immobile sito in Positano, nonché del provvedimento con cui il Comune di Positano ha dichiarato l’irricevibilità ed inefficacia della SCIA.

Ad avviso del Consiglio, l’appello è infondato.

L’appellante sostiene che le opere di cui si discute siano risalenti ad epoca anteriore alla legge urbanistica del 1942 nonché al decreto ministeriale del 1954 di apposizione del vincolo su tutto il Comune di Positano: tuttavia di tale affermazione non è stata fornita alcuna prova.

Né sopperisce a tale difetto di prova la relazione tecnica allegata alla SCIA in sanatoria, di cui l’appellante lamenta il mancato esame da parte del TAR.

Invero, in tale relazione vi è solo l’affermazione, altrettanto generica, che le opere di cui si discute, al pari dell’abitazione principale, “sono state eseguite prima dell’avvento della Legge Urbanistica (1942) e prima dell’imposizione del vincolo paesaggistico nel territorio del Comune di Positano (1954)”.

Osserva il Collegio che, come correttamente rilevato dal TAR, l’affermazione è del tutto generica non avendo la parte appellante prodotto, né con la presentazione della SCIA né in sede processuale, neanche un principio di prova a sostegno della datazione (anche) delle opere di cui si discute, ad epoca anteriore alla emanazione della legge urbanistica (1942) e alla adozione del decreto ministeriale di apposizione del vincolo paesaggistico su tutto il territorio comunale (1954).

Dalla documentazione fotografica allegata si rileva con chiarezza che gli abusi contestati consistono nella realizzazione di volumi sull’area del terrazzo. Non essendovi prova del fatto che tali volumi risalgano ad epoca antecedente al 1942, la realizzazione degli stessi è pacificamente abusiva: infatti non è stato allegato alcun titolo abilitativo.

Né può essere revocata in dubbio, anche alla stregua della eloquente documentazione fotografica allegata, la qualificazione di tali manufatti come nuova costruzione mediante realizzazione di volumi, per di più con modifica della situazione esterna dei luoghi in zona vincolata, in assenza di autorizzazione paesaggistica.

Ne discende che, anche ammettendo che, come opina l’appellante, le più recenti modifiche siano consistite in opere di “manutenzione o, comunque, al genus degli interventi pertinenziali di cui all’art. 3 – comma 1 – lett. e.6) del D.P.R. n. 380/2001”, le stesse ritrarrebbero la loro abusività dall’abusività dei volumi originariamente realizzati sul terrazzo.

Per tale ragione gli abusi in questione non sono suscettibili di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 37 DPR 380/2001.

Ostano a tale possibilità innanzitutto la natura delle opere, consistenti nella creazione di nuovi volumi non riconducibili all’attività edilizia libera, prevista all’art. 6 del DPR n. 380/2001, o agli interventi pertinenziali “minimi” privi di rilevanza volumetrica, di cui alla lett. e.6) del citato comma 1, dell’art. 3, del DPR n. 380/2001; inoltre è di ostacolo alla sanabilità la non conformità delle stesse alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento (come già visto non databile ad epoca antecedente l’entrata in vigore della legge urbanistica), sia al momento della presentazione della domanda.

In proposito, come correttamente rilevato dal TAR, è mancata anche l’allegazione di qualsivoglia elemento dal quale desumere la circostanza che essi comportino la realizzazione di un volume inferiore al 20% del volume dell’edificio principale, discendendone la contrarietà all’art. 9 del PRG comunale che, con riferimento alle “zone omogenee A – centro storico” (in cui l’immobile ricade), pone un sostanziale divieto di nuova edificazione.

A ciò deve, infine, aggiungersi la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica.

Né è sostenibile la pretesa formazione del titolo per silentium, che è possibile in presenza di una SCIA regolare, corredata da tutte le allegazioni necessarie.

Invero, allorché il legislatore introduca strumenti di semplificazione dell’attività amministrativa, presupposti perché la fattispecie possa essere produttiva di effetti sono, indefettibilmente, la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell’autocertificazione, dovendo l’interessato rappresentare all’amministrazione tutti gli elementi necessari all’istruttoria procedimentale (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 7 aprile 2021, n. 2799).

Nel caso di specie, come già visto, la tesi della risalenza dei manufatti ad epoca antecedente il 1942 è solo genericamente esposta, senza nessuna allegazione probatoria a supporto.

Non coglie nel segno la tesi dell’appellante secondo cui il Comune avrebbe dovuto attivare il subprocedimento per il rilascio del provvedimento della soprintendenza: invero, una volta constatata la non sanabilità dei manufatti sotto il profilo edilizio ed urbanistico, il parere della soprintendenza, quand’anche favorevole, sarebbe stato irrilevante e comunque insufficiente, atteso che la disciplina edilizia/urbanistica e quella paesaggistica presidiano interessi diversi, fra loro convergenti ma non alternativi.

Infatti, i poteri volti all’accertamento della compatibilità urbanistica e paesaggistica di un’opera, ancorché incidenti sul medesimo ambito territoriale, appartengono ad autorità diverse e soprattutto sono funzionali alla cura di interessi diversi (il primo all’ordinato governo del territorio, il secondo alla tutela della identità estetico-culturale dei siti) (cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 5 febbraio 2023, n. 1229).

Tale conclusione, riveniente dall’inquadramento generale dei cc.dd. interessi differenziati rispetto all’urbanistica, è confermata dalla giurisprudenza costituzionale: «L’ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale, va ricercato non secondo il criterio dell’elemento materiale consistente nell’incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell’elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l’interesse riferibile al “governo del territorio” e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati» (Coste cost., 14 ottobre 2005, n. 383).

Dunque, l’eventuale e non dimostrata compatibilità paesaggistica dell’intervento non potrebbe in nessun caso superare la mancanza di conformità edilizia e urbanistica dello stesso.

Ciò posto, a fronte della natura pacificamente abusiva dei manufatti, il Comune non era tenuto né a comunicare l’avvio del procedimento, né ad instaurare alcun contraddittorio, né a motivare sull’interesse pubblico alla demolizione. Ciò in quanto l’art. 27 del DPR n. 380/2001 sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate.

Trattandosi di atto vincolato, il provvedimento è sufficientemente motivato con la specifica descrizione delle opere abusive e l’indicazione delle norme violate.

Proprio per tale natura dell’atto, è infondata la censura di violazione delle garanzie partecipative atteso che il provvedimento non sarebbe annullabile né per questo né per altri vizi procedimentali, ai sensi dell’art. 21 octies L. 241/90. Dunque, l’ordine di demolizione costituisce atto dovuto mentre la possibilità di non procedere alla rimozione degli abusi costituisce solo un’eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell’impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi (cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 8 marzo 2023, n. 2456).

Parimenti infondata è la censura di assenza nel provvedimento di una motivazione rafforzata sull’interesse pubblico alla demolizione dopo il lungo tempo trascorso, alla stregua dei principi affermati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 9 del 2017.

Alla luce delle considerazioni che precedono, risulta del tutto recessiva oltre che infondata la censura inerente alla parte provvedimentale avente ad oggetto la riacquisizione di efficacia della originaria ingiunzione di demolizione. Ciò sia perché, secondo giurisprudenza consolidata, la presentazione dell’istanza di sanatoria o di accertamento di conformità non pone nel nulla l’ingiunzione di demolizione ma ne sospende l’efficacia, il cui termine riprende a decorrere dopo l’adozione del provvedimento negativo sulla suddetta istanza, sia perché, come correttamente rilevato dal TAR, il Comune nel caso di specie ha comunque concesso ulteriori novanta giorni dalla notifica del provvedimento di inefficacia della SCIA.

Costituisce jus receptum che la domanda di accertamento di conformità determina un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, ma tale inefficacia opera in termini di mera sospensione; in caso di rigetto dell’istanza di sanatoria, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 3 novembre 2022, n. 9631).

Conclusivamente, per quanto precede, l’appello è stato respinto.