Antonio Bartolini, I diritti edificatori tra diritto pubblico e diritto privato

di 31 Ottobre 2025 Articoli, Senza categoria

Se oggi fosse tra noi Otto Mayer, egli avrebbe certamente provato un profondo malessere rispetto al tema dei diritti edificatori; Mayer, padre del diritto amministrativo della pandettistica tedesca e della nostra tradizione giuridica, aveva una visione fortemente autoritativa e strutturalistica. Come è noto, aveva lanciato un anatema sulla negoziazione dei pubblici interessi: per lui esisteva solo il provvedimento autoritativo, espressione di un diritto speciale pubblico distinto e incomunicante rispetto al diritto privato. Alla luce di questo schema, il tema dei diritti edificatori sarebbe stato per Mayer inconcepibile; egli si sarebbe collocato da una parte, mentre i privatisti sarebbero rimasti dall’altra: un confine netto e invalicabile. Eppure, oggi, la questione che affrontiamo vive contemporaneamente dentro il diritto pubblico e dentro il diritto privato. Io non credo alla teoria della “fluidità” totale, per cui tutto si confonde in un unico fiume indistinto; tuttavia, nel campo dei diritti edificatori i confini sono indubbiamente mobili: essi escono dallo schema maieriano del provvedimento autoritativo e dal paradigma della legalità forte che ha caratterizzato la tradizione amministrativa. Qui la legalità appare sfumata, e ciò segna un diverso modo di essere tanto del diritto amministrativo quanto del diritto privato.

Vorrei partire dalla questione del piano regolatore di Torino, per mostrare come nascano i diritti edificatori come fenomeno giuridico. Nella voce da me recentemente scritta sull’Urbanistica nel nuovo volume dell’Enciclopedia del diritto dedicato alle Funzioni, seguendo la teoria dei formanti di Sacco, ho evidenziato come i diritti edificatori e, più in generale, la perequazione urbanistica non nascano dal diritto positivo, ma dalla scienza urbanistica intesa in senso proprio, cioè dalla scienza degli urbanisti; ciò in quanto ci troviamo in una situazione che definirei di “latitanza del legislatore” in materia urbanistica. La normativa di principi statale è ancora quella del 1942 (legge n. 1150), che ha da poco compiuto ottant’anni ed è ormai del tutto slabbrata; se andiamo a verificare, non troviamo più veri principi che regolino la legislazione regionale. In questa assenza del legislatore statale si è creato un problema di supplenza e, come avviene in tutte le teorie dei poteri, se c’è un vuoto, qualcuno lo riempie. A colmare il vuoto sono stati proprio gli urbanisti, chiamati dai comuni a redigere i piani regolatori; essi hanno applicato le loro teorie urbanistiche e le hanno normativizzate attraverso la redazione delle norme tecniche di attuazione (NTA): queste norme, formalmente approvate dai consigli comunali, sono in realtà redatte dagli urbanisti e contengono tutti gli strumenti che oggi conosciamo: la perequazione urbanistica, le compensazioni, le premialità, la circolazione dei diritti edificatori, i “diritti che volano e atterrano”. Abbiamo quindi un formante particolare: quello tecnico-urbanistico. Ricordiamo che le NTA non sono neppure tecnicamente “norme giuridiche”: ancora oggi non sappiamo se abbiano natura regolamentare o di atto amministrativo generale. La giurisprudenza e la dottrina prevalenti propendono per la seconda soluzione. Questo formante, nato dalla scienza urbanistica, passa nelle NTA, poi approda dinanzi al giudice amministrativo; è lì che trova un ulteriore punto di emersione: la giurisprudenza, chiamata a verificare la legittimità di queste nuove regole di perequazione urbanistica in assenza di previsioni legislative, ne riconosce il valore; con grande coraggio, essa legittima la perequazione come strumento utile, fondato sull’art. 3 Cost., perché in grado di risolvere problemi annosi come quello della rendita fondiaria e del conflitto urbanistico. Ricordo, ad esempio, la prima sentenza sul piano regolatore di Reggio Emilia. Così il formante tecnico si è trasformato in formante giurisprudenziale.

A questo punto, anche i legislatori regionali più avvertiti hanno iniziato a recepire questa esperienza, introducendo nei propri ordinamenti i sistemi di perequazione e di diritti edificatori. Ricordo, ad esempio, la legge urbanistica veneta del 2004, che parlava espressamente di crediti edilizi. Questa terminologia mi colpì: mi resi conto che quei diritti, che poi saranno denominati a livello nazionale diritti edificatori, non potevano essere ridotti a meri crediti; fu in quel momento che cominciai a sostenere, da amministrativista, che si trattasse piuttosto di interessi legittimi. Ricordo ancora un convegno a Pescara con Paolo Stella Richter, Paolo Urbani e altri amici, in cui proposi questa qualificazione. La vicenda normativa è nota: dopo le leggi regionali, il legislatore statale si è “svegliato” solo nel 2011, inserendo nell’art. 2643, comma 2-bis, c.c., la previsione sull’obbligo di trascrizione dei contratti che costituiscono, trasferiscono o modificano i diritti edificatori «comunque denominati», sia se previsti da leggi statali o regionali, sia se introdotti dagli strumenti urbanistici. Il problema della loro natura – interesse legittimo o diritto soggettivo – resta però aperto. Dal punto di vista dell’amministrativista, essi nascono dal piano, non dal contratto. Non è l’autonomia privata a crearli, bensì il potere di conformazione urbanistica.

Il fenomeno dei diritti edificatori non può essere separato dalla perequazione urbanistica; essi esistono in quanto i piani sono perequativi e i piani perequativi funzionano in quanto i diritti possono circolare. Si tratta di un fenomeno nato dal basso, dall’autonomia comunale, non dall’iniziativa del legislatore. Per questo motivo i comuni hanno spesso dovuto ricorrere a strumenti del diritto privato: convenzioni, accordi, contratti. La legalità “forte” del potere autoritativo cede così il passo ad una legalità “consensuale”. Il sistema funziona attraverso incentivi: il comune riconosce un plafond minimo di diritti edificatori e attribuisce diritti ulteriori (premi) se il privato orienta i propri progetti verso finalità pubbliche (edilizia sociale, rigenerazione urbana, eliminazione di detrattori ambientali, ecc.). Questo ha prodotto una vera rivoluzione: il contenzioso urbanistico dinanzi al Consiglio di Stato è drasticamente diminuito, sostituito da dinamiche consensuali.

Un punto fermo resta però: i diritti edificatori non possono essere creati dal nulla, come se fossero “bitcoin urbanistici”. Essi derivano sempre da un piano e devono sempre “atterrare” nella proprietà privata. La Corte costituzionale, sentenza n. 5 del 1980, ha chiarito che il nostro sistema non è concessorio ma fondato sull’uso edificatorio come facoltà insita nel diritto di proprietà. Non è quindi possibile creare diritti edificatori in maniera autoreferenziale: esiste un vero e proprio divieto di autopoiesi.

Resta il problema della loro qualificazione. La dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato soluzioni differenti. Personalmente, rispetto alla posizione del 2007, ho maturato un approccio più sfumato: si tratta di un fenomeno di pluri-qualificazione, che varia a seconda dell’osservatorio. Nello scambio tra privati, essi possono essere considerati diritti soggettivi, di natura obbligatoria. Nel momento in cui il privato chiede il permesso di costruire, il diritto edificatorio “ritorna nella res” e la situazione soggettiva assume la forma di interesse legittimo, poiché il permesso è atto vincolato ma pur sempre autorizzatorio. In definitiva, la questione non si risolve in un conflitto tra pubblico e privato, ma in un dialogo che genera un diritto nuovo: quello dei diritti edificatori, frutto dell’integrazione tra i due mondi.