La Consulta invita il legislatore a riformare la responsabilità amministrativa, di Fabio Cusano

La Corte cost., 16 luglio 2024, n. 132 ha dichiarato inammissibili e non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 sollevate, in riferimento agli artt. 3, 28, 81, 97 e 103 Cost., dalla Corte dei conti, sez. giur. Campania.

La Corte dei conti, sez. giur. Campania, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 28, 81, 97 e 103 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, che prevede, per le condotte commissive, una temporanea limitazione della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi dolose. In particolare, la disposizione censurata stabiliva che, «[l]imitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2024, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente».

Il termine finale della delimitazione della responsabilità introdotta dalla disposizione censurata è stato più volte modificato. Tale termine, originariamente fissato al 31 luglio 2021, è stato in un primo momento, in sede di conversione, spostato al 31 dicembre 2021; poi al 30 giugno 2023, indi al 30 giugno 2024 e, infine, al 31 dicembre del medesimo anno (ad opera, rispettivamente, dell’art. 51, comma 1, lettera h, del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77; dell’art. 1, comma 12-quinques, lettera a, del decreto-legge 22 aprile 2023, n. 44; e dell’art. 8, comma 5-bis, del decreto-legge 30 dicembre 2023, n. 215).

Nel merito, la questione avente priorità logica è quella con cui il rimettente dubita che il legislatore possa discostarsi, senza porsi in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., dal principio generale dell’ordinamento che vedrebbe nella imputabilità a titolo di dolo e colpa grave il giusto «punto di equilibrio del sistema», che individua «il quantum di rischio che deve ricadere sul datore di lavoro amministrazione pubblica per i danni causati dai dipendenti, nell’ottica, da un lato», di incentivare l’operato attivo degli amministratori e, dall’altro, di «non incentivare condotte» negligenti e «foriere di danno».

La questione non è fondata.

L’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, ha introdotto una disciplina provvisoria (prorogata con successivi decreti-legge fino al 31 dicembre 2024), che, quanto alle condotte attive, limita la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti alle sole ipotesi dolose.

Il legislatore, con la disposizione in esame, ha così modificato, in via temporanea, la disciplina dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, che l’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994 (come modificato dall’art. 3, comma 1, lettera a, del d.l. n. 543 del 1996) àncora, a regime, al dolo e alla colpa grave.

Il legislatore, anche a mezzo del riassetto della responsabilità amministrativa operato dalla legge n. 20 del 1994 e dalle successive modifiche, intendeva promuovere un’amministrazione sempre meno relegata all’esecuzione del già deciso con la legge, ma orientata al risultato, e perciò sempre più ampiamente investita del compito di scegliere, nell’ambito della cornice legislativa, i mezzi di azione ritenuti più appropriati, di ponderare i molteplici interessi pubblici e privati coinvolti dalla decisione amministrativa, di legare insieme in un disegno unitario differenti atti e provvedimenti, e di assicurare l’efficienza, operando in un orizzonte temporale ben preciso (il tempo, a partire dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, non è più una variabile indipendente dell’agire amministrativo).

L’ampia discrezionalità, peraltro esercitata in un ambiente in cui la complessità istituzionale, sociale e giuridica è andata progressivamente crescendo, è una componente essenziale e caratterizzante tale tipo di amministrazione. La necessità di scegliere, entro un termine predeterminato, sovente tra un ventaglio ampio di possibilità e in un ambito non più integralmente tracciato dalla legge, accresce inevitabilmente la possibilità di errori da parte dell’agente pubblico, ingenerando il rischio della sua inazione.

Per evitare tale pericolo, come ricordato, l’art. 3, comma 1, lettera a), del d.l. n. 543 del 1996 (modificando l’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994), ha escluso la colpa lieve dalla configurazione dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, che pertanto è stata circoscritta ai casi di dolo o colpa grave.

Il sistema di tale responsabilità doveva, infatti, per necessità di armonia istituzionale, atteggiarsi in modo differente col cambiare del modello di amministrazione cui afferisce.

Questa Corte, chiamata a giudicare della legittimità costituzionale della da ultimo menzionata scelta legislativa, in una decisione che costituisce la testata d’angolo della sua giurisprudenza nella materia, ha chiarito che già i relativi lavori preparatori evidenziavano «l’intento di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa» (sentenza n. 371 del 1998).

Pertanto, «[n]ella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza che connotano l’istituto qui in esame, la disposizione risponde […] alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (così, la citata sentenza n. 371 del 1998).

In questa prospettiva va inquadrata la disciplina della responsabilità amministrativa in generale e del suo elemento soggettivo in particolare, e tale ottica è stata in seguito più volte ribadita (sentenze n. 203 del 2022 e n. 355 del 2010). Essa, dunque, si sostanzia nella scelta della ripartizione del rischio dell’attività tra l’apparato e l’agente pubblico, al fine di trovare un giusto punto di equilibrio.

Quest’ultimo va individuato tenendo conto, in particolare, di due esigenze.

Da una parte, la responsabilità amministrativa, oltre a una funzione risarcitoria, variamente modulabile, ha una funzione deterrente. La sua stessa esistenza scoraggia i comportamenti non solo dolosi ma anche gravemente negligenti dei funzionari pubblici, che pregiudicano il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e gli interessi degli stessi amministrati, la cui contribuzione al funzionamento della macchina pubblica potrebbe essere dissipata senza alcun beneficio per la collettività. Dall’altra parte, vi è l’esigenza di impedire che, in relazione alle modalità dell’agire amministrativo, il rischio dell’attività sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento.

Il punto di equilibrio può non essere fissato dal legislatore una volta per tutte, ma modulato in funzione del contesto istituzionale, giuridico e storico in cui opera l’agente pubblico, e del bilanciamento che il legislatore medesimo – nel rispetto del limite della ragionevolezza – intende effettuare, in tale contesto, tra le due menzionate esigenze. La stessa scelta legislativa della limitazione della responsabilità alle ipotesi dolose e gravemente colpose, positivamente scrutinata da questa Corte con la citata sentenza n. 371 del 1998, si collocava nel processo di trasformazione dell’amministrazione di cui si è fatto cenno.

In linea con le considerazioni testé svolte, nella giurisprudenza costituzionale è del resto costante l’affermazione che la concreta configurazione della responsabilità amministrativa e la definizione del margine di discostamento dai principi comuni della materia sono rimessi alla discrezionalità del legislatore (sentenze n. 123 del 2023, n. 203 del 2022, n. 355 del 2010, n. 371 del 1998, n. 411 del 1988 e ordinanza n. 168 del 2019), «con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della scelta» (sentenza n. 355 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 371 del 1998, ordinanze n. 168 del 2019, n. 219, n. 221 e n. 286 del 2011).

Nei decenni successivi alla riforma della responsabilità amministrativa del 1994 la complessità dell’ambiente in cui operano gli agenti pubblici è divenuta ancora maggiore, sul piano istituzionale, giuridico e fattuale, rendendo più difficili le scelte amministrative in cui si estrinseca la discrezionalità e più facile l’errore, anche grave.

Da un lato, il pluralismo sociale e il pluralismo istituzionale si proiettano nei procedimenti amministrativi e nelle istituzioni pubbliche, rendendo sempre più problematica ed esposta alla contestazione la ponderazione di tali interessi in cui si risolve l’esercizio della discrezionalità amministrativa. Dall’altro, vi è il moltiplicarsi dei rischi provocati dalla stessa attività umana e che spesso sono conseguenze non intenzionali dello sviluppo tecnologico ed economico (rischi ambientali, sanitari, connessi al clima, legati alle dinamiche delle catene globali del valore, finanziari, inerenti alla sicurezza pubblica, et cetera). Sull’agente pubblico si scarica così la difficile scelta tra quale delle due esigenze privilegiare: l’esigenza di precauzione, con i suoi costi, ovvero quella di favorire l’iniziativa economica, la creazione di posti di lavoro, la raccolta di risorse sui mercati finanziari, e cioè tutte attività che, in caso di concretizzazione di qualcuno dei rischi menzionati, sono suscettibili di cagionare danni all’amministrazione e alla collettività.

Gli sviluppi sinteticamente richiamati hanno accentuato la “fatica dell’amministrare”, rendendo difficile l’esercizio della discrezionalità amministrativa e stimolando, come reazione al rischio percepito di incorrere in responsabilità, la “burocrazia difensiva”. Quest’ultima risulta peraltro alimentata anche dall’incertezza provocata da una disciplina che si affida a un concetto giuridico indeterminato, quale quello della colpa grave, anziché procedere a una sua tipizzazione.

Il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i profondi mutamenti del contesto in cui essa opera giustificano la ricerca legislativa di nuovi punti di equilibrio che riducano la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione.

Come avviene anche per altre forme di responsabilità, è necessario ricercare un equilibrio tra i pericoli di overdeterrence e underdeterrence. Non esiste una disciplina che li escluda entrambi e il legislatore è chiamato inevitabilmente a decidere di contrastare prevalentemente l’uno o l’altro, e inversamente di considerare socialmente più accettabile un pericolo anziché l’altro.

Le ricordate trasformazioni, tuttavia, non potrebbero concretizzarsi, sullo specifico piano dell’elemento soggettivo, in un regime ordinario che limitasse la responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo.

In tale evenienza, infatti, non si realizzerebbe una ragionevole ripartizione del rischio, che invece sarebbe addossato in modo assolutamente prevalente alla collettività, la quale dovrebbe sopportare integralmente il danno arrecato dall’agente pubblico. I comportamenti macroscopicamente negligenti non sarebbero scoraggiati e, pertanto, la funzione deterrente della responsabilità amministrativa, strumentale al buon andamento dell’amministrazione, ne sarebbe irrimediabilmente indebolita.

Diverso, però, è il caso in cui la disciplina che circoscriva alle sole ipotesi di dolo l’elemento soggettivo della responsabilità riguardi esclusivamente un numero limitato di agenti pubblici o determinate attività amministrative, allorché esse presentino, per le loro caratteristiche intrinseche, un grado di rischio di danno talmente elevato da scoraggiare sistematicamente l’azione e dare luogo alla “amministrazione difensiva”.

Parimenti, può essere ritenuta non irragionevole una disciplina provvisoria che limiti al dolo l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, avuto riguardo a un contesto particolare che richieda tale limitazione al fine di assicurare la maggiore efficacia dell’attività amministrativa e, attraverso essa, la tutela di interessi di rilievo costituzionale.

Una disciplina provvisoria che limiti l’elemento soggettivo al dolo può essere non irragionevole, anche se indebolisce la funzione deterrente, in quanto radicata nella particolarità di uno specifico contesto in cui la tutela di fondamentali interessi di rilievo costituzionale richieda che l’attività amministrativa si svolga in modo tempestivo e senza alcun tipo di ostacoli, neppure di quelli che derivano dal timore di incorrere (al di fuori delle ipotesi dolose) nella responsabilità amministrativa.

Questo è il caso della disposizione oggetto di censura, che origina in un contesto del tutto peculiare e che pone una disciplina provvisoria, la cui efficacia cesserà il 31 dicembre 2024.

Tale disposizione è stata introdotta dal d.l. n. 76 del 2020, che, come esplicitato nel suo preambolo, è stato adottato in ragione della «straordinaria necessità e urgenza di realizzare un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di legalità», e di «introdurre misure di semplificazione procedimentale e di sostegno e diffusione dell’amministrazione digitale, nonché interventi di semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni, nonché di adottare misure di semplificazione in materia di attività imprenditoriale, di ambiente e di green economy, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all’emergenza epidemiologica da Covid-19».

Nel Capo IV del Titolo II del decreto-legge in esame, dedicato alle responsabilità dei dipendenti pubblici, il legislatore è intervenuto, con l’art. 21, sulla disciplina della responsabilità amministrativa, e, all’art. 23, ha modificato in senso restrittivo la disciplina del reato di abuso d’ufficio. Come ha osservato questa Corte, quando ha deciso le questioni di legittimità costituzionale sollevate sul citato art. 23, il d.l. n. 76 del 2020 si occupa, nel Capo menzionato, «delle due principali fonti di “timore” per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi “atteggiamenti difensivistici”): la responsabilità erariale e la responsabilità penale» (sentenza n. 8 del 2022).

Nella medesima sentenza, si è osservato che, «[b]enché l’esigenza di contrastare la “burocrazia difensiva” e i suoi guasti, agendo sulle cause del fenomeno, fosse già da tempo avvertita, la scelta di porre mano all’intervento è maturata solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza».

La disposizione censurata, pertanto, può trovare idonea giustificazione in relazione al peculiarissimo contesto economico e sociale in cui l’emergenza pandemica da COVID-19 aveva determinato la prolungata chiusura delle attività produttive, con danni enormi per l’economia nazionale e conseguente perdita di numerosi punti del prodotto interno lordo (PIL), e che aveva ovvie ricadute negative sulla stessa coesione sociale e la tutela dei diritti.

Per superare la grave crisi e rimettere in movimento il motore dell’economia, il legislatore ha ritenuto indispensabile che l’amministrazione pubblica operasse senza remore e non fosse, al contrario, a causa della sua inerzia, un fattore di ostacolo alla ripresa economica.

Tale esigenza era legata alla tutela di interessi vitali della società italiana, dotati di una sicura rilevanza costituzionale, tra cui, a titolo esemplificativo, si menzionano l’eguaglianza (art. 3 Cost.), il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), i vari diritti sociali la cui effettività richiede che nel bilancio pubblico possano confluire risorse con cui sostenere finanziariamente le correlate prestazioni pubbliche (artt. 32, 33, 34 e 38 Cost.), e la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.).

L’esigenza di contrastare nel modo più efficace possibile la tendenza alla “burocrazia difensiva” – che si è accentuata per effetto delle trasformazioni strutturali precedentemente sintetizzate – induceva il legislatore, nel contesto descritto, allo spostamento temporaneo della configurazione dell’elemento soggettivo verso il polo dell’underdeterrence.

L’obiettivo di stimolare l’attività degli agenti pubblici in un contesto specifico e provvisorio, evitando che la responsabilità amministrativa possa operare come disincentivo, si riflette, poi, coerentemente, nella limitazione dell’intervento legislativo alle sole condotte attive, «in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo» (così la relazione illustrativa del d.l. n. 76 del 2020.

Le proroghe della disposizione censurata sono state operate nella fase successiva alla crisi economica provocata dalla pandemia.

In questa nuova fase si è manifestata la necessità di «semplificare e agevolare la realizzazione dei traguardi e degli obiettivi stabiliti» (così, il dossier del servizio studi del Senato n. 394/3 del 26 luglio 2021, relativo al d.l. n. 77 del 2021) dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), in attesa, peraltro, di una «complessiva revisione della disciplina sulla responsabilità amministrativo-contabile» (così, l’art. 1, comma 12-quinquies, lettera a, del d.l. n. 44 del 2023).

Compromettere l’attuazione del PNRR equivale a impedire la ripresa di un sentiero di crescita economica sostenibile e il superamento di alcuni divari economici, sociali e di genere. Con la conseguenza che l’inerzia amministrativa, nel contesto descritto, viene a pregiudicare gravemente interessi di grande rilevanza costituzionale, quali il rispetto degli obblighi assunti in sede UE (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), la tutela dell’ambiente (art. 9 Cost.) e la realizzazione di un’economia sostenibile (art. 41 Cost.), l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico (art. 81 Cost.), gli interessi delle future generazioni (art. 9 Cost.), l’eguaglianza, anche di genere (art. 3 Cost.), e la coesione territoriale (artt. 5 e 119 Cost). Il che, anche per tale fase, rende ragionevole il punto di equilibrio che, limitatamente alle condotte attive, provvisoriamente limita l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa al solo dolo.

Con la seconda questione, il rimettente lamenta la violazione dei principi di ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione, sotto il profilo del difetto di proporzionalità e congruità dello spettro applicativo della disposizione.

Secondo il giudice a quo, infatti, la pur legittima finalità perseguita da quest’ultima sarebbe tradita dalla ricomprensione nel suo ambito di operatività delle condotte materiali, di quelle non inerenti alla gestione dell’attività pandemica e al rilancio dell’economia, nonché di quelle foriere di danni diretti all’amministrazione.

Deve innanzitutto precisarsi, che – a differenza di quanto in alcuni passaggi sembra assumere la Corte dei conti e come risulta evidente dalle considerazioni rassegnate nel paragrafo che precede – la norma censurata non è finalizzata a fare fronte alla gestione dell’emergenza pandemica.

Essa, invece, persegue, nella sua logica iniziale, il fine ultimo di contribuire al rilancio dell’economia a seguito della sua ben nota crisi, ingenerata, in primo luogo, dalla pandemia; e, in relazione alle proroghe, quello di consentire l’imprescindibile raggiungimento degli obiettivi posti dal PNRR.

Anche tale questione non è fondata.

Nel valutare la proporzionalità dell’intervento legislativo deve in primo luogo osservarsi che esso origina, come già chiarito, da un contesto eccezionale, ha natura temporanea ed ha comunque un oggetto delimitato, riguardando solo le condotte commissive e non quelle “inerti” ed “omissive”.

In secondo luogo, può convenirsi con il rimettente che la limitazione della responsabilità amministrativa per tutte le condotte attive possa apparire, prima facie, di dubbia legittimità costituzionale, ove si parta dal rilievo che lo spostamento del cennato punto di equilibrio è stato originariamente dettato dalla necessità di raggiungere il fine ultimo di favorire la ripartenza dell’economia, fine rispetto al quale alcune di quelle condotte – specie quelle materiali – potrebbero ritenersi irrilevanti.

Deve tuttavia essere considerato, in senso contrario, che l’attività della pubblica amministrazione è sempre funzionalizzata alla cura di interessi pubblici, sia quando si estrinseca attraverso atti e provvedimenti, sia quando si estrinseca attraverso comportamenti materiali, e l’operato dei pubblici dipendenti, a qualsiasi livello, può incidere sull’efficacia ed efficienza dell’amministrazione medesima.

Parallelamente, la “burocrazia difensiva” non si annida necessariamente nelle sole attività procedimentali o provvedimentali o nei grandi centri decisionali, ma è in grado di interessare trasversalmente l’intero operato della pubblica amministrazione.

Ciò – nel peculiarissimo contesto dato e unitamente alla obiettiva difficoltà di individuare ex ante e in maniera esaustiva le attività immediatamente rispondenti all’urgente bisogno di favorire la ripresa economica – rende non manifestamente incongrua la scelta legislativa iniziale di combattere la “burocrazia difensiva” su “grande scala”, ingenerando un complessivo clima di fiducia tra gli agenti pubblici, volto a favorire la spinta dell’intera macchina amministrativa.

Per le stesse ragioni si giustifica, nella fase successiva, la mancata distinzione tra attività legate all’attuazione del PNNR e attività ad essa estranee, specie ove si consideri che, nel concreto dispiegarsi dell’attività amministrativa, vi possono essere attività ed opere che, per quanto non ricomprese nel Piano, ad esse risultano strettamente connesse o funzionali.

Né, da questa angolazione, assume alcun rilievo la distinzione tra attività del pubblico dipendente che possano cagionare danni indiretti (quelli, cioè, subiti dall’amministrazione per essere stata condannata al risarcimento in favore di terzi) e attività che possano cagionare danni diretti, per le quali ultime mai vi sarebbe, secondo il rimettente, un collegamento con la finalità di fronteggiare le conseguenze economiche derivanti dalla pandemia.

Con la misura in esame, il legislatore ha difatti inteso favorire la realizzazione di investimenti non solo privati ma anche pubblici, con la conseguenza che un atteggiamento difensivo rispetto a quest’ultimi, pur potendo in ipotesi (ma non sempre) non cagionare danni a terzi, ben potrebbe determinare un rallentamento di un’opera o di un servizio utili all’incremento della ricchezza collettiva.

Parimenti non fondata è poi la questione con cui si lamenta la violazione del principio di eguaglianza, sull’assunto che la disposizione in esame operi una «discriminazione irragionevole» tra coloro che hanno la gestione attiva e il compito «di predisporre i provvedimenti amministrativi» e coloro che hanno “solo” obblighi di controllo e vigilanza, i quali ultimi, a differenza dei primi, continuerebbero a rispondere anche per condotte commissive connotate da colpa grave.

Come osservato dallo stesso rimettente in punto di rilevanza, infatti, anche l’esercizio della funzione di controllo, al pari di quella di amministrazione attiva, può esplicarsi sia in condotte naturalisticamente commissive che omissive: in entrambi i casi, l’esenzione da responsabilità prevista dalla disposizione censurata riguarda esclusivamente le prime, donde l’insussistenza della denunziata disparità di trattamento.

Ancora non fondata è la questione con cui è dedotto un ulteriore profilo di violazione del principio di eguaglianza, per avere l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, apprestato un trattamento di favore ai dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, dal momento che i primi, i quali «già godono di un’esenzione per colpa lieve, nell’attualità sono ancora più avvantaggiati», «essendo responsabili nel periodo di vigenza della norma solo per condotte attive dolose o omissive gravemente colpose».

Le categorie prese in considerazione dal rimettente, infatti, non sono omogenee, in quanto soggette a statuti diversi (tra le tante, sentenze n. 178 del 2015, n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008), anche e soprattutto in punto di responsabilità: quella del dipendente privato è pienamente risarcitoria e integralmente disciplinata dal codice civile, mentre quella del pubblico dipendente ha la natura sopra ricordata, in più punti derogatoria delle regole generali.

Inammissibili per inconferenza del parametro sono, da ultimo, le questioni con cui il rimettente deduce la violazione degli artt. 28, 81 e 103 Cost.

Il primo degli evocati parametri, infatti, concerne esclusivamente la responsabilità del pubblico dipendente verso terzi e non quella amministrativo-contabile (sentenze n. 1032 del 1988, n. 70 del 1983 e n. 164 del 1982).

Il secondo, invece, «attiene ai limiti al cui rispetto è vincolato il legislatore ordinario nella sua politica finanziaria, ma non concerne le scelte che il medesimo compie nel ben diverso ambito della disciplina della responsabilità amministrativa (da ultimo, v. sentenza n. 327 del 1998)» (sentenza n. 371 del 1998; nello stesso senso, sentenza n. 355 del 2010).

L’art. 103 Cost., infine, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non è suscettibile di vulnus ad opera di disposizioni, quale quella di specie, che disciplinino, sul piano sostanziale, gli elementi della responsabilità amministrativa, riguardando esso il diverso profilo esterno del riparto di giurisdizione tra il giudice contabile e gli altri giudici (tra le tante, sentenze n. 355 del 2010, n. 371 e n. 327 del 1998, e n. 70 del 1983).

Il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i mutamenti strutturali del contesto istituzionale, giuridico e sociale in cui essa opera, come si è già messo in evidenza, giustificano la ricerca, a regime, di nuovi punti di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, con l’obiettivo di rendere la responsabilità ragione di stimolo e non disincentivo all’azione.

In assenza di simili interventi, il fenomeno della “burocrazia difensiva”, dopo la scadenza del regime provvisorio oggetto della disposizione censurata, sarebbe destinato a rispandersi e la percezione da parte dell’agente pubblico di un eccesso di deterrenza tornerebbe a rallentare l’azione amministrativa. Ne sarebbero pregiudicati, oltre al principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione, anche altri rilevanti interessi costituzionali.

Pertanto, una complessiva riforma della responsabilità amministrativa è richiesta per ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le più volte richiamate trasformazioni dell’amministrazione e del contesto in cui essa deve operare.